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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
Per una alternativa allo sviluppo
P.zza A. Paleario 7
03100, Frosinone
ccp 10687036

DOCUMENTO POLITICO DELL’ASSOCIAZIONE OLTRE L’OCCIDENTE

ANALISI DELLA REALTA' NON PER DESCRIVERLA, MA PER TRASFORMARLA

 Dalla società industriale alla società post-industriale,  edonistica-consumistica. ed ormai della mercificazione assoluta

             Ci appare palese che una parte del mondo si ripiega nella difesa e nella ricerca della propria identità nazionale, mentre un'altra parte crede nella possibilità di uno sviluppo incontenibile ed inesauribile e vede il mondo come un ipermercato; per altri il mondo è un'impresa, una società di produzione e per altri ancora non si è giunti e probabilmente non si giungerà mai allo sviluppo di una coscienza dei fini delle proprie azioni: tali posizioni di fatto negano la possibilità di un soggetto libero e padrone della propria vita, libero dai ruoli e dalle norme che i sistemi impongono e che oggettivano il soggetto per meglio controllarlo.

            La nuova società, che possiamo chiamare post-industriale, sia per il cambiamento economico che questa ha messo in atto nell'ultimo mezzo secolo (il passaggio da una economia basata sulla produzione ad una basata sui servizi), sia perché sottintende un passaggio di cultura e di civiltà dalla società industriale a quella successiva, è definita dallo sviluppo inteso come crescita economica,  ed essa si propone come un sistema  ad economia di mercato, deregolamentato, privatizzato, competitivo, globalizzato, ad alta intensità tecnologica.

            E' visibile la differenza con le società preindustriali il cui modello culturale è legato a dei garanti religiosi o economici dell'ordine sociale. La società post-industriale si basa sull'affermazione diretta della sua capacità di manipolazione delle coscienze, ben sapendo che nella società mediatizzata la ripetizione di una tesi equivale alla sua dimostrazione.

 Rispetto per il soggetto: che nessun individuo o gruppo sia considerato uno strumento al servizio del potere, che rende il soggetto semplicemente una risorsa umana che entra nella produzione della ricchezza, del potere o dell'informazione. Crediamo che il soggetto debba costituirsi anzitutto contro la società di massa, contro il consumo standardizzato e gerarchizzato al tempo stesso,  contro il nazionalismo culturale, contro la logica della competizione che lo vuole redditizio, comparabile a livello globale e impiegabile.

             La concorrenza su un mercato libero impone la ricerca del massimo rendimento. Soltanto l'"economia di mercato" liberale permette alla razionalità economica di rendersi autonoma dalle esigenze politiche che la condizionavano in tutte le società non capitalistiche, di sottrarsi a qualsiasi controllo sociale, di mettere la società al proprio servizio.

            L'estensione dei rapporti mercantili e della monetizzazione a prestazioni non quantificabili che raggiungono il loro scopo soltanto se il denaro non è il fine, impoverisce e spersonalizza il tessuto degli scambi affettivi e relazionali.

            L'alienazione degli individui è così profonda, nelle società opulente, che non ne possono più essere coscienti.

            Sono alienati gli operai nella misura in cui la loro ricerca di un miglior salario passa attraverso forme che corrispondono alla visione e agli interessi della classe dominante e nella misura in cui essi giocano il gioco padronale, non riconoscendolo come tale, ma come un elemento normale della "situazione data", mentre nello stesso tempo difendono le loro condizioni di esistenza contro il potere padronale.

            C'è una crisi della nozione di lavoro e del lavoro stesso. In tutti i paesi industrializzati, la concorrenza capitalistica porta a ridurre le prestazioni sociali, a rendere precario l'impiego, a marginalizzare una frazione crescente della popolazione, a lasciare che il livello di vita si deteriori, in breve a sacrificare cose essenziali perché il superfluo possa essere prodotto con maggior profitto e offerto a un miglior prezzo.

            L'ideologia del lavoro, secondo la quale "il lavoro, è la vita" e che esige che esso sia preso sul serio e vissuto come una vocazione - l'ideologia del lavoro con la sua utopia di società di produttori - fa allora il gioco del padronato, consolida i rapporti capitalistici di produzione e di dominio e legittima i privilegi di una élite del lavoro che, malgrado l'esistenza di milioni di disoccupati, ritiene incompatibile con la propria fierezza professionale e con la propria etica del rendimento una riduzione del tempo di lavoro suscettibile di creare occupazione supplementare.

