Allosanfan
di Paolo e Vittorio Taviani
I nostri film
- come tutto il cinema di ricerca - si rivolgono a un pubblico che
"cerca". (1969)
Al contrario
di ogni altro film dei Taviani, Allosanfan possiede, eccezionalmente,
una struttura narrativa estremamente intricata, complessa. Le azioni,
i protagonisti, anche i sentimenti paiono subire gli ostracismi
di una legge superiore, anche nelle intenzioni degli autori. Nell'ombra
qualcosa governa, "muove"; e gli abitanti di questo paese
non possono che scoprire, sgomenti, di non essere altro che scacchi,
liberi solo di seguire tracciati preordinati. Pure il linguaggio,
l'espressione, il testo, si incanalano, procedeno per linee simmetriche
di sviluppo. Nel film nessun personaggio può vantarsi di aver stabilito
qualcosa, di essere padrone della propria esisenza o delle azioni.
.. In Allosanfan, insomma, è il melodramma con le sue regole e le
sue abitudini a stabilire il gioco delle parti. ... Ma la trama
non è qui il destino; gli ostacoli e le peripezie non sono dettate
dal Fato sono semmai le regole del gioco, il principio della realtà
quale amputazione del desiderio, l'angoscia per il presente che
genera i mostri minuscoli della famiglia come quelli del gruppo
o del potere istituzionale.
"La
restaurazione non ci appare solo come quel fatto di potere e di
classe che fondamentalmente è: ma come una forza che punta su quanto
di regressivo, di restauratorio - e di inconfessato - è in ciascuno
di noi, anche in chi la combatte. Confessiamo tutto quello che nel
momento della ricerca e dell'azione, soprattutto collettive, riusciamo
a superare, e che nel momento del ristagno e dell'attesa rimuoviamo
con una violenza pari al suo rifluire. La rimozione genera paralisi.
Dobbiamo liberarcene. E' quanto abbiamo cercato di fare con Allosanfan,
ed è stata una operazione faticosa e sgradevole".
La rivoluzione
può divenire produttiva quando nella concretezza del reale il compito
è quello di modificare, lentamente, le cose. Al contrario diviene
alienante quando l'ansia ingigantisce a tal punto da far fuggire
in un mondo che non esiste. Perciò Fulvio "non volendo riconoscere,
vive nella menzogna: tradisce gli altri e sé stesso: solo così si
può credere autosufficiente".
"Si tratta di far leva sulle contraddizioni
dello Stato borghese... Quindi lotta per una nuova legge sul cinema,
sulle direttrici: cinema come
servizio pubblico (enti di Stato, circuiti si Stato in alternativa
al cinema, al profitto, principio della "non economicità"
della produzione di ricerca); lotta per aperture di circuiti diversi
(legati ai Comuni, al decentramento regionale, a nuove realtà sociali
di base); per una scuola diversa ecc." (1971)
".... Crediamo nella qualità dell'uomo, nella
sua capacità di produrre. Proprio perché ci sentiamo circondati
dalle "tenebre" siamo disperatamente dalla parte di chi
lotta per 'fare luce'." (1962)
"....E' il momento in cui possiamo rittrovare,
con lo stupore, quello che - dice Goethe - caratterizza il "nuovo":
l'esagerazione. Noi siamo per gli esagerati. E' proprio di chi non
si nasconde a sé stesso e agli altri, di chi è pronto a tutto e
a pagare di persona, abbastanza dolorante per essere maturo, è proprio
di questi il diritto all'esagerazione" (1966)
Il colore rosso
della camicia strappata di Fulvio si allontana fino a divenire un
punto quasi invisibile e la musica del saltarello eccita la mente
con la speranza di nuovo riproposta dall'azzurro degli occhi di
Allosanfan.
"Per noi
marxisti si tratta insomma di trovare un equilibrio tra soggettività
e marxismo. Abbiamo bisogno di quello che qualcuno ha chiamato "nuovo
umanesimo": un umanesimo, naturalmente non contermplativo,
dell'io idealistico, ma rivoluzionario"
( Scheda tratta
da Paolo e Vittorio Taviani
di F.Accialini e L.Coluccelli,
Il Castoro Cinema. In corsivo commenti dei Taviani)
Berlinguer ti voglio bene
di G. Bertolucci
"Ho parlato di un mondo che sta tra il proletariato
urbano e il sottoproletariato contadino, e a mio parere ho fatto
un film sull'oggi. Con il '68 la classe dalla quale provengo ha
perso i connotati, mi sentivo di fare un film su questa cosa ormai
indefinita. Con Benigni abbiamo cercato di rompere con quel tipo
di schema che fa capo alla commedia all'italiana. Cercando di recuperare
radici diverse da quelle piccolo borghesi di quest' ultima, e tornando
a un dialetto arcaico e creando un personaggio sottoproletari che
era sempre stato escluso da questo genere di commedia. (...) Non
ho usato il 'turpiloquio' né la 'parolaccia'. Quel che convenzionalmente
è considerato tale sarebbe tutto da verificare; se un professore
di sessuologia adopera un frasario 'genitale' durante una lezione,
questro non è affatto turpiloquio, e allora perchè dovrebbe esserlo
se lo usa Cioni Mario, un sottoproletario rimasto infantile, che
non è maturato né psicologicamente né socialmente? Il suo è un lessico
genitale. Ho guardato alla storia del film attraverso una lente
psicoanalitica. La gergalità genitale rimanda a significati che
vanno molto al di là di quelli della 'parolaccia', usata di solito
per catturare il pubblico, un tramite di un suo identificarsi attraverso
un linguaggio comune. Nel mio film è proprio il contrario: ho insistito
su un linguaggio insolito, chiuso in se stesso, asfissiante, per
mostrare l'ossessività nella quale viveva il mio sottoproletario.
Nella realtà, ovviamente, il turpiloquio è molto meno accentuato
di quello che c'è in Berlinguer ti voglio bene"
Il
titolo del film è un titolo libero, da intendersi come parte
del linguaggio di Cioni Mario. La simpatia di Benigni per Enrico
Berlinguer è ormai un dato acquisito, ma nel film il rapporto tra
Cioni Mario ed il segretario del P.C.I. non è così risoluto ed è
un po' più conflittuale. Oggetto di culto il suo ritratto, come
un'icona: che però nell'orto funge da spaventapasseri. Il giovanotto
vota senz'altro per lui, ma non è che
il compromesso storico lo entusiasmi. Comunista arcaico come
la sua parlata, forse viene da lontano ma di sicuro non si sa quanto
lontano possa andare, con tutti i problemi personali che gli gravano
sul groppone. E' lì che aspetta un segnale dalla televisione, basterebbe
solo una parola di Berlinguer a dare il via alla rivoluzione, e
questo - inspiegabilmente per Cioni Mario - non avviene.
Le evasioni
del protagonista (che per usare le parole di Pasolini a proposito
di Accattone, appartiene
ad un'altra razza rispetto a quella borghese e che per questo offre
il là ad un razzismo di classe che non sopporta la sua stessa messa
sullo schermo), le evasioni di Mario Cioni, appunto, si consumano
in week-end più tristi della settimana lavorativa, dentro un cinema
a luci rosse che non lo eccita ma lo deprime, e in una casa del
popolo molto affollata per via della tombola. Quando si passa al'culturale',
e il tema all'ordine del giorno è 'potrà mai la donna pareggiare
l'uomo?', viene fuori quella concezione 'reazionaria di sinistra'
della quale il film, secondo Benigni, si fa qui per la prima volta
portavoce.
Nostra sintesi elaborata dalla recensione di Ugo
Casiraghi, L'Unità marzo 1995. In corsivo un'intervista a Giuseppe
Bertolucci
Brutti, sporchi e cattivi
di Ettore Scola
Brutti, sporchi
e cattivi, film non a caso destinato a riaccendere intorno a Scola
più di una polemica, si caratterizza per un insistito interesse
per gli emarginati ma in un quadro di più accentuato pessimismo
rispetto al suo cinema precedente. Più che riflettere a elementi
secondari del costume o del modo di pensare, l'imbarbarimento su
cui insiste il film va inteso nei suoi estremi "pasoliniani".
Non a caso proprio al Pasolini del "genocidio culturale"
aveva pensato il regista per una sorta di prefazione filmata, poi
purtroppo, non realizzata. In essa, Pasolini avrebbe dovuto spiegare
le ragioni storiche di quell'imbarbarimento, mettendo - come solitamente
si fa nei libri - lo spettatore/lettore nelle condizioni di comprenderne
immediatamente la problematica.
