L’azione
civile contro la discriminazione (art.
44 D. lgs. 25 luglio 1998 n. 286, "Testo Unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero") di
Antonello Di Muro
Nelle pieghe della nuova
normativa in materia di immigrazione si nasconde un istituto poco noto e,
almeno sinora, assai di rado invocato nelle aule giudiziarie; esso,
tuttavia, si ravvisa di notevole interesse tanto sotto il profilo teorico
(per i numerosi problemi di diritto sostanziale e processuale che esso
pone), quanto sul piano sociale: si tratta della "azione civile contro
la discriminazione". L’istituto, introdotto
dall’art. 42 dalla legge 6 marzo 1998 n. 40 (c.d. legge Turco-Napolitano),
trova oggi la sua disciplina nel Testo Unico regolatore della materia
adottato con Decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (di seguito, T.U.
Imm.) che, al comma 1 dell’art. 44, così dispone: "Quando il comportamento
di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione
per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su
istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e
adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a
rimuovere gli effetti della discriminazione". Va da subito detto che, malgrado
la sedes materiae, la tutela apprestata dalla norma in commento non
riguarda unicamente gli immigrati extracomunitari, ma tutti coloro che siano
vittime di una discriminazione per i motivi in essa menzionati: a fugare
ogni dubbio soccorre, difatti, l’ultimo comma dell’art. 43 del medesimo
Testo Unico: "Il presente articolo e
l’articolo 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o
discriminatori compiuti nei confronti di cittadini italiani, di apolidi e di
cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea presenti in
Italia" Lo stesso articolo 43 T.U. Imm.
chiarisce (o quantomeno, si propone di chiarire) il concetto di
discriminazione, con la seguente definizione di ordine generale: "Ai fini del presente
capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o
indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o
preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine
nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo
scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il godimento o
l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico e sociale e culturale e in ogni
altro settore della vita pubblica.". Siffatta definizione, benché
ritenuta da alcuni autori di portata particolarmente ampia, si mostra per
taluni aspetti piuttosto restrittiva: alla sua stregua, infatti, per aversi
"discriminazione", non è sufficiente un qualsiasi trattamento
discriminatorio su base religiosa, razziale o etnico-nazionale, ma è
necessario che tale trattamento abbia arrecato pregiudizio a "diritti
umani o libertà fondamentali". A nostro giudizio, sarebbe stato
molto più corretto precisare che ogni discriminazione religiosa, razziale o
etnico-nazionale, quand’anche immediatamente lesiva di beni o interessi
marginali, porta in sé una carica offensiva di tale gravità da renderla,
automaticamente, una intollerabile violazione dei diritti umani. Con ogni probabilità, la sola
ragione che ha indotto il legislatore ad adottare una definizione generale
(a nostro avviso) così limitata è stata quella di rimanere fedele il più
possibile alla nozione di discriminazione adoperata in importanti
convenzioni internazionali ratificate dall’Italia. Si è dimenticato, però,
che tali convenzioni intendevano soltanto introdurre standard minimi
antidiscriminatori, e non certo vietare agli Stati contraenti di adottare
definizioni più ampie e maggiormente garantistiche. Due aspetti della definizione
legislativa meritano, però, sicuro apprezzamento. E’ apprezzabile, in primo
luogo, che sia stata affermata la piena equivalenza fra comportamento
intenzionalmente diretto alla lesione ("che abbia lo scopo") e
comportamento con effetto comunque lesivo, sebbene in modo involontario, dei
diritti umani. E’ apprezzabile, inoltre,
l’aver fatto riferimento non solo alle discriminazioni dirette, ma anche
ai comportamenti indirettamente discriminatori; e cioè a quei comportamenti
che operano distinzioni in base a criteri apparentemente neutri, ma in
concreto idonei a realizzare un "effetto di esclusione". Alla definizione generale sopra
esaminata il legislatore fa seguire, adottando quella tecnica della black
list sviluppatasi in sede comunitaria ma sempre più spesso utilizzata
anche nel diritto interno, una puntigliosa elencazione di comportamenti che
debbono reputarsi "in ogni caso" discriminatori: (art. 43, co. 2 T.U. Imm..)
In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la
persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio
di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od
ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa
della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata
razza, religione, etnia o nazionali, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga
condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti
a l pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di
straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità; c) chiunque illegittimamente
imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso
all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi
sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in
Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca,
mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività economica
legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in
Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o
nazionalità; e) il datore di lavoro o i
suoi preposti i quali, ai sensi dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970,
n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e
dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento
che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente,
i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo
etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza.
Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata
razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata
confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non
essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. Non è certo questa la sede più
appropriata per una analisi critica delle singole ipotesi tipiche di
discriminazione; basterà, ai nostri fini, sottolinearne rapidamente taluni
degli aspetti positivi e negativi più evidenti. In relazione agli aspetti
positivi, va osservato come talune condotte menzionate nella black list
(ad esempio, quelle sub b) non sembrino affatto necessariamente lesive, in
via immediata, di diritti umani fondamentali; ne esce avvalorata, pertanto,
la possibilità di operare una lettura estensiva della stessa clausola
generale: come si è già detto sopra, ogni discriminazione, anche se
relativa a beni "minori", dovrebbe essere reputata di per sé una
grave violazione dei diritti umani. In ordine agli spetti negativi,
occorre seriamente riflettere sui limiti di tutela derivanti dall'inciso,
ricorrente in tutte le ipotesi di condotte catalogate nella black list,
"soltanto a causa della sua condizione di straniero o di
appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità". Il primo limite, di ordine
sostanziale, risultava già evidente dalla definizione generale di
discriminazione (art. 43 co 1 TU Imm) e dal primo comma dell'art.44: la
azione civile contro la discriminazione riguarda unicamente le
discriminazioni a base razziale-nazionale-religiosa, e non tutte le
possibili ipotesi di discriminazione. Si può sin d'ora immaginare una
possibile vicenda processuale apparentemente paradossale: 1) un uomo di
colore, sentendosi negare l'accesso a beni offerti al pubblico, agisce nelle
forme di cui all'art. 44 T.U. Imm. contro la ingiusta discriminazione ai
suoi danni; 2) l'autore della discriminazione si costituisce in giudizio e,
senza contestare i fatti posti a fondamento della domanda, spiega di aver
discriminato l'attore non già a causa del colore della pelle, bensì a
causa delle sue sgradevoli opinioni politiche. 3) il giudice si vede
costretto a rigettare la domanda. Orbene, una disciplina con
simili vuoti di tutela appare irragionevole e di costituzionalità assai
dubbia: a nostro giudizio, nell'apprestare una specifica tutela
antidiscriminatoria, il legislatore avrebbe dovuto "ricordarsi"
quantomeno di tutte le cause di disparità di trattamento vietate in modo
espresso dall'art. 3 della nostra Costituzione. Il secondo limite è, invece, di
ordine probatorio: dall'esame della disciplina si evince che è onere di chi
agisce allegare gli specifici elementi idonei a dimostrare la causa
razziale-nazionale-etnico-religiosa della discriminazione. Onere probatorio
che, se inteso in modo rigido, sconfinerebbe davvero nel diabolico. Proprio in virtù di tale
considerazione, il progetto di legge originario prevedeva che in talune
situazioni, a fronte di importanti elementi indiziari anche a carattere
statistico, l'onere della prova venisse ad invertirsi. Tale previsione è stata oggetto
di emendamento ed è divenuta, nella legge Turco-Napolitano e nel successivo
T.U. Imm., la seguente (probabilmente superflua perché rispondente a
principi generali) affermazione di ammissibilità della prova mediante
presunzioni: (art. 44 comma 9 T.U. Imm.).
Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del
comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o
linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o
della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere
statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi,
all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla
progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata. Il
giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art. 2729, primo comma,
del codice civile. Non appare inutile rammentare
che, ai sensi dell'art. 2729 c.c., l'efficacia probatoria delle presunzioni
è rimessa alla prudenza del giudice ed è comunque limitata alle sole
presunzioni "gravi, precise e concordanti".