 Il lavoro deve essere fornito nella sfera pubblica, ma non nella sfera privata. Deve essere destinato ad altri in quanto individui sociali e non in quanto individui privati. Deve avere una validità o un valore sociale riconosciuto e questo gli sarà attestato dalla possibilità di scambiarlo con una quantità determinata di qualunque altro lavoro.

             Il calcolo economico è incapace di dare un valore ai processi sociali ed ecologici di lungo periodo, e invece uno sviluppo ambientalmente sostenibile deve assolutamente tener conto del patrimonio delle risorse naturali, dell'attuazione cioè di una razionalità socio-ambientale.

            Riteniamo che ci sia bisogno di una nuova teoria positiva della produzione, che sostenga una nuova razionalità produttiva nella quale forze naturali e forza lavoro contribuiscano alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, all'equilibrio ecologico, all'eguaglianza sociale. La proposta da avanzare è quella della ricerca di una nuova razionalità sociale e ambientale che superi la razionalità economica dominante e crei condizioni di controllo sociale delle risorse ambientali. Devono quindi essere ridefinite le condizioni di produzione, considerando come fondamentali le condizioni ecologiche (della) produzione e cioè le condizioni di conservazione e di rigenerazione delle risorse naturali, i servizi ambientali e i beni collettivi, le condizioni della salute, la qualità della vita e dell'ambiente, i processi ecologici di lungo periodo, il patrimonio naturale e culturale della popolazione. La nostra proposta richiede un sistema giuridico-normativo che disciplini le condizioni ecologiche della produzione e prevede dall'altra parte un impegno individuale e comunitario nella creazione di pratiche produttive e di consumo non inquinanti a breve e nel lungo periodo

 Il senso della razionalizazione ecologica può riassumersi con lo slogan "meno ma meglio".

 

Il lavoro

            La creazione dei posti di lavoro dipende principalmente oramai non dall'attività economica, ma dall'attività antieconomica; non dalla sostituzione produttiva del lavoro salariato al lavoro privato di auto-produzione, ma dalla sostituzione controproduttiva. La creazione di posti di lavoro non ha più la funzione di economizzare  su scala sociale tempo di lavoro, ma di sprecare tempo di lavoro per il maggior piacere di coloro che hanno dei soldi da spendere.

            La macchina non è affatto una categoria economica, come non lo è il bue che tira l'aratro. L'applicazione attuale delle macchine è una delle relazioni del nostro sistema economico attuale, ma il modo con cui le macchine vengono utilizzate è qualcosa di veramente diverso dalle macchine medesime.  Divisione del lavoro e proprietà privata sono epressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all'attività esattamente ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività.  

            Scienza e processi innovativi non sono più autonomi, scollegati e isolati dalla vita quotidiana, non sono affatto secondari del mutamento sociale, ma sono due elementi portanti del mutamento stesso.

            La società, trascinata nella trasformazione rapida delle sue condizioni d'esistenza, non vede affatto coincidere produzione e consumo all'interno di un sistema unificato di funzionamento. Mai società ha consumato una parte più debole del suo prodotto quanto la nostra.

La classe operaia industriale è indietreggiata a vantaggio di un proletariato post-industriale, in gran parte femminile, che, a causa della precarietà della sua condizione e della natura dei suoi compiti, non può trarre dal lavoro né identità sociale né vocazione a esercitare il potere economico, tecnico o politico.

            Da un lato c'era il capitalismo conflittuale e negoziale basato sul confronto sociale tra capitale e lavoro e sulla ricerca della mediazione contrattuale: quello dell'epoca che si suol chiamare "fordista", dell'epoca della produzione di massa e della fabbrica dispotica, ma anche del coflitto sociale massificato, del sindacato industriale e del Welfare State. Dall'altro c'è il capitalismo egemonico e ultracorporativo dell'epoca che potremmo chiamare "post-fordista", quella in cui stiamo entrando, che sarà certo l'epoca della fabbrica integrata e della qualità totale, ma anche dell'unanimismo aziendale, della fedeltà eretta a filosofia produttiva e del trascendimento dello Stato sociale nello Stato-impresa.