Scomodo Pasolini,
che sarebbe morto di lì a poco, ucciso nei luoghi dove si tenta
di avvelenare Giacinto (Nino Manfredi), e scomodo Scola che con
Brutti, sporchi e cattivi
disorienta critica e pubblico, pur guadagnando il premio per la
miglior regia al festival di Cannes. Pasolini avrebbe voluto un
finale ancora più amaro, convinto che "gli
abitanti delle baracche erano, essi stessi, responsabili della loro
evoluzione, essendosi voluti far colonizzare e distruggere".
Scola ritiene che non ve ne sia bisogno, essendo di per sé già eloquente
l'impietosa descrizione di luoghi, personaggi e situazioni. Ignoranti
e avidi, i borgatari del film testimoniano abbondantemente che la
povertà non è più una virtù (chissà se lo è mai stata) e neppure
una condizione per dividere valori e giudizi.
I conti col
populismo del neorealismo sono presto fatti nell'epoca delle omologazioni
di massa mass-mediologiche e non consentono di trarre alcun positivo
bilancio. Tutto è monetizzato e monetizzabile sul filo di un istinto
di sopravvivenza che ha del tribale, dell'animalesco. Senza identità,
i "brutti sporchi e cattivi" del film, confinati ai margini
del cosiddetto "vivere civile", incarnano come possono
lo "spirito del tempo". La loro mostruosità è indubbia,
ma le ragioni per cui sono pronti a scannarsi sono del tutto simili
a quelle che scatenano gli appetiti della "società civile",
con la differenza che qui, almeno, non ci sono paraventi ideologici
o alibi sociali. Essi stessi non sono più il paravento o l'alibi
di nessuna coscienza. Chi si era illuso di trovarli "belli,
puliti e buoni", con le carte in regola per accedere alle vie
del Signore, o del Socialismo, ha ampia materia per ricredersi.
A Scola viene
da più parti rimproverata la volgarità con cui è resa la ...volgarità,
ma nel film il suo uso è quanto mai funzionale alla connotazione
dell'ambiente. Fra tanti risentiti (re)censori, qualche voce a favore.
Alberto Moravia, ad esempio, che fotografa con esattezza la "filosofia"
del film: "C'è stato
quello che Pier Paolo Pasolini chiamava il cambiamento antropologico
del consumismo; e che noi, più modestamente, definiremmo la scomparsa
dei tempi migliori" ("L'Espresso", 10 novembre
1975).
Sintesi da
"Ettore Scola" di Roberto Ellero - Il Castoro cinema,
1989
Il diario di una schizofrenica
di Nelo Risi
Un giovane
regista italiano, innamoratosi del libro "Diario di una schizofrenica",chiede
alla signora Sechehaye, la psicoanalista di Ginevra che ha curato
Renée, (la protagonista del libro) di poterne trarre un film. Descrivendo
dapprima i sintomi
della schizofrenia e, in seguito, la loro scomparsa, seguendo l'evoluzione
della psiche della malata dall'infantilismo più completo in cui
era caduta, allo stato di adulta evoluta, l' autrice
ha dimostrato il metodo con il quale la malata era guarita.
Il libro riferisce l'esperienza
vissuta dalla malata
e mostra tutto ciò che si maschera dietro le manifestazioni della
schizofrenia ; Freud scriveva: "questi malati si sono distratti
dalla realtà esteriore ed è per questo che su quella interiore ne
sanno più di noi e possono rivelarci cose che senza il loro aiuto
sarebbero rimaste impenetrabili" .
Nelo Risi tenta
di riprodurre,con il linguaggio cinematrografico,quella che
è già di per sè un'opera artistica. La signora Sechehaye era molto
perplessa di fronte a tale proposta,perchè le difficoltà tecniche
erano certo notevoli; la pittura consente di riprodurre alcune delle
trasfigurazioni della realtà che Renèe descrive: ad esempio l'isolarsi
degli oggetti e delle loro singole parti, lo svincolarsi delle cose
dal loro significato e funzione, le modificazioni nella luminosità
ambientale e nella consistenza materiale degli oggetti, il sovvertimento
di ogni prospettiva (e leggendo le pagine scritte da Renèe vien
fatto spesso di riferirsi a certe modalità d'espressione della pittura
contemporanea ); ed è anche pensabile che il cinema possa impadronirsi
di queste modalità di espressione e utilizzarle. Ciò sarebbe poco
comprensibile per lo spettatore che vedrebbe Renèe come la protagonista
del film,e il diario non sarebbe allora più tale,ma la riproduzione
obiettiva del comportamento esteriore di una qualsiasi ammalata
di mente; oppure non dovrebbe mai apparire nel film e questo dovrebbe
limitarsi a riprodurre ( in modo assai parziale ) il mondo esteriore
come Renèe lo ha veduto, ma ne uscirebbe un film documentario.
E' importante
mettere in rilievo l'aspetto tecnicamente scientifico, di descrizione
del trattamento psicoanalitico di un caso di schizofrenia, veduto
con gli occhi dell' ammalata stessa. Il problema è quello della
intelligibilità della malattia mentale e della schizofrenia,
la forma specifica
da cui Renèe è
stata colpita, che è incomprensibile per l' uomo normale:l'alienazione
, e cioè il fatto che l'ammalato diventa altro, e sembra non appartenere
più alla comunità degli uomini. Anche Renèe
è stata al di là dei confini della umana comunicazione e
comprensibilità; ma quando guarisce e giunge, come essa dice "a
sistemarsi definitivamente nella bella realtà" ( che è poi
quella realtà a tutti comune che garantisce
la comunicazione sociale), essa riesce a rendere comunicabili
anche le sue esperienze di malata. Vi sono dunque anche nell'
individuo normale elementi interiori suscettibili di risuonare alle
descrizioni che Renèe ci fa: una parte di noi alla quale il mondo
dello schizofrenico non è totalmente estraneo, un coacervo di nostre
esperienze che noi stessi ignoriamo. Possiamo dunque intendere e
rivivere la storia di Renèe: da un lato perchè la barriera che divideva
Renèe ammalata dagli uomini normali è tale solo in apparenza, perchè
gli elementi che compongono la malattia mentale di Renèe
in qualche modo si ritrovano in noi; dall' altro perchè Renèe,
senza saperlo e senza volerlo, ha scritto un' opera poetica suscettibile
di risvegliare elementi nascosti che sono in ognuno.
Lo schizofrenico,
anche quando si trova in uno stato di decadimento mentale e psichico
che fa pensare alla demenza, resta in possesso di un'anima, di un'
intelligenza, e prova sentimenti talvolta molto vivi senza poterli
esteriorizzare. Anche nei periodi di indifferenza completa e negli
stati stuporali in cui il malato non sente più nulla , gli resta
una lucidità impersonale che non solo gli permette di percepire
quello che accade intorno a lui, ma anche di rendersi conto dei
suoi stati affettivi.Spesso è questa stessa indifferenza che, spinta
all' estremo, gli impedisce di parlare e di rispondere alle domande
che gli fanno. L' osservazione di
questi fatti permetterà più tardi al malato di ricordarsi
le tappe della sua malattia
e di poterle raccontare.
Fai la cosa giusta
di
Spike Lee
"Fai la cosa giusta"
è una citazione da un discorso di Malcom X; il film ne è pieno,
come di tante espressioni gergali (molte perdutesi nel doppiaggio)
nate in varie fasi all'interno dei movimenti neri (la più comune
è l'uso del termine "fratello"). Ma insieme al leader
che è ricordato per la famosa espressione "by any mean necessary"
(con ogni mezzo necessario), criterio guida di tutta la linea politica
di Malcom X, a fare da contraltare è la figura dell'altro leader
nero Martin Luther King, legato invece alla prassi nonviolenta.
Le due figure, la cui ombra aleggia nel film appaiono in una rara
fotografia che li ritrae insieme (i rapporti fra i due furono controversi
e non sempre idilliaci). Da questa foto nascerà il pretesto di una
lite banale che degenererà in disastro e la foto stessa risulterà
salva da un incendio per puro caso.