Come si è già accennato,
l’azione civile contro la discriminazione è diretta ad ottenere che il
giudice ordini "la cessazione del comportamento
pregiudizievole" ed adotti "ogni altro provvedimento
idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della
discriminazione" (art 44 co 1 T.U. Imm.). Tale tecnica di tutela presenta,
per quanto concerne l’oggetto della domanda e la natura del provvedimento
del giudice, profonde affinità con quella predisposta per la repressione
delle condotta antisindacale dall’art. 28 legge n. 300/1970 (stat. lav.). In entrambi i casi, ci troviamo
di fronte ad un procedimento sommario destinato a concludersi, in caso di
esito positivo, con un decreto immediatamente esecutivo e potenzialmente
definitivo con duplice funzione inibitorio-preventiva (cessazione del
comportamento illegittimo) da un lato e repressivo-ripristinatoria
(rimozione degli effetti) dall’altro. A dire il vero, una ulteriore
affinità fra art. 28 stat. lav. e art. 44 T. U. Imm. è individuabile
ancora più a monte, e consiste nella curiosa circostanza che, in entrambi i
casi, siamo di fronte ad un "diritto in veste di azione"; ad un
diritto, cioè che (con inversione logica della struttura normale) non
preesiste, ma viene creato dalla stessa norma che ne appresta la tutela
giurisdizionale. Alla luce di tali circostanze,
risulta evidente come l’art. 28 abbia costituito il modello di riferimento
cui il legislatore ha inteso ispirarsi nell’introdurre la nuova azione
antidiscriminatoria; ne consegue, quale facile profezia, che nella
ricostruzione dell’oggetto della azione civile contro la discriminazione
la giurisprudenza tenderà a riproporre tesi e soluzioni ermeneutiche
consolidatesi in relazione alla repressione della condotta antisindacale. In relazione all’art. 28 stat.
lav., la casistica giurisprudenziale offre un ventaglio di provvedimenti di
condanna estremamente ampio: si va dalla condanna ad obblighi di fare
(reintegrazione del lavoratore) alla imposizione di obblighi di non fare
(cessazione della serrata), di tollerare e perfino di astenersi dal
rinnovare in futuro la condotta illecita. In relazione alla tutela
costitutiva, invece, non si è saputo ammettere che l’eliminazione
dell’atto giuridico reputato illecito. Proprio in relazione alla tutela
costitutiva, a nostro giudizio, con l’art. 44 T.U. Imm si potrebbe osare
qualcosa in più: in caso di rifiuto discriminatorio di atti giuridici,
siano essi di diritto privato o di natura amministrativa, si potrebbe
ventilare la possibilità di un provvedimento giudiziario produttivo degli
effetti dell’atto non compiuto. In altre parole, si potrebbe
pensare, a fronte di un rifiuto discriminatorio di locazione di un alloggio,
ad un provvedimento produttivo degli effetti del contratto non concluso,
ovvero, in caso di diniego discriminatorio di iscrizione ad una
associazione, ad una pronuncia sostitutiva della rifiutata iscrizione; ed
ancora, a fronte del rifiuto discriminatorio di una autorizzazione
amministrativa, ad una pronuncia giudiziaria produttiva degli effetti
dell’atto amministrativo non emanato. Siffatti provvedimenti,
sicuramente estranei alla nostra tradizione giuridica, costituirebbero di
certo pesanti ingerenze in ambiti tradizionalmente affidati alla
autodeterminazione dei privati ed alla discrezionalità
dell’amministrazione; eppure non è affatto escluso che essi debbano
ritenersi consentiti, e forse persino doverosi, dal momento che il giudice
non è chiamato soltanto (come nell’art. 28 stat. lav.) alla "rimozione
degli effetti", bensì alla adozione di "ogni provvedimento
idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della
discriminazione". Particolare menzione merita il
comma 7 dell’art. 44 T.U. Imm., ai sensi del quale: con la decisione che
definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al
risarcimento del danno, anche non patrimoniale. Si tratta, se non dell’unica,
di una delle rarissime ipotesi in cui, in modo espresso ed inequivoco, la
risarcibilità del danno non patrimoniale viene ammessa in via generale, e
cioè a prescindere dall’eventuale rilevanza penale della condotta
illecita. Quanto alla elastica espressione
"il giudice può", interpretando tale enunciato alla luce
delle speciali esigenze di protezione di chi è discriminato (e della
riconosciuta facoltà che costui agisca in giudizio personalmente) si dovrà
forse ritenere che il magistrato possa disporre il risarcimento danni anche
d’ufficio, derogando così al principio della corrispondenza fra chiesto e
pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. Come per l’art. 28 stat. lav.,
anche per la tutela antidiscriminatoria le garanzie di spontanea osservanza
del provvedimento del giudice sono state affidate alla minaccia di sanzioni
penali; difatti, (art. 44 comma 8 T. U. Imm)
Chiunque elude l’esecuzione dei provvedimenti del Pretore (oggi,
Tribunale) di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del Tribunale di cui al
comma 6 è punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice
penale. L’art. 388 comma primo c.p.,
al quale si rinvia, prevede il delitto di "mancata esecuzione dolosa di
un provvedimento del giudice", sanzionato nel massimo edittale con la
pena di tre anni di reclusione. Quanto alla individuazione dei
provvedimenti protetti da sanzione penale, va precisato che si tratta di
tutti i provvedimenti di accoglimento della domanda previsti dalla normativa
in esame, con la sola eccezione di quello relativo al risarcimento del
danno.