            La teoria della fabbrica integrata presuppone l'idea di una struttura produttiva monista. Identificare la soggettività del lavoro con la soggettività del capitale. Anzi di fare dell'appartenenza  all'Impresa l'unica soggettività possibile.

 

Lavoro servile è appunto quello in cui la prestazione non viene più separata dall'individuo che lavora (riconosciuto nella pienezza dei suoi diritti soggettivi formali), ma ricongiunta concettualmente a questo cossicché il comando sul lavoro torna a identificarsi col comando sulla persona che lavora.

 

Nelle forme tradizionali, i luoghi tipici dell'aggregazione sociale - il partito di massa e la fabbrica fordista - scompaiono. Dobbiamo constatare che qui, nel centro dell'impero, l'esclusione dal lavoro non appare più condizione necessaria e sufficiente alla mobilitazione. Ognuno degli esclusi, più o meno sganciati dal treno della globalizzazione e dello sviluppo, nell'individualismo che la società mediatica è riuscito a imporre, sembra cercare proprie soluzioni autonomamente, dimostrando di aver introiettato l'ideologia della competitività - ed in questi casi, a Sud è facile lo scivolamento nell'economia criminale - o nella migliore delle ipotesi di aver perso ogni speranza nella possibilità  di affermazione spontanea e non indotta dei propri bisogni.

 

Il processo di globalizzazione

La globalizzazione sembrerebbe presupporre:

1) una sostanziale simultaneità temporale: la possibilità, cioè, che una serie di fenomeni abbiano un qualche effetto, in tempo reale o in una successione temporale molto rapida, in una pluralità di luoghi distribuiti casualmente a livello planetario;

2) una parallela indifferenza spaziale: i fenomeni si influenzano tra di loro a prescindere dalla distanza spaziale tra i luoghi in cui avvengono. (Revelli, 165)

Per Wallerstein la globalizzazione si presenta, cioè, in prima istanza, nella forma della creazione di un mercato unificato mondiale, da una parte, e della assolutizzazione della forma-merce intesa come fonte univerale di medium tra gli uomini, riconosciuta incondizionatamente da tutte le culture, dall'altra.

L'indifferenziazione  dello spazio, che costituisce la sostanza della globalizzazione, la sua indifferenza alle determinazioni concrete,  è l'equivalente del processo di astrattizzazione del lavoro nella merce e della totale indifferenza al contenuto concreto che accompagna, nell'analisi marxiana, la metamorfosi dal valore d'uso al valore di scambio.

 

Ci sembra difficile non cogliere il nesso che lega questo accentuato bisogno d'indifferenziazione, di omologazione e di riconciliazione generale con quello di solito si evoca con i termini generici di globalizzazione, mondializzazione, competitività globale.

 

 Rifiuto del modello educativo proposto.

            L'Italia di oggi è distrutta esattamente come l'Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra "macerie di valori": "valori" umanistici e, quel che più importa, popolari.

            Non ci si accorge che la degenerazione è avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei valori quali: democrazia, tolleranza, modernismo.

            La transizione da un modello di capitalismo all'altro è così, anche, passaggio tra due modelli diversi, per non dire contrapposti, di democrazia... Emerge la democrazia populista e oligarchica di fine secolo, disponibile all'alternanza (tra élite omologhe, simili tra loro) ma non all'alternativa (tra politiche sociali opposte, tra antagonistiche idee di società).

            Il modello educativo derivante dalla centralizzazione degli "istituti" atti alla cultura ha creato quella massa indistinta standardizzata di uomini e donne la cui esistenza è caratterizzata da una lotta quotidiana contro tutti gli altri esseri umani per essere accettati dal modello di sviluppo e non esserne rifiutati.

            Da ciò è derivato che non c'è alcuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l'intera massa dei giovani. Non ci si accorge che la televisione, e forse ancora peggio la scuola dell'obbligo, hanno degradato i govani e i ragazzi a schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie.

            Lo stato di confusione materiale, soprattutto nel nostro paese, ha contribuito e contribuisce per primo alla preparazione culturale delle masse. Esso educa come educa il linguaggio delle cose che è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito dell'apprendimento e delle opinioni non verbali che si formano nell'uomo.