Il film tornerà alla ribalta dopo gli scontri di Los Angeles
a seguito della sentenza sul caso Rodney King (il nero preso a bastonate
da alcuni poliziotti e filmato dalla telecamera di un amatore -
i poliziotti furono prima assolti e dopo gli incidenti, con intervento
del Presidente degli Usa quella sentenza fu annullata), per la impressionante
somiglianza tra le sue immagini e quelle della rivolta diffuse dalle
televisioni durante gli scontri realmente accaduti un paio di anni
dopo. Questo ci dice molto non tanto sul film, quanto sul tipo di
realtà che esso racconta e in particolare sulla prevedibilità del
suo svolgimento: di fronte ad una palese ingiustizia - che per gli
afroamericani non mancano mai da cinque secoli in qua - presto o
tardi, e comunque in modo incontrollabile, non più logico o irrazionale,
si scatena una reazione.
Lo spaccato che il film offre è uno spaccato contraddittorio,
descrive una vita basata sui rapporti di forza, delle relazioni
che si evolvono in modo ripetitivo, ciclico, senza domandarsi più
il perché. Il caldo che avvolge la lunga giornata estiva in cui
sisvolge la vicenda è ineluttabile, come molti dei caratteri delle
vite raccontate. Ci si punzecchia, si cerca di mostrare forza sull'altro,
ma tutto è normale, in qualche modo sotto controllo. Ognuno deve
recitare una parte, mostrare i muscoli, anche se non ha alcuna voglia
di usarli. E' in clima misto di gentilezza, aggressività, quieto
vivere e rabbia che cova, ordinariamente, come una risata o uno
sberleffo: tutto sembra tener, in fondo. Non sembra si porti rancore
dopo una lite senza importanza, soprattutto se la giornata ne contiene
decine. Invece sarà proprio una lite senza importanza a portare
alla tragedia.
Impressiona, nel film, ed è un tratto interessante, l'assenza
di una figura quasi mitica, quella dell' Americano : qui ci sono italiani, africani, spagnoli, coreani ecc.
Gli unici americani sono in qualche modo i poliziotti (che uccidono,
che abusano del loro potere, che resteranno impuniti e lasceranno
i vari gruppi a scannarsi fra loro nello sfogare la rabbia). I poliziotti
attraversano, o meglio, scivolano sul quartiere in modo superficiale,
cercano di starci il meno possibile. E' la rappresentazione di uno
Stato che, abbandonata al caos ogni comunità, si occupa appunto
solo dell'ordine pubblico. Le comunità, d'altro canto, vivono in
modo schizofrenico al loro interno: è la paura a dominarle subdolamente,
ma anche convenzionalmente: se qualcuno mi pesta un piede e rovina
le mie "Nike " da 200 dollari ed è bianco io "devo"
arrabbiarmi, il mio ruolo lo impone. La cultura del quartiere (sia
tra gli afroamericani che tra i portoricani o gli italiani) è un
miscuglio di consumismo (le "Nike" da 200 dollari acquistate
da un disoccupato) e luoghi comuni (gli insulti che ogni gruppo
rivolge ad un altro, il quale prosegue la catena finchè il cerchio
non riprende), in cui Michael Jordan è sullo stesso piano - entra
nel proprio sistema di valori con pari dignità - di Malcom X, così
come Robert De Niro è sullo stesso piano di Antonio Cuomo, in una
confusione di idee tra il ridicolo ed il tragico. La miscela, insomma
è esplosiva ed esplode.
Il giorno si chiude ed il giorno dopo il D.J. riprende le trasmissioni
radio della giornata con le previsioni del tempo: "Caldo!"
(hot = lett. bollente) proprio come all'inizio del film, come ogni
giorno.
Fino all'ultimo respiro
di
Jean Luc Godard (Fra, 1959)
Titolo
originale:
A' boute de souffle. Soggetto: Francois Truffaut Sceneggiatura:
J.L.G. Fotografia: Raoul
Coutard. Montaggio: Cécile
Decugis e Lila Herman. Musica:
Martial Solal e Mozart. Interpreti:
Jean Paul Belmondo e Jean Seberg. Durata:
87'.
"A' boute de souffle appartiene per sua natura al ge- nere di film in cui tutto è permesso.
Qualsiasi cosa fa- cessero i personaggi poteva essere integrata
nel film (...). A' boute de souffle è
una storia, non è un soggetto. Il soggetto è qualcosa di semplice
e vasto che si può riassumere in venti secondi, la vendetta il piacere...
La storia la si può riassumere solo in venti minuti".
A proposito della realizzazione di Fino all'ultimo respi- ro il direttore della fotografia Raoul Coutard
ricorda il modo di procedere di G.: "Di giorno in giorno, man mano che i dettagli del soggetto si precisavano,
egli spiegava il modo di realizarli: niente cavalletto per la cinepresa,
niente luci se possibile, carrelli senza bi- nari...Poco a poco
noi scoprivamo il bisogno di andare contro le regole e la grammatica
cinema- tografica. Durante le riprese G. confermò questa posizione,
tanto più che la suddivisione delle inqua- drature era fatta man
mano, come i dialoghi. Il film si costruiva man mano, durante la
visione dei giornalieri (le inqua- drature girate nel giorno precedente,
ndr). Così lui non può dire il giorno prima, e nemmeno immedia-
tamente prima, che cosa si sta per fare: è provando una scena che
la decisione viene presa, a volte dopo aver girato un ciak si ricostruisce
tutta la scena da un altro punto di vista. Non è raro, se non ha
ancora bene in mente unna scena, che decida all'ultimo momento digirare
un'altra cosa, in un altro ambiente. A volte si ferma per un giorno
intero per prendere tempo e riflettere...".
Improvvisazione, uso di tecniche agili, non appesantite dalle
consuete attrezzature, grande rapidità nelle riprese e conseguente
basso costo, tutto ciò fa parte del normale (dopo questo film) modo
di procedere di tutta la Nouvel- le Vague. Ma per G. non si tratta
solo di assottigliare la barra che separa la vita dal cinema o di
venire incontro ad esigenze produttive: l'obiettivo principale è
quello di andare contro le regole stabilite, riesplorare più in
profondità le possibilità del mezzo.
Un punto fermo della critica, per il linguaggio usato, fu il
tema del disordine. Il protagonista, definito generica- mente "anarchico",
fu interpretato come il campione di una gioventù sbandata, sulla
scia di alcuni modelli cine- matografici degli anni '50, l'esempio
di una crisi totale di valori. Il linguaggio frammentario e discontinuo
del film, il disprezzo delle regole registiche vennero così letti
come il necessario risultato di tale atteggiamento "di fondo",
secondo un modello teorico ancora oggi ben vitale, quello secondo
cui il "contenuto" determina e condiziona la "forma".
Ma è opportuno vedere più a fondo in che cosa consista l'anarchismo
espressivo del film. Tutto il cinema classico (il cinema americano
dal '30 al '60) aveva avuto un assillo costante: quello di nascondere
la sua costitutiva frammentarietà e discontinuità e di proporsi
come un racconto fluido, che scorre senza intoppi o sbalzi. A questo
fine esso ha codificato, rendendole obbligatorie, una serie di tacite
regole che costituiscono il patrimonio dei tecnici e dei professionisti
"seri", quelle che stabiliscono il modo corretto di fare
cinema. Per quanto riguarda il montaggio, per esempio, dimenticando
la lezione del cinema sovietico degli anni '20, il cinema classico
ha reso praticamente obbligatoria la regola che i cambi di inquadratura
devono risultare il più possibile impercettibili per lo spettatore.
A questo fine bisogna evitare alcune incongruenze rese possibili
dallo spostamento di angolazione della cinepresa fra un'inquadratura
e la seguente : uno spostamento troppo pccolo (in pratica inferiore
ai 30 gradi) è vissuto come inutile e perciò disturbante; uno spostamento
eccessivo può sbilanciare la composizione interna dell'inquadratura
ed è perciò anch'esso da bandire. Ebbene G. rifiuta proprio queste
pseudo-regol. Assistiamo così - ciò che ogni buon montatore considera
ancora oggi agghiacciante - a "scavalcamenti di campo"
(due persone che in una inquadratura sono una sulla destra e l'altra
sulla sinistra dello schermo e in quella seguente occupano posizioni
invertite), ad una serie di attacchi che paiono piuttosto bruschi
singhiozzi della cinepresa, e così via.
Per questo Fino all'ultimo
respiro è contemporaneamente un film sul cinema ( è strapieno
di citazion o situazioni riferite all'universo cinematografico)
ed un film contro il cinema.