Ai sensi del comma 2 dell’art.
44 T.U. Imm. La domanda si propone con
ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del
Pretore (oggi, della
sede o sezione di Tribunale) del luogo di domicilio dell’istante. Fin qui, a parte il carattere
individuale dell’azione e la possibilità di stare in giudizio
personalmente, nessuna deviazione rispetto al modello costituito dall’art.
28 stat. lav.. Dopo l’atto introduttivo, però,
il processo non segue lo speciale rito sommario per la repressione della
condotta antisindacale, ma si sviluppa secondo disposizioni che riproducono,
alla lettera, le norme sul rito cautelare uniforme. Difatti, con norme praticamente
identiche a quelle di cui all’art. 669 sexies comma primo c.p.c., l’art.
44 commi 3 e 4 T.U. Imm. prevedono che 3. Il pretore, (oggi,
Tribunale in composizione monocratica) sentite le parti, omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene
più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai
presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore (Tribunale)
provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se
accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente
esecutivi. Assai simile all’art. 669
sexies comma secondo c.p.c. è, inoltre, la disposizione di cui all’art.
44 comma 5 T.U. Imm.: Nei casi di urgenza il
pretore (Tribunale)
provvede con decreto motivato, assunte, ove occorra, sommarie informazioni.
In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle
parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni,
assegnando all'istante un termine non superiore a otto giorni per la
notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il pretore (Tribunale),
con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel
decreto. Restano dubbie, però, le
implicazioni derivanti dall’uso della generica espressione "casi di
urgenza" in luogo di quella, apparentemente più specifica ("quando
la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del
provvedimento"), utilizzata in sede di disciplina del rito
cautelare uniforme. Malgrado l’evidente
somiglianza procedurale fra azione civile contro la discriminazione e rito
cautelare uniforme, il provvedimento antidiscriminatorio non ha affatto
natura cautelare: nessun dato normativo, infatti, autorizza a ritenere che
tale provvedimento sia meramente strumentale rispetto a (ossia, finalizzato
a salvaguardare l’utilità di) una ipotetica azione ordinaria a cognizione
piena. Il dato più sorprendente di
questa strana commistione di modelli incompatibili (tutela sommaria contro
le condotte antisindacali e rito cautelare) è che contro il provvedimento
finale del Tribunale monocratico, malgrado l’evidente natura non
cautelare, non è data (come nell’art. 28 stat. lav.), opposizione diretta
a provocare un successivo giudizio a cognizione piena, bensì, proprio come
per i provvedimenti cautelari, reclamo al collegio che procederà secondo le
regole del rito camerale; difatti (Art. 44 comma 6 T.U. Imm)
Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei
termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile.
Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice
di procedura civile. Tale scelta legislativa induce
notevoli perplessità, anche di legittimità costituzionale: è opinione
diffusa in dottrina che, di fronte a qualunque provvedimento sommario non
cautelare relativo a diritti soggettivi e astrattamente idoneo al giudicato,
il legislatore debba sempre, pena la lesione dei canoni del giusto processo
oggi consacrati nel novellato 111 Cost., riconoscere alla parte soccombente
la possibilità di aprire un processo di primo grado a cognizione piena. Sicché, ove volesse superarsi
in via di interpretazione ogni sospetto di incostituzionalità, non
resterebbero che le seguenti possibilità: riconoscere per analogia con
l’art. 28 stat. lav. la ammissibilità (seppur non sancita
legislativamente) di una opposizione diretta a provocare un giudizio a
cognizione piena, oppure negare al provvedimento contro la discriminazione
attitudine al giudicato, degradandolo al rango di titolo esecutivo di
formazione giudiziale idoneo ad essere travolto in ogni tempo da un
eventuale giudizio a cognizione piena.