            Enorme è l'importanza dell'insegnamento della televisione, perché anch'essa altro non fa che offrire una serie di "esempi" di modo di essere e di comportamento. In effetti il vero linguaggio della televisione è simile al linguaggio delle cose: è perfettamente pragmatico e non ammette repliche, alternative, resistenza.

 

Oggi siamo nella democrazia dell'unanimismo dei fini e della differenziazione  (parziale) dei mezzi e dei "ceti politici" che li perseguono. La democrazia della "gente", atomizzata, dispersa, e per questo socialmente impotente, e dei "poteri forti", concentrati , privi di vincoli, proteiformi e mobili nello spazio globale, e per questo inevitabilmente egemoni.

 

 La democrazia

E' necessario e urgente, oggi, ridefinire la parola democrazia. I diritti politici, civili e sociali sono ormai, nelle loro formulazioni tradizionali, insufficienti a garantire la libera partecipazione alla determinazione dei bisogni. La società non è più in grado di esprimere bisogni e definire delle priorità attraverso il semplice godimento di tali diritti. Bisogna avere il coraggio di definire le  garanzie minime ad un livello superiore rispetto al passato. Se in passato, sia pure con astratta ingenuità, si poteva concepire la possibilità delle comunità, del popolo (ormai nell'indifferenza scambiato con il pubblico), dei soggetti di decidere le proprie sorti, gli indirizzi di fondo, oggi che perfino per i governi risulta difficile tentare di influenzare questi fattori - e questo è avvenuto attraverso lo svotamento dei diritti fondamentali dei cittadini - quell'ingenuità rischia di trasformarsi in complicità.

            Ma quali sono gli elementi determinanti dello svuotamento dei diritti findamentali?

1. Non c'è più l'ascensore

2. I processi di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione

3. Il potere delle banche centrali, assunto attraverso un'autonomia assoluta rispetto alla politica (non rispetto ad altri e più forti poteri) ha trasformato la moneta in una merce come le altre ed il mercato finanziario nel Mercato. Le banche centrali sono chiamate ad una sola funzione: salvaguardare il valore della moneta, lottare contro l'inflazione attraverso politiche restrittive. A partire dalla metà degli anni settanta con la liberalizzazione dei movimenti dei capitali la moneta cessa di essere uno strumento per finanziare la produzione di ricchezza e si trasforma in una merce autonoma, che viene acquistata  e venduta in quanto merce. Questo ha prodotto una progressiva e immensa accumulazione monetaria ed il trasferimento progressivo del risparmio in questo mercato autonomo e tiranno deviandolo dalla produzione di ricchezza. Con la liberalizzazione dei movimenti di capitali si è sancito il diritto per chi detiene il capitale di non rendere conto a nessuno; si è sancito il diritto alla ricerca del massimo profitto indipendentemente da qualsiasi vincolo comunitario. Con l'autonomia delle banche centrali dal vincolo politico si è sancita la neutralità della moneta. (Vedi Petrella ) Il potere dei mercati finanziari è diventato tale da essere l'unico punto di riferimento necessario delle scelte politiche dei governi nazionali. Il potere politico, d'alta parte, per assolvere a questa tutela delle esigenze del capitale ha necessità di diventare impermeabile alle istanze sociali - anche le più moderate - e diventare autonomo.

 

Contro la nuova borghesia

            Viviamo in una realtà mutata antropologicamente. Da ciò necessita una chiara e diversa visione delle attività umane, della coscienza degli uomini.

            La persuasione a seguire una concezione "edonistica" della vita (e quindi ad essere dei bravi consumisti) ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione: per esempio quello di seguire una concezione religiosa o moralistica della vita: il potere di oggi non impone più quella falsa sacralità e falsi sentimenti.

            Le storie dei borghesi e dei proletari si sono dunque unite sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello "sviluppo".

            L'ansia di conformismo, consumismo, progressismo, individualismo; una falsa cultura, senza slanci istintivi, quasi senza-vita; l'atteggiamento sempre misurato, mai contraddittorio, desentimentalizzato; la falsa sacralità; la tolleranza quindi l'intolleranza, caratterizzano il comportamento della nuova cultura dominante nella realtà quotidiana.