Questo film costituisce la premessa di un pensiero che non cesserà
mai di interrogarsi sul cinema, sul rapporto con la realtà, sull'intreccio
tra ideologia dominante e controllo della tecnologia.
Full
Metal Jacket
di
Stanley Kubrick
Soggetto
ispirato al romanzo "The short-timers" di Gustav Hasford
Sceneggiatura
di S.K., Michael Herr, G. Hasford
Musica Abigail Mead e canzoni dell'epoca (Tell
me goodbye, These boots
are made for walking, Paint
it, black) Interpreti: Matthew Modine
(soldato Joker), Adam Baldwin (Animal), Vincenzo D'Onofrio (Palla
di lardo), Lee Herrmey (Sergente istruttore Hartman), Arlise Howard
(Cowboy), Kevyn Major Howard (Rafterman) Produzione
:Stanley Kubrick per Warner Bros Distribuzione W.B.
Durata 116'. Le
riprese sono state effettuate a nord di Londra, in una officina
del gas abbandonata, negli studi di Shepperton.
K. conferma il suo interesse per i generi cinematografici: tutta la sua produzione si caratterizza per
la incursione dell' autore in diversi
generi (il film di fantascienza con 2001...,
il film horror con Shining,
il film sulla violenza urbana
con Arancia Meccanica,
il film in costume con Barry
Lyndon, il film erotico o sull'erotismo con Lolita,
e infine soprattutto il film di guerra con
Orizzonti di Gloria e
Il dottor Strana- more - e diciamo soprattutto, per la presenza
della guerra e del suo funzionamento in film come Spartacus
con il con- flitto fra i barbari schiavi e romani, in Barry Lyndon con la Guerra dei Sette Anni ecc.). Il film di genere,
e più di ogni altro il film bellico, consente all'autore una più
rapida ed ef-
ficace tipizzazione dei "personaggi" - che sono spesso
solo delle maschere - e rende credibile la esasperazione dei loro
stati d'animo, delle circostanze in cui agiscono. Il film di genere
insomma facilita la costruzione del meccanismo ad orologeria (si
pensi al clockwork orange - l'arancia ad orologeria, l'arancia meccanica) del
film in cui i personaggi sono le pedine (e si pensi ai continui
riferimenti al gioco degli scacchi) a disposizione dell'autore.
Da questo punto di vista è frequente, come qui in Full
metal jacket, la divisione dei film di Kubrick in due parti
l'una contrapposta all'altra in cui
prima c'è la costruzione del meccanismo filmico e poi il
suo svolgersi. In Arancia
meccanica, ad esempio, la seconda parte del film costituisce
per Alex il contrappasso della prima; in Barry
Lyndon alla progressiva ascesa sociale di Barry nella prima
parte segue il progressivo declino. La prima parte del film serve
a delineare il percorso che inevitabilmente, implacabilmente
e puntualmente - senza che gli Uomini, autori stessi delle premesse
di quel percorso, possano poi modificarne gli esiti - dovrà essere
seguito (si pensi a Il dottor
stranamore o a Orizzonti
di gloria). In Full metal
jacket la prima parte
del film ci mostra la costruzione, come in un laboratorio,
del killer ed il killer sarà il prodotto inevitabile che ne risulterà.
Joker (letteralmente buffone) percorrerà per intero questo itinerario
(questo sentiero, path =
itinerario, sentiero - si ricordi Paths
of glory) ed alla fine, dopo aver ucciso dirà "Vivo in
un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura".
Se in Path of glory
(Orizzonti di gloria) c'era in qualche modo e pur con le ambiguità
del caso una sostanziale differenza tra gli ufficiali, i
vertici dell'esercito e la truppa, vera carne da macello
soggetta alle ambizioni di potere (del generale sfregiato e quasi
infantilmente "cattivo, ma anche del
Capo di Stato Maggiore che lucidamente muove le pedine perché
"doveva essere fatto", che è poi il vero rappresentante
del Potere), in Full metal
jacket non vi è nulla del genere: nessuno è innocente. Si pensi,
già nella prima parte, alla vendetta contro Palla di lardo - che,
fra l'altro è quello che prima degli altri apprende l'essenziale
dal "trattamento" subito: la voglia di uccidere che lo
porta ad incominciare la sua guerra prima degli altri.. Si pensi
alla impossibilità di individuare dei "buoni". "Meglio a te che a me" dirà cinicamente uno dei soldati
commentando la morte di un compagno; ma poi quello stesso soldato
sarà l'unico che tenterà di salvare dal cecchino nemico i compagni
morenti. Non è un caso che Joker porti scritto sull'elmetto "Born
to kill" insieme al simbolo della pace.
E' abbastanza interessante notare che la scena ritenuta più
violenta (uno dei tagli subiti dal film nel passaggio televisivo),
quella della morte di Palla di lardo, non sia una scena di guerra
e riguardi invece, come in Paths
of glory una sola delle due parti in guerra. L'incursione di
K. nel genere bellico e nel sottogenere Vietnam ha anche questa
particolarità: non si è trattato della peggior guerra (se non per
gli USA, in quanto è l'unica perduta). La sua tipicità non è nell'inferno
della giungla descritto dal cinema americano sul Vietnam (la battaglia
cui assistiamo è urbana, contro un cecchino, come in qualsiasi guerra,
sembra di vedere le immagini della Bosnia). E' ancora una volta,
in K. , una guerra astratta, un gioco in cui è coinvolto su vasta
scala l'uomo, ed è forse la sua stupidità la protagonista del film. Si uccide nutriti di cultura media (midcult), come John Wayne.
Quella stessa cultura media che ha trovato similitudini (nella povertà
dei propri riferimenti culturali) tra la prima parte del film
e Ufficiale gentiluomo,
laddove qui si costruisce un assassino perfetto in luogo di un amante-principe
azzurro.
Un'ultima particolarità va ricordata. la battaglia urbana del
la seconda parte è girata quasi in tempo reale. L'abilità di K.
sta nel creare tensione e suspance senza lavorare sull'accorciamento
temporale (la sorpresa determinata da un a restrizione del tempo
filmico: il colpo improvviso) o sull'allungamento (la dilatazione
del tempo è il meccanismo tipico della suspance).
Grido
di libertà
di
Richard Attenbourgh (USA, 1987)
Questo film narra la storia di Stephen Biko, attivista nero,
che si contrapponeva al regime sudafricano dell'APARTHEID. Ma è
anche la storia della speranza di un mondo migliore e più giusto,
che coinvolge, nella lotta contro l'oppressore anche popoli e culture
diverse.
Biko muore orrendamente nel 1977 dopo 45 giorni di torture
inflittegli dalla polizia del regime sudafricano. Ma non muore,
come non era morta nelle tragedie che fino ad allora e che fino
al 1994 erano continuate a nome della superiorità
di una "razza" su un'altra, la speranza.
Il Sudafrica, indipendente ed unito dal 1910, è abi- tato da
37 milioni di abitanti, di cui 5 di bianchi e 27 di neri. Meta del
colonialismo occidentale per centinaia di anni poiché ricco di materie
prime e soprattutto di diamanti, il Sudafrica è stato guidato da
una minoranza bianca (boeri) dal 1940 con la "politica"
della segregazione razziale. Denominata APARTHEID (letteralmente
stato di separazione),
la segregazione razziale poggiava su due fondamentali strumenti: la legge sul censimento della popolazione, che classificava
tutti gli africani in base alla razza e la legge sulle aree di gruppo
(bantustan), dove i neri
erano frazionati in homeland
a seconda delle etnie oppure nelle township
(sobborghi di grandi città).
Per 54 anni questo regime razzista ha potuto continuare a governare
un intero paese. Ha creato un vero e proprio stato del terrore,
dove i neri non solo non avrebbero mai potuto avere i più elementari
diritti civili e politici (nessun nero ha mai avuto la cittadinanza
sudafricana, ma solo quella del bantu- stan), erano sfruttati dal
punto di vista economico e sociale.
Tutte le opposizoni al regime erano vietate. Viene messo al
bando il comunismo, chiusi i maggiori partiti che si opponevano
all'APARTHEID. Tra questi l'ANC (African National Congress) di Nelson
Mandela, il quale verrà arrestato nel 1963.
Non si contano gli eccidi del governo. Tristemente si ricordano
Soweto nel 1976 dove la polizia, in seguito ad una dimostrazione,
sparò sulla folla uccidendo 575 persone e,
nel 1992, Boipotang dove l'esercito massacra 70 neri.
