Dallimmediato
dopoguerra allinizio degli anni sessanta, il motivo letterario
in Italia è stato unico, e così profondamente individuato da
fondare quasi una forma di civiltà: è stato chiamato impegno.
Il riferimento ideale di esso era la Resistenza e il suo fine
era «rivelare» una realtà fino a quel momento mistificata, la
società italiana. Esso presupponeva una sorta di elastico dogmatismo,
proiettato verso il futuro: la prospettiva, o, più semplicemente,
la speranza. Ecco. Su questi dati che sono esteriori,
«da manuale» - si era formato tutto un capitolo della nostra
storia e della nostra letteratura.
La
situazione era caotica, perché da una parte consentiva il respiro
della libertà e della scoperta (sono nati in quegli anni il
cinema e il romanzo italiano) dallaltro si prestava a
irrigidimenti moralistici, a un radicalismo ricattatorio. Tutta
la critica marxista media di quel periodo, accettava per buoni
i dati che ho qui sopra schematizzato: essi costituivano la
«linea» culturale del partito. Ma appunto per questo per
lessere in possesso di una linea- cera sempre in
tale critica il pericolo dellirrigidimento moralistico
e del radicalismo ricattatorio. Si era formata nella testa del
critico marxista una specie di scala di valori sostanzialmente
manicheistica: così che egli applicava a un testo uno schema
critico monotono fino allossessione: si faceva delle domande
(esteriori) cui si dava delle risposte (esteriori) e il giudizio
di valore, infine, era sempre dunque moralistico. Egli si chiedeva
se unopera era populistica, umanitaria, cristianeggiante
ecc. ecc.: se era tale, andava condannata. Se invece rispondeva
a un certo spirito operistico, se la prospettiva ottimistica
era esplicita ecc. ecc., allora andava esaltata. Naturalmente
parlo della critica marxista minore, della gran massa, non di
quella più raffinata e problematica. Tuttavia cè da osservare
che un tale moralismo si è oggi conservato accumulandosi nella
parte più rigida e in un certo senso pura dello schieramento
marxista, mettiamo nella politica culturale del PSIUP o in quella
di certi scontenti marxisti, «compagnie picciole» sdegnose e
sconosciute, che nel loro massimalismo moralistico, condannano
tutto e tutti (forse a ragione: ma il loro torto è il riferimento
ossessivo al loro avere ragione). Mi riferisco, per es., al
gruppo dei Quaderni piacentini, dove si è rifugiato il
gruppo dei migliori critici marxisti peggiori: lo stalinismo
beatnik (che è tipico del resto di molti gruppi davanguardia,
a fare da paravento a un vecchio anarchismo borghese).
Ufficialmente,
invece, il PCI caduto e superato il decennio dellImpegno,
della Realtà e della Speranza- con la Resistenza più commemorata
che ricordata- ha
abbandonato ogni atteggiamento protettivo, dogmatico, parenetico
e moralistico.
Il
paragrafo culturale del X Congresso del PCI dà carta bianca
a tutti gli esperimenti letterari possibili: «Fate quello che
volete, poi vedremo» si legge tra le righe di quel paragrafo.
Una sorta di liberismo culturale,una dichiarazione ufficiale
di mancanza totale di programmi e di idee, una disponibilità
completa.
Apparentemente
questa liberalizzazione, si presenta come una conseguenza del
periodo kruscioviano e antistalinista. Ma a guardar bene, in
quel paragrafo si ha una ontologizzazione della libertà (lartista
è libero di fare i tentativi che crede: ma una libertà
senza confronti è una libertà mitica, è la libertà del liberalismo
borghese, una libertà, infine, pretestuale); in secondo luogo,
la mancata dichiarazione di nuovi programmi culturali, o, se
vogliamo, di una nuova «linea» culturale,non garantisce affatto
una reale libertà di giudizio. Anzi, il critico marxista militante,
che deve ogni giorno scrivere il suo pezzo, è, da tale paragrafo
del X Congresso del PCI, autorizzato a continuare il suo vecchio
metodo dogmatico-tatticistico (appena mascherato da maggiore
spregiudicatezza liberalistica) perché in realtà non sa
cosa volere e cosa richiedere a uno scrittore.
Ecco dunque un segno di crisi: anzi, una vera e propria
crisi della politica culturale marxista. Il realismo «impegnato»
è caduto, a al suo posto il marxismo italiano e non italiano,
non ha saputo elaborare nulla di nuovo. Ha deferito lelaborazione
di qualcosa di nuovo ai tentativi «da zero» degli scrittori,
adottando la «tattica» della liberalizzazione. Da qui linteresse
e lappoggio tattico alle «avanguardie». Che è semplicemente
mostruoso. Sarebbe come se gli uomini politici del PCI si attendessero
delle idee sociali e politiche utili dalla nuova sociologia,
che sta rispetto alla vecchia sociologia di Durkheim o del Weber,
esattamente come le nuove avanguardie stanno rispetto alle avanguardie
del primo Novecento.
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