            Tale realtà ha tratti facilmente individuabili, perché la violenza di questa cultura è quella di una mortuaria vitalità che dilaga su tutto: perdita degli antichi valori (comunque li si vogliano giudicare); borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell'accettazione del consumo attraverso l'alibi di una ostentata e enfatica ansia democratica; correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l'alibi di un'ostentata e enfatica esigenza di tolleranza: una libertà "regalata" non può vincere le secolari abitudini alla codificazione.

 

 Contro il nuovo fascismo

            Questa cultura borghesizzante porta con sé il nuovo fascismo, quello che si sta estrinsecando in nuove forme e deve essere perciò codificato. Non è al passato che bisogna aggrapparsi per criticare il presente: quel fascismo era soltanto una banda di criminali al potere. Questo ha ramificazioni nei sistemi di cultura dell'uomo di oggi.

 

L'antifascismo rimane attuale. Perché il fascismo non è affatto un germe neutralizzato nell'organismo italiano. Perché esso è stato e resta una delle possibili forme dell'identità nazionale.

 

 No al razzismo

            La presenza sempre crescente di immigrati sul nostro territorio, causata principalmente da un divario sempre più ampio tra paesi arricchiti e impoveriti, ci pone di fronte ad un interrogativo centrale: subire la multiculturalità come un dato ormai inconfutabile oppure progettare una modalità interculturale di convivere, di abitare gli spazi in cui le persone si muovono, vivono e si incontrano?

            Ad ogni paese di immigrazione ciò che è soprattutto interessato realizzare fino ad ora è stata la strategia di inclusione culturale del nuovo venuto: laddove sono state fatte delle concessioni ciò è avvenuto perché in modo lungimirante si è voluto vedere nella 'tolleranza' uno strumento di controllo e integrazione sociale più efficace del progetto di decostruzione e di creazione di nuove forme del vivere comune.

Il fatto che si "tolleri" qualcuno è lo stesso che lo si "condanni". La 'tolleranza' è solo e sempre puramente nominale. La tolleranza è infatti la forma di condanna più raffinata.

            Sia nell'ambito del lavoro che in quello della cittadinanza e della formazione è ormai diffusissima la logica del patto adattativo. In ambito lavorativo, ad esempio, se lo straniero non assimila rapidamente la cultura del lavoro industriale si pone fuori dal gioco. L'azienda gli consente di essere musulmano o buddista purché i suoi stili cognitivi siano disponibili a sdoppiarsi. Il patto è chiaro: l'ingresso nella nostra cultura non comporta la negazione di quella di appartenenza, bensì una capacità di convivenza con due mentalità. Questa è la sorte di ogni immigrato che intenda integrarsi, e noi oggi andiamo assistendo ai comportamenti di alcuni gruppi etnici disponibili ad accettare questo patto. Altri gruppi, che non accettano questo contratto, si pongono inevitabilmente ai margini e si organizzano in attività professionali più vicine alle abitudini assimilate in altri contesti.

L'integrazione culturale ha visto nella storia delle migrazioni internazionali vincere sempre gli assimilatori con la logica del patto adattativo. Questo si rileva anche quando si affronta il discorso della cittadinanza. Diventare cittadini di un paese di approdo significa mostrarsi disponibili a condividere gli statuti dei diritti e dei doveri. In tal caso il patto sociale è funzionale alla tutela della maggioranza autoctona, la quale concede all'altra cultura di mantenere riti e tradizioni purché queste non siano occasione per le minoranze di aggregazioni cultural-religiose contrarie e in conflitto con l'assetto giuridico dominante.

Questo atteggiamento è figlio di un relativismo culturale che solo apparentemente si presenta come un concetto rivoluzionario perché ha come presupposto fondamentale la non comunicabilità e l'incommensurabilità fra le culture e non concepisce affatto la possibilità di una commistione, di una decostruzione e ridefinizione delle culture.

Proprio questa decostruzione è invece uno dei presupposti fondamentali dell'interculturalità, che ha come valore non la compresenza delle culture, ma il confronto, l'incontro, lo scontro fra culture e mentalità differenti per fare in modo che il confronto tra le mentalità dia luogo ad un innalzamento, non solo della conoscenza reciproca, ma possa consociarsi per individuare forme superiori di azione e comprensione del mondo.