Dal 1966 il Sudafrica combatte una guerra di aggressione contro
la Namibia e l'Angola. In questo ultimo paese la guerra si protrae
fino ad oggi.
Ci son voluti 50 anni di disumanità per arrivare a rivedere
il concetto di democrazia e convivenza all'interno dello stato sudafricano.
Nel febbraio 1990, quando oramai l'insostenibilità dell'APARTHEID,
sostenuta dal 1985 dallo stato di emergenza con i militari per le
strade, aveva provocato una vera e propria guerra civile,
il governo bianco accetta di avviare il processo delle riforme
per una transizione alla democrazia.
I primi passi furono quelli di dare accesso ai neri a comuni
servizi pubblici, spiagge, piscine, parchi, biblioteche. Tutto ciò
era vietato ai 27 milioni di neri fin dal 1953.
Nell' aprile 1994 infatti si sono svolte le prime elezioni
libere e vince il partito di Nelson Mandela (African National Congress)
con il 63% dei voti. Presidente diventa proprio Mandela che era
stato rimesso in libertà l'11/2/1990 dopo 27 anni di carcere, poiché
oppositore del regime. Il 10/10/93 era stato premiato, insieme allo
statista bianco De Klerk, con il premio Nobel per la pace.
Dal 1994 il paese è rinato. La speranza di un mondo di convivenza
pacifica tra gli uomini oggi passa proprio per il Sudafrica, esempio
di comprensione e non di vendetta. In questo senso la firma dell'abolizione
della pena di morte, il 6/6/95, da parte del presidente Mandela,
è un chiaro invito ai paesi che si ritengono da decenni democratici,
a rispettare realmente i diritti umani
L'esempio che oggi viene dal Sudafrica vale tantissimo poiché
viene dal continente africano oggi dimenticato e dilaniato da guerre
d'aggressione e civili, povertà e fame, come forse mai era avvenuto
fino ad oggi.
Il
colore viola
di
Steven Spielberg (USA, 1986)
Dopo il secondo Indiana
Jones, S. sorprende tutti per la scelta di un film all-black
(tutto nero, con soli attori afroamericani). Inoltre lo realizza
in modo imprevedibile, date le sue abitudini, e cioè senza storyboard
(nel cinema lo storyboard
è la illustrazione con dei disegni delle varie inquadrature nella
loro successione; questo modo di lavorare, che consente di pre-programmare
con maggiore dettaglio la fase delle riprese - quindi riducendo
i costi di lavorazione - fu introdotta in realtà quando ci si rese
conto delle potenzialità del montaggio da Ejsenstejn e molto usata
da Hitchcock sia per queste ragioni, sia per 'costruire' la composizione
di ogni inquadratura - tutto quello che deve apparire sullo schermo,
da quale angolazione deve essere visto ecc.). D'altra parte S. aveva
già in passato dichiarato: "La pre-programmazione mi ha davvero molto aiutato nelle sequenze d'azione.
Sono perduto se non programmo una sequenza d'azione, - prima nella
mia mente, poi sulla carta, poi finalmente, nell'arco di settimane,
nel film. Ma in altri casi programmo le scene in linea di massima
e lascio che gli attori mi ispirino. Se si deve fare una scena emozionante,
preferisco di gran lunga costruirla con gli attori, dire al cameraman
e alla troupe di aspettare fuori. E poi cominciare a inquadrare
dopo aver eseguito le prove. Lascio che gli attori si muovano dove
si sentano di farlo. Ecco, qui entro io e in qualche modo coreografo
l'azione. Nella terza fase arriva la macchina da presa e si gira".
Si comprende dunque il perché ne Il colore viola, film di emozioni e di sentimenti e non d'azione,
dove è molto più necessaria una interpretazione convincente degli
attori, si preferiscano margini più ampi di libertà anche sul set
alla logica e razionale pre-programmazione. Domina, invece, l'aspetto
coreografico cui fa riferimento S. nella dichiarazione riportata,
ed è per questo che il film è stato paragonato ad un musical, per
quanto meno cantato e più spettacolare rispetto al musical tradizionale.
Il libro da cui è tratto il film era costruito sul linguaggio
della protagonista, e specificatamente sul progressivo miglioramento
del suo uso da parte della protagonista che scrive delle lettere
a Dio mano a mano che ella acquista coscienza di se stessa come
essere umano e come donna. Tutto questo nella pellicola non c'è.
Il rischio che il film corre, nel non voler essere opera "sociale",
ma di sentimenti e cioè nel suo mostrare personaggi particolarmente
deboli e inermi vittime della brutalità dei prepotenti, è quello
di accreditare la tesi che un nero misero e ignorante lo sia più
di un bianco nelle stesse condizioni: il rischio, insomma, di un
approccio emotivo, ma dalla morale discutibilmente prevenuta, nonostante
l'onestà dell'autore (In questo senso si
comprende perché la comunità nera in genere abbia boicottato
la pellicola). In realtà il
regista ha visto in Whoopi Goldberg la possibilità di creare
un E.T. nero, cioè un alieno sovraccarico di umiltà e tenerezza.
Le grandi emozioni sono tutte in scena, sempre: orgoglio, modestia,
amore, sessualità, violenza, rimpianto ecc. , e tutte trovano corpo
in questo o quel personaggio senza ambiguità o sfumature.
S. ha dunque proposto il suo E.T. nero, venandolo di suggestioni
infantili a un punto tale che la scena di chiusura fra le due sorelle
che giocano sullo sfondo di un sole troppo grande rimanda a un'età
ritrovata dopo essere stata tenuta chiusa dentro per tanti anni.
Le bambine d'un tempo si rincontrano da grandi, dopo la sofferenza
c'è la tranquillità, la pace. Tuttavia, per quanto pieno di elementi
da commedia, Il colore viola rimane un film di dolore: il senso di gruppo della
comunità nera tocca il massimo livello nella scena dell'incontro
fra i due gruppi, quello della chiesa e quello che giunge dal bar;
il primo intona uno spiritual
("Il Signore vuol dirti qualcosa") per contrastare il
rumore del blues che giunge da lì vicino, ed ecco allora che anche il gruppo
laico intona lo stesso spiritual
andandosi a congiungere ai fedeli. Il momento è forte e il suo
significato evidente: le radici della cultura nera sono le stesse,
laica o religiosa che essa sia: il blues è soltanto un'altra forma
di lamento per la propria condizione di reietti, di infelici. Forse
è per il senso di dolore che domina il film che S. ha deciso di
fare un all-black: forse in nessun popolo come in quello del blues
il dramma della razza si confonde con un'inesausta capacità di scherzare,
ridere, gioire. In nessuno tranne che nel popolo ebraico, del quale
proprio nei suoi spirituals quello nero afferma di sentirsi epigone
e a cui per razza, guarda caso, appartiene Spielberg.
OTAR IOSELIANI
Storia di un regista scomodo
Ioseliani lamenta nei suoi film il progressivo imborghesimento
dei suoi connazionali, l'aggressività-passività dei Russi, la commercializzazione
della produzione cinematografica e, più latamente, la perdita nella
vita delle cose di maggior valore, di quelle che la rendono vivibile
e godibile: il disinteresse per il denaro, l'amore e l'amicizia,
la libertà di gestire a proprio comodo le proprie giornate, la natura
e la musica, le bevute in compagnia... Non è fatto, dunque, per
entusiasmare i burocrati moscoviti (e neanche quelli georgiani)
e si trova vieppiù isolato anche rispetto al suo pubblico privilegiato,
quello dei connazionali, che cercano anch'essi dal cinema non l'espressione
della propria cultura ma la sua folklorizzazione, e il dramma e
la commedia, e i sentimento consolatori e falsificati.