Il
presente lavoro ha per oggetto unicamente l’azione individuale contro la
discriminazione. Non
sono stati pertanto esaminate, malgrado il loro estremo interesse, le
disposizioni di cui ai commi 10, 11 e 12 dell’art. 44 T.U. Imm. ______________________ 1)
Cfr. VANNA PALUMBO, commento all’art. 43 T.U. Imm. ne I quaderni
della rivista gli Stranieri n. 3, seconda edizione, novembre 1999,
Unionprinting ed., pag. 241. 2)
La definizione di discriminazione del T.U. Imm. sembra corrispondere, alla
lettera, a quella di discrimination raciale contenuta all’art.1
comma 1 della Convenzione ONU per l’eliminazione della discriminazione
razziale aperta a New York il 7 marzo del 1966, resa esecutiva con legge 1
ottobre 1975 n. 654, che afferma "Dans la présente Convention, l'expression
<<discrimination raciale>> vise toute distinction, exclusion,
restriction ou préférence fondée sur la race, la couleur, l'ascendance ou
l'origine nationale ou ethnique, qui a pour but ou pour effet de détruire
ou de compromettre la reconnaissance, la jouissance ou l'exercice, dans des
conditions d'égalité, des droits de l'homme et des libertés fondamentales
dans les domaines politique, économique, social et culturel ou dans tout
autre domaine de la vie publique". 3)
VANNA PALUMBO, cit., pag. 241. 4)
un notissimo esempio di tecnica della black list è dato dall’art
1469 quinquies cod. civ., introdotto (assieme all’intero capo relativo ai
contratti del consumatore) dalla legge n.56/1996 in attuazione della
direttiva 93/13 CEE. 5)
il quale, al primo comma, dispone che "qualora il datore di lavoro
ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio
della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero
… il Pretore (oggi Tribunale) del luogo ove è posto in essere il
comportamento denunziato … ordina al datore di lavoro, con decreto
motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento
illegittimo e la rimozione degli effetti". 6)
sull’art. 28 stat. lav., cfr. ANDREA PROTO PISANI, Diritto Processuale
civile, Jovene ed., 1996, pagg. 633 e seg.. 7)
sull’art. 28 stat. lav., cfr. FRANCESCO P. LUISO, Diritto processuale
civile, Giuffé ed., seconda edizione –1999, vol. IV, pag. 282. 8)
sul punto, VIRGILIO ROMOLI, I procedimenti sommari modellati sullo schema
del decreto ingiuntivo, in Quaderni del Consiglio superiore della
Magistratura, La tutela sommaria, vol. secondo (la tutela sommaria
non cautelare), Anno 1999 n. 106, pag. 293. 9)
Per una seppur timida apertura alla ammissibilità di provvedimenti
giudiziari con valore di contratto non concluso (c.d. "contratto
imposto") quale risarcimento in forma specifica a fronte di un rifiuto
persecutorio di contrarre da parte di un imprenditore commerciale, v.
RODOLFO SACCO, L’abuso della libertà contrattuale, in Diritto
privato 1997, l’abuso del diritto Cedam, 1998, pag. 222 sgg.. 10)
Meno rare, ma di certo non frequentissime (ad es., artt. 7 e 10 c.c.), le
ipotesi in cui la generale risarcibilità del danno non patrimoniale, non
affermata in modo esplicito, appare desumibile dalla legge in via
interpretativa; non costituisce, a nostro giudizio, una eccezionale ipotesi
di risarcibilità del danno non patrimoniale quella prevista dall’art. 89
c.p.c. : malgrado la causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p., il
patrocinatore che, negli scritti difensivi, fa uso di espressioni offensive,
compie una condotta (a seconda dei casi, ingiuriosa o diffamatoria)
sicuramente qualificabile come penalmente illecita. E’ pertanto ovvio che
ne consegua, ex art. 185 c.p., la risarcibilità del danno non patrimoniale. 11)
La minaccia penale è, nella ipotesi in esame, perfino più grave di quella
di cui all’art. 28 stat. lav.: lì, infatti, non si fa rinvio all’art.
388 c.p. bensì all’art. 650 c.p. che, nell’incriminare la
contravvenzione di "inosservanza dei provvedimenti dell’autorità",
la assoggetta alla pena massima edittale di tre mesi di reclusione. 12)
Cfr. FRANCESCO P. LUISO, Diritto processuale civile, Giuffré ed.,
seconda edizione –1999, vol. IV, pagg. 97 e 292, 13)
per una minore ampiezza dell’accertamento derivante da tutela sommaria,
ove sia esclusa la possibilità di cognizione piena differita, v. GIOVANNI
VERDE, la tutela sommaria in generale. I procedimenti sommari non
cautelari, in in Quaderni del Consiglio superiore della Magistratura, La
tutela sommaria, vol. secondo (la tutela sommaria non cautelare), Anno
1999 n. 106, pag. 23.
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