Questo comporta dunque non solo la conoscenza delle differenze, ma anche l'abitudine alla transitività (o mobilità) cognitiva.

             

Ogni monocultura è condannata, prima o poi, alla stagnazione, mentre una cultura polidimensionale non può che essere dinamica e processuale. Una cultura policulturale è l'obiettivo del futuro, per lo meno laddove l'iimmigrazione più avanza e più convive con la nostra illusoria monocultura.

 

Lavorare per "neutralizzare" la carica di ostilità che connota la figura dello "straniero", ricuperando in qualche modo il suo significato antropologico (genetico) di "altro originariamente simile". L'obbligo alle "condizioni dell'universale ospitalità". Ma "privare l'alterità della sua carica di ostilità", implica per lo meno un secondo, decisivo passo:

La rinuncia da parte di tutti e di ognuno (a cominciare dai soggetti più forti) al proprio metaforico ius in omnia, cioè alla pretesa di ognuno allo sviluppo illimitato.

 

 VERSO IL SOCIALISMO

Per socialismo bisogna intendere la risposta positiva alla disintegrazione dei legami sociali sotto l'effetto dei rapporti mercantili e di concorrenza, caratteristici del capitalismo, quindi la (ri)costruzione di socialità.

 

            Il socialismo, conforme al suo significato originario, deve essere inteso come aspirazione a completare l'emancipazione degli individui iniziata con la rivoluzione borghese e che rimane incompiuta nei settori in cui il capitalismo sottomette gli uomini e le donne a obblighi sistemici, ai rapporti di dominio, e alle forme di alienazione proprie del regno delle merci.

            Nella prospettiva socialista non si tratta di sopprimere tutto ciò che fa di una società un sistema il cui funzionamento non è controllabile dagli individui né riducibile alla volontà comune. Si tratta piuttosto di ridurre il dominio del sistema e di piegarlo al controllo e al servizio di forme di attività sociale e individuale autodeterminate. Si tratta di trasformare la società in un insieme di spazi in cui forme molteplici di associazione e di cooperazione possano realizzarsi, e di indicare la posibilità concreta di riappropriazione e di auto-organizzazione della vita in società, attraverso forme rinnovate di pratica politica, sindacale e culturale.

            La volontà di prendere distanza e di mettere in questione i rapporti di potere capitalistici non costituisce comunque ancora la possibilità di questa messa in questione. Essa non può essere esercitata nei luoghi di lavoro, all'interno del processo di lavoro, dai lavoratori in quanto tali; può essere esercitata soltanto dai lavoratori in quanto cittadini, utenti, consumatori, residenti, genitori, cioè in quanto membri di una collettività o comunità più ampia della loro professione o impresa.

            Bisogna comprendere in quali condizioni l'uomo possa raggiungere la sua autonomia, la sua capacità di realizzare i propri fini di autogovernarsi a partire dalle proprie scelte e non di essere governato da condizioni e volontà estranee.

La soluzione consiste nel guadagnare sulla megamacchina spazi sempre più estesi dove possa liberamente dispiegarsi una "logica di vita" e nel rendere il sistema compatibile - nei suoi orientamenti, le sue tecniche, i limiti dello spazio che occupa, le restrizioni alle quali il suo funzionamento va sottomesso - con questo libero sviluppo.

Bisogna ridurre il dominio del sistema e piegarlo al controllo e al servizio di forme di attività sociale e individuale autodeterminate.

            Fare dell'"etica" una materia da esperti significa estrapolarla dal vissuto e dalla cultura quotidiana, il che equivale a constatarne l'estinzione.

            Bisogna intendere il socialismo come un orizzonte di senso che sviluppa una esigenza di emancipazione e di autonomia.