Ha studiato musica a Tbilisi, sua città natale (1934), poi
matematica e meccanica a Mosca, ma passando al VGIK per laurearvisi
nel '61. Il suo saggio di diploma è un documentario d'ambiente georgiano,
Cugun (La ghisa, 1964),
che è singolare per il suo sguardo sulla fonderia così arguto e
"diverso" dall'epopea del lavoro. Aveva, però, già girato
nel '61 il suo primo film, Aprel'
(Aprile), bloccato chissà perché dalla burocrazia. Per la delusione
aveva abbandonato il cinema e si era fatto operaio e poi marinaio,
ma al cinema e al lungometraggio era tornato con Listopad
(La caduta delle foglie, 1966), il film che lo rivelò a Cannes,
due anni dopo, alla critica occidentale. Nel 1971 si è affermato
definitivamente con il satirico ed amaro Zil
pevcij drozd (C'era una volta un merlo canterino), girato a
Tblisi, in gran parte in ambienti reali. Considerato politicamente
scomodo, Iosseliani ha avuto in effeti ben poche occasioni per rivelare
al pubblico e alla critica il suo talento; nel 1976 ha girato Pastoral,
rimasto però quasi sconosciuto. Pastoral è stato presentato da Ioseliani
ai burocrati come "un film sulla psicologia dei piccolo-borghesi
che ci ostacolano la vita nella nostra lotta per la costruzione
di un uomo nuovo. E nessuno ha sorriso, turri erano serissimi e
così mi hanno dato l'autorizzazione a girare".
Ha detto ancora Ioseliani "Non sono Dio né un demiurgo.
Quel che voglio è fissare la mia felicità o la mia tenerezza ssullo
schermo per trasmetterle agli altri. E' il solo atteggiamento che
non sia aggressivo. Non vglio insegnare alla gente come deve vivere.
Ciascuno è nato per bere il bicchiere della sua vita" E ancora
"Ho scoperto le regole della mia arte: dev'essere come la vita.
Credo che ricreare la realtà significhi conservare nella memoria
qualcosa che ha molta importanza per se stessi e che si giudica
necessario comunicare allo spettatore dialogando con lui".
La
messa è finita
(Ita,
1985) di N. Moretti
SCHEDA
TECNICA:
Scenegg. N.Moretti e S. Petraglia
Dir.fot. F.Di Giacomo Musica
N. Piovani Prod.
Faso Film Durata originale
94'. Interpreti: N. Moretti
(don Giulio), Margarita Lozano (sua madre), Ferruccio De Ceresa
(suo padre), Enrica Maria Modugno (Valentina, sua sorella ), Marco
Messeri (Saverio) Roberto Vezzosi (Cesare).
"Il prete -
dichiara l'autore - è figura
troppo spesso degradata a macchietta nel cinema di casa nostra".
Si tratta in effetti di un personaggio complesso da mettere in scena.
In realtà. La messa è finita contiene molti elementi di contiunuità
rispetto alle precedenti opere eppure costituisce una assoluta novità
per il cinema di Moretti, ed anche nel personaggio di don Giulio
troviamo appunto la novità di un prete - certo lontano dal Moretti/Apicella
- che tuttavia mantiene i tratti caratteriali, le ossessioni e le
manie di Michele Apicella, il protagonista di tutti i film di Moretti
(con l'eccezione di Caro diario, dove è direttamente Moretti il
protagonista).
Il film esce nel 1985, in piena era Craxiana ed appare in stridente
contrasto con l'Italia spregiudicata e rampante di quegli anni,
gli anni dell'esplosione della Borsa Valori, del referendum perduto
sulla contingenza, dell'esplosione delle televisioni Berlusconiane,
delle prime spinte verso il presidenzialismo (Craxi e MSI ne sono
i principali assertori). Il film - che peraltro comincia con un
ritorno a Roma, il centro, la madre traditrice anche se indubbiamente
madre - è l'opera di un moralista, di un autore che non accetta
una "libertà nel nulla" (cfr. Ghezzi), che pur straziato
- in bilico tra la nostalgia di un'adolescenza felice o presunta
tale e lo squallore e l'immaturità in cui si sgretola la famiglia
- tenta di opporsi.
La posizione che così assume è scomoda, vorrebbe essere quella
dell'osservatore che oggettivamente, un po' dall'alto aiuta
gli altri e viene invece travolto dai suoi problemi (è quello
che succede a Michele in Bianca, è costretto ad entrare in gioco e non può più solo guardare,
giudicare guidare...). Il prete si trova nella difficoltà di voler
dare aiuto ad una umanità che non lo desidera o che vuole solo l'assoluzione,
mentre non trova aiuto quando lo cerca. Giulio, pur fallendo, come
confessa, rifiuta una facile fuga (tornare al paese), e poi nel
finale deciderà di sottoporsi ad una prova ancora più estrema, andando
dove "il vento fa diventare pazzi" e la gente ha bisogno
di un amico.
Una solitudine come questa trova non certo soluzione, ma almeno
un momento di serenità nel momento di fusione tra rito e mito, nella
messa "ballata" del finale. Nel rito della messa rivive
il mito della famiglia: Saverio ed Astrid, ad esmpio, ballano dolcemente.
La comunità sembra riunita nell'amore di fronte al sacrificio di
Giulio che va in una terra sperduta e questo è almeno un indizio
per proseguire il viaggio.
La
mia generazione
di
Wilm Labate (Italia 1996)
Ne La mia generazione compaiono due vere e proprie allegorie: quella
di Braccio (Claudio Amendola), componente di una minoranza che con
la forza intendeva far prevalere le propria idee e la propria concezione
di Stato, e dallaltra quella di un capitano dei
carabinieri (Silvio Orlando) componente di una maggioranza che nel
1983 - anno in cui è ambientato il film - era ormai vincente. Il
film parla di quello scontro. Insomma Braccio, il terrorismo,
e il capitano dei carabinieri, lo Stato, rappresentano
questi due blocchi contrapposti.
Laspetto interessante del film
è forse lonestà intellettuale che lo caratterizza, nel mettere
lo Stato nelle mani di un personaggio davvero abominevole, sgradevole
fino in fondo. Nonostante Silvio Orlando goda normalmente di grande
simpatia, qui è trasformato in un personaggio viscido e odioso.
Daltra parte il cattivo, Braccio, è un personaggio
certo in crisi, ma non ha arroganza e non permette che gli si laceri
lanima in mille pezzi: è, in fondo, un personaggio forte,
che non può accettare di essere un pentito, sebbene
alla fine si dissoci dalla lotta armata smontando la pistola.
Altro aspetto interessante del film
è nel fatto che sia quasi interamente girato su un blindato dei
carabinieri che trasferisce il prigioniero. Si tratta di una sorta
di diligenza che attraversa in lungo lItalia,
ma che in realtà attraversa più uno spazio temporale che uno spazio
geografico. Questo grazie al lavoro con gli attori, che assumono
filologicamente gli atteggiamenti e la postura dei personaggi
dellepoca - unumanità diversa da quella di oggi - ,
ma anche perché il viaggio vuole essere anche una sorta di spiegazione
storica di quello che è avvenuto in Italia.
Il film è probabilmente più debole
di quanto ci si potesse aspettare da Wilma Labate, costretta per
esigenze di produzione a diverse rinunce in cambio degli attori
che desiderava (la Rai, ad esempio, ha impedito che il film fosse
girato in bianco e nero) e risulta forse così più accessibile per
un pubblico più numeroso.
La notte di San Lorenzo
di Paolo e Vittorio Taviani
Paolo e Vittorio
Taviani otterranno con questo film il loro più grande successo.
Fino a pochi anni prima erano stati seguaci del cinema politico,
che si era affermato fortemente negli anni 70. In quella loro
esperienza avevano affrontato il tema della Rivoluzione e delle
sue prospettive, in particolare in una società a capitalismo avanzato
come lItalia. La loro ricerca («I nostri film sono fatti per un pubblico che cerca») era stata comunque
sempre incentrata sul tentativo di trovare una sintesi tra gli ideali
rivoluzionari, socialisti e marxisti, e la soggettività: tra il
bisogno di un agire collettivo e la ricchezza dellindividuo
che vuole restare insieme agli altri.
La Notte di San Lorenzo è un film della memoria. Esso racconta - nel 1982 - del travagliato 1944,
in attesa della liberazione dai tedeschi ad opera degli americani,
nel paesino dorigine dei due autori. Al di là della notazione
biografica, va sottolineato come la memoria della
Storia sia proposta attraverso una
storia - mitizzata e forse reinventata, ma «vera», come alla
fine dice la protagonista - così come la ricorda una donna che allepoca
dei fatti aveva solo sei anni. È dunque il ricordo che una donna
di oggi fa di una sua esperienza infantile che permette il sopravvivere
della memoria storica.
Il desiderio
cui allude il titolo, che evoca la notte delle stelle cadenti, è
chiarito immediatamente: «Sai
qual è il mio desiderio, amore mio? Il mio desiderio, questa notte,
è quello di trovare le parole per raccontare unaltra notte
di S.Lorenzo di tanti anni fa». Trovare le parole migliori per
raccontare, dunque. Infatti non si tratta di raccontare solo una
storia o La Storia, si tratta di descrivere le emozioni degli uomini
e delle donne, di spiegare che cosa significavano quegli eventi
nel momento in cui i personaggi li vivevano. Sarebbe impossibile
e ipocrita voler raccontare «oggettivamente». In questo senso appare
sempre evidente, in tutto il film, la posizione morale degli autori.
Bisogna aggiungere
che il film non rivela, se non nellultima sequenza, chi sia
il destinatario del racconto della protagonista, ma scopriremo che
il destinatario principale è la narratrice stessa, la quale non
vuole dunque solo raccontare, bensì affermare la propria identità:
la donna che racconta anche a se stessa, definisce chi è. Dunque
non solo film della memoria, ma anche film sulla
memoria, sulla sua necessità per lindividuo che voglia
affermare la propria identità, la propria storia, il proprio vissuto.
Il quadro che
il film ci presenta, attraverso il lungo flashback in cui è racchiuso
il racconto, ha, sostanzialmente, un unico protagonista: il popolo.
Si tratta infatti di un affresco dellItalia contadina e popolare
dellepoca (si pensi allepisodio iniziale del matrimonio,
alla pipì che la ragazza fa - compiaciuta - davanti alleccitazione
dei bambini nel rifugio, alla cultura contadina della «roba», ricordata
dalle valige con i vestiti che si portano dietro, alla sessualità
- così calorosa e importante in queste vite, vissuta con autenticità).
Le persone del popolo sono sempre capaci di reagire, anche ai colpi
più drammatici, e vivono con limperativo «sha il dovere di sopravvivere», enunciato nel frugale ma festoso
matrimonio iniziale da un prete popolano (contrapposto al vescovo,
che invece, nel voler salvare anime e non vite, determina la catastrofe
del duomo).
Nella voce
fuori campo della donna che racconta, nel suo italiano elegante,
nella poeticità del suo ricordare, scopriamo le trasformazioni che
questItalia ha vissuto. La bambina figlia di contadini è cresciuta
in una donna colta, che ha però bisogno, per definire se stessa,
di ricordare.
La
paura mangia l'anima
di
R.W.Fassbinder (Ger.
1973)
Un primo riferimento ad Angst
essen Seele auf (La paura
mangia l'anima) è contenuto in un precedente film di Fassbinder,
Der amerikanische Soldat
(Il soldato americano,
1970); lì, infatti una cameriera (Margarethe von Trotta) racconta,
ma con finale diverso, la storia che costituirà il soggetto di La
paura mangia l'anima: "Esser
felici non è sempre un piacere....c'era ad Amburgo una donna delle
pulizie che si chiamava
Emmi. Una sera, rientrando, fu colta dalla pioggia; allora entrò
in un caffè, normalmente frequentato da immigrati. Si siede ed ordina
una Coca. D'improvviso un uomo la invita a ballare. Lui è grande
e forte e ha due spalle robuste. Lei lo trova bello e danza insieme
a lui. Poi si siedono sul tavolo e parlano. E lui le diche che non
ha un posto dove andare. Così lei gli dice di andare a dormire a
casa sua. Sì, e a casa dormono insieme e qualche giorno più tardi
lei dice che dovrebbero sposarsi. Allora si sposano ed Emmi si ritrova
di colpo giovane. Vista di spalle le si sarebbero dati trent'anni.
E per sei mesi furono pazzamente felici".
Fin qui il racconto della cameriera coincide con la storia
del film, il seguito differisce profondamente. Margarete von Trotta
raccontava ancora del ritrovamento del cadavere di Emmi, assassinata;
segni sul collo indicavano che l'uccisore portava un anello-sigillo
con incisa una "A". Il marito, che si chiamava Alì, fu
arrestato. Ma la polizia scoprì che egli aveva un numero infinito
di amici che si chiamavano Alì e che tutti portavano un anello uguale.
Allora furono interrogati tutti i turchi di Amburgo, che però non
capivano una parola di tedesco. Così la polizia non sapeva che pesci
pigliare. In questo modo si spiegano i vari titoli con cui questo
film è stato conosciuto in Italia. Quando il Goethe
Institut lo mise in circolazione si intitolava Tutti gli
altri si chiamavano Alì. Successivamente, al film fu restituito
il suo bellissimo titolo originale La paura mangia l'anima (la traduzione non rende esattamente lo sgrammaticato
tedesco di Alì, per cui il titolo dovrebbe essere effettivamente
Paura divorare anima).
La storia di La paura
mangia l'anima prosegue invece descrivendo le difficoltà che
Alì ed Emmi trovano
nel farsi accettare dalla società: i tre figli di Emmi la rinnegano
schifati; il droghiere le vieta l'ingresso nel suo negozio; le colleghe
di lavoro la ignorano disgustate. Ma, dopo un viaggio all'estero,
tutto cambia: i figli hanno bisogno della madre perché tenga i nipoti;
il droghiere pensa cxhe i supermercati gli fanno una dura concorrenza;
colleghe e vicine cominciano ad invidiare ad Emmi un marito così
giovane e gentile.
Nel momento in cui vengono ufficialmente riconosciuti, Emmi
diventa però possessiva nei confronti di Alì. I due si lasciano
e si cercano riconoscendo infine il bisogno che hanno della reciproca
presenza, una presenza che li mette al sicuro da un destino che
potrebbe anche essere chiamato "sfruttamento".
Questo è uno dei film più immediati di Fassbinder, non perché
facile e scontato, me per come espone con chiarezza e sensibilità
verità semplici ed essenziali. Il regista sfrutta sapientemente
il pathos della rivolta iniziale degli emarginati attraverso l'inevitabile
identificazione del pubblico con la storia dei protagonisti e con
quella che nel film passa come la "causa giusta". Ma il
regista sa anche che la realtà non è fatta di buoni e cattivi. L'ambiente
sociale di Emmi si rivela abbastanza elastico da integrare la loro
diversità (anche se solo per interesse). Emmi, tuttavia, sgretola
l'affetto di Alì per lei, non comprendendone la diversità. E senza
rispetto non si dà amore. Altri Alì ed altre Emmi compaiono un gradino
sotto la loro condizione: un'affermazione, questa, da prendere alla
lettera, se pensiamo alla sequenza in cui Emmi si ritrova a spettegolare
sulle scale con le colleghe sul licenziamento di una di loro, mentre
la sostituta, una giovane yugoslava, è ignorata e costretta a consumare
la colazione al piano inferiore. La paura mangia l'anima è un buon
esempio in cui Fassbinder tratta il personaggio del "diverso".
Il suo approccio non è né morboso, né "poetico" (come
è, ad esempio, quello di Herzog): è umano e sincero.
"Ogni volta che
due persone si incontrano e stabiliscono una relazione si tratta
di vedere che domina l'altro (..). La gente non ha imparato ad amare.
Il prerequisito per poter amare senza dominare l'altro è che il
tuo corpo impari, dal momento in cui abbandona il ventre della madre,
che può morire. Quando si accetta il fatto che la morte è una parte
della vita, non la si teme più e non si ha più paura di qualsiasi
altra "fine"; ma finché si vive con la paura della morte,
si reagisce in modo identico rispetto alla fine di una relazione
e, come risultato, l'amore che pure esiste viene pervertito".
(R.W.
Fassbinder)
La
ricotta
di
P.P.Pasolini (ITA, 1963 - 20')
Con questo film, che segue Accattone e Mamma Roma, Pasolini
offre una grottesca sacra rappresentazione, apparentemente incline
al divertissement d'autore, che sintetizza invece con grande maestria
intellettuale la sua attuale idea "politica" di cinema
- di presa di posizione nei confronti del proprio ruolo di intellettuale
antiborghese - gettando le basi del suo cinema a venire. Nonostante
il film presenti una struttura piuttosto lineare, da comica chapliniana,
mai come qui la sintesi tra il grottesco temperamento autoironico
di questi "nuovi martiri" senza santità e la loro tragedia
inesorabile fa emergere con chiarezza l'ispirazione pasoliniana,
in bilico tra un sentimento paleocristiano della religione come
cosa viva e quotidiana e gli ultimi effetti della teoria di Gramsci
di cui P. aveva cantato le "Ceneri" qualche anno prima.