              Pensare ad una organizzazione della produzione in piccole unità, in stretto contatto con i bisogni locali e da questi determinata. L'eteronomia del lavoro non risulta solamente dalla sua organizzazione e dalla sua divisione capitalistica. Risulta, in modo ben più fondamentale, dalla divisione e dall'organizzazione su scala dei grandi spazi economici... L'eteronomia del lavoro è una conseguenza inevitabile della socializzazione del processo di produzione, conseguenza resa necessaria dalla massa e dalla diversità dei saperi incorporati nei prodotti. L'alternativa è fra i due modi di gestire l'abolizione del lavoro: una che porta alla società della disoccupazione, l'altra che conduce alla società del tempo liberato. Soltanto se il reddito sarà accompagnato dalla possibilità di accedere ad un lavoro autonomo, oltre ad una quota minima di lavoro eteronomo, avremo una prospettiva di libertà.

 

 Proposta di un altro modello educativo

            La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è in primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale degli uomini, linguaggio della vita reale. Tale è l'importanza delle cose visive, della famiglia, del linguaggio del movimento della quotidianeità.

            C'è necessità di studiare ed elaborare gli elementi della psicologia popolare storicamente e non sociologicamente, attivamente (cioè per trasformarli, educandoli, in una mentalità moderna) e non descrittivamente.

             Non si può rimanere fermi. Che mentre il mondo ci muta sotto i piedi, organizzare la resistenza non può voler dire immobilizzarci in trincea. Significa invece tentare sortite.

            Forme di mutualità, autogestite secondo criteri solidaristici, capaci di impegnare e educare all'autogoverno della propria vita quotidiana al di fuori delle tradizionali deleghe burocratiche; strutture di rivalorizzazione dei mestieri e della creatività inserite in circuiti non "mercantili", improntate a un criterio di gratuità del "fare" contrapposto al tentativo imprenditoriale di mettere a valore ogni forma di creatività, alla mercificazione di ogni capacità espressiva; azione positive, orientate al principio del fare da sé e alla gestione di quelle aree di socialità in via di abbandono da parte dello Stato, tendenziali riserve di caccia del capitale.

            Ma se un fatto è emerso chiaro dall'esperienza del Novecento, in particolare a sinistra, è il fallimento dell'ipotesi che la garanzia dell'universalità possa essere affidata a un apparato amministrativo.

Se la sinistra sopravvivrà a questa crisi, dovrà farlo inventando soluzioni al dilemma della socialità esterne e contrapposte al terreno della statualità.  Bisogna contrapporre all'"asocialità" del mercato e alla "socialità astratta" (e declinante) dello Stato, una autentica socialità del sociale.  Lottare per un passaggio dallo stato sociale alla comunità sociale.

 

 Proposizione di un nuovo modello di vita

La povertà (o modelli di vita che non propongono l'edoné) possono essere rivalutati in un contesto mondiale dove vige un unico contesto di cultura. No alla rinuncia, sì alla vitalità. Alterità e non alternativa. Proporre un modello che recuperi le singole individualità cercando di far passare lo sviluppo attraverso le singole scelte in base ad un proprio obiettivo futuro. Cultura-natura-quotidianeità.

- Non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.

 

Per noi l'uomo si definisce innanzitutto come un essere "in situazione" (significa scegliersi in situazione e gli uomini differiscono tra di loro a seconda della differenza fra le loro situazioni ed anche secondo le scelte che fanno della propria persona). Se l'uomo è una "libertà in situazione" si concepirà facilmente che questa libertà possa definirsi come autentica o non autentica, a seconda della scelta che fa di se stessa nella situazione da cui sorge.

 

 Posizione degli intellettuali

Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e apparentemente inutile.

Ma l'accontentarsi di capire implica imparzialità e indifferenza. E' l'agire che qualifica. C'è l'urgenza di un costante richiamo alla necessità della scelta e della responsabilità umana.

Che la natura umana sia il complesso dei rapporti sociali è la risposta più soddisfacente, perché include l'idea del divenire.

 

La filosofia della prassi rappresenta un netto superamento e storicamente si contrappone all'ideologia.

 

Non bisogna far confusione tra l'atteggiamento della filosofia della praxis e il cattolicesimo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, questo tende a mantenere un contatto prettamente meccanico, un'unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto appariscentemente suggestivo sulle grandi folle.

- Il concetto di struttura deve essere concepito storicamente, come l'insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano come un insieme di condizioni oggettive che possono e debbono essere studiate coi metodi della "filologia" e non della "speculazione".

 

 La grande ambizione è indissolubile dal bene collettivo.