Il film narra della storia di un film da girarsi sulla vita di Cristo,
e in questo gioco di specchi tra i due piani di finzione, sottolineato
dal bianco e nerousato per il grigiore "reale" del set
in contrasto con il colore "del film", le cui scene si
ispirano all'iconografia manieristica (la Deposizione
del Cristo di Rosso Fiorentino e quella del Pontormo), intaglia
una sottile opera semiseria, permeata da un profondo senso di ritorno
a quell'infanzia perenne dei "poveri di spirito" di cui
P. per tutta la vita si è fatto apostolo.
"Stracci è un personaggio
più meccanico di Accattone, perché sono io - e si vede - che aziono
i fili. E lo si nota con esattezza nella costante autoironia. Ecco
perché stracci è un personaggio meno poetico di Accattone. Ma è
però èiù significativo, più generalizzato. La crisi di cui il film
testimonia non è la mia, ma è la crisi di un certo modo di vedere
i problemi della società italiana (..). Stracci non è più un e del
sottoproletariato romano in quanto problema specifico, ma è l'eroe
simbolico del Terzo Mondo".
Il regista interpretato da Orson Welles - che recitò in italiano
- rappresenta, invece , oltre all'arguzia antiborghese, anche la
profonda contaminazione che l'intellettualità marxista dell'epoca
stava subendo, nel suo lento processo di integrazione e identificazione,
dalla stessa intellettualità borghese. Si tratta di "una
specie di caricatura di me stesso andato oltre certi limiti e visto
come se, per un processo di inaridimento interiore, fossi diventato
un ex - comunista".
Ne La ricotta, dunque,
emerge la profonda mutazione, nel senso di una compenetrazione contraddittoria
e confusa di tutte le classi che la costituiscono, della società
italiana. Il corteo di giornalisti e produttori che si avvia verso
l'enorme buffet apparecchiato
proprio ai piedi delle tre croci, stigmatizza in pochi secondi lo
spirito superficiale e consumistico che anima il senso religioso
borghese, contro il quale P. di lì a poco realizzerà il suo Vangelo.
La storia di Qiu Ju
di
Zhang Yi Mou, (Cina, 1992)
Il film è il racconto di una storia molto semplice nel suo
svolgimento: la protagonista, Qiu Ju (Gong Li) è una contadina che
testardamente esige le dovute scuse dal capo del villaggio che ha
colpito suo marito con un calcio al basso ventre. Per ottenerle
deve seguire un lungo iter burocratico.
La vicenda è ambientata nella Cina rurale ed il regista utilizza
un cast composto per
il novanta per cento da attori non professionisti, veri contadini
della provincia dello Shanxi. Il film presenta quasi un tono documentaristico
a causa di uno spiccato realismo descrittivo e ci offre uno spaccato
anche del contrasto tra campagna e città, oltre alla descrizione
precisa della vita quotidiana di un villaggio cinese, delle relazioni
sociali che vi intercorrono.
Qiu Ju è la donna che rivendica la sua individualità e i suoi
diritti, e che non si adegua al rispetto tradizionale verso il capo
e l'ordine costituito. Come spiega lo stesso Zhang Yi Mou: "nella storia di Qiu Ju non è importante il litigio, chi abbia ragione
o no, e neppure che la legge sia davvero imparziale. E' importante
la volontà della donna, il suo carattere, il suo modo di pensare
che una volta in Cina non esisteva". Ed infatti il ruolo
di Qiu Ju gode di una centralità che le è riconosciuta dalla stessa
comunità di appartenenza, a differenza di quanto avveniva nel precedente
film di Zhang Yi Mou, Lanterne
Rosse, in cui la protagonista è una concubina che rifiuta il
ruolo subordinato socialmente assegnatole: il conflitto con la figura
maschile del marito, che rappresenta l'immutabilità della tradizione
e del potere, è destinato ad una drammatica sconfitta.
Nella vicenda di Qiu Ju si percepisce la distanza tra le dinamiche
interpersonali interne alla comunità e il potere burocratico, assolutamente
spersonalizzato e spersonalizzante: la ricomposizione del rapporto
tra Qiu Ju e il capo del villaggio non avviene attraverso il ricorso
ad un potere superiore e lontano, ma si realizza sul piano delle
relazioni personali dei protagonisti della storia.
Lamerica
di
Gianni Amelio (1991)
Lamerica è
il primo film di Gianni Amelio che fonde la coralità di un evento
storico -il crollo del socialismo reale in un piccolo paese come
l'Albania - e l'analisi di un conflitto personalizzato.
Film a doppio binario, Lamerica
ritesse il motivo del viaggio, presente in Il
ladro di bambini (e in molti film del neorealismo italiano),
nonché quello della presa in custodia di un individuo verso il quale,
in principio, non si ha nemmeno un po' di curiosità.Qui si realizza
l'intuizione che accoppia due opposti smarrimenti, prodotti da quella
terribile guerra che è la vita e la storia degli uomini: il reduce
traumatizzato dalla interminabile permanenza nelle prigioni e nei
lager staliniani, l'ex soldato che nella mente sconvolta è rimasto
fermo a mezzo secolo fa, e il braccio destro di un affarista cinico,
il servitore compiacente e convinto di un'ideologia che antepona
a ogni regola etica e morale il profitto, da raggiungere a testa
bassa, al di fuori di ogni legge e controllo, indefferenti al prossimo.
Queste due figure, quella
di Spiro (Carmelo Di Mazzarelli) e quella di Gino (Enrico Lo Verso),
che avrebbero potuto risultare astratte e intellettualistiche, grazie
all'abilità del regista diventano due esseri provvisti di umanità
e di accenti dolorosi. Se un segno Lamerica lo incide, questo lo
si intercetta proprio nei momenti in cui la macchina da presa abbandona
i campi ariosi per stringersi intorno a Lo Verso e a Di Mazzarelli,
ritagliandoli dall'abbondante e frastornante contorno. Incontriamo,
in Lamerica, un paesaggista che agli esterni dei suoi film chiede
di esprimere le spine e le lacerazioni dell'interiorità. I panorami
albanesi, che rammentano il nostro meridione povero del periodo
fascista e postbellico, si prestano alla bisogna, brulli, aspri,
pietrosi. E hanno nello squallore delle cornici urbane o paesane
una sorta di prolungamento, il simbolo di una provincia arretrata
e di una economia striminzita, l'emblema di una società autosegragatasi
dal consorzio mondiale e sottoposta a un regime coercitivo irrirato
da ondate di fanatismo ideologico e da censure di ogni specie. Questa
società per la prima volta assapora avidamente la libertà di comunicare
e, captando le stazioni televisive italiane, si immagina un'Italia
terra dei bagordi, un'America a tiro di schioppo, dispensatrice
generosa di benessere, raggiungibile facilmente, avendo con sé soltanto
il vestito che si indossa.
L'amore molesto
di M.Martone
Un primo aspetto
interessante nell'analizzare i film di Martone (Morte di un matematico napoletano e L'amore molesto) è il fatto che pur essendo entrambi i film basati
sulla vita e sui sentimenti più intimi ed a volte reconditi di personaggi
che da un punto di vista cinematografico sono molto ben sviluppati,
tanto che nel passaggio dal teatro al cinema del regista si è giustamente
individuata una continuità nel suo tentativo di tracciare una "drammaturgia
del pensiero", pur essendo dunque un regista che ha fatto questa
scelta di fondo, le sue parole per descrivere entrambi i film sono
innanzitutto riferite alla città di Napoli: "In Morte
di... c'era la Napoli della testa, ne L'amore
molesto c'è la Napoli del corpo".
Il rapporto
con la città è dunque un elemento essenziale dei film di Martone.
Se in Morte di ... c'era
una Napoli in cui dominava una luce giallastra che era insieme il
conforto del sole ed il pallore polveroso della malattia, ne
L'amore molesto Martone mostra la visceralità della città attraverso
un intreccio profondo e inquietante, una città stridente, misteriosa,
soffocante eppure solare,
torbida, in cui anche i sensi ed i sentimenti dei personaggi sono
continuamente segnati dalla città in cui si vive, la metropoli caotica
e a volte spaventosa con la sua inscindibile umanità. Una città
di ambiguità, doppiezze, in cui colpa e innocenza si mescolano continuamente,
che è un'altro personaggio.
L'amore molesto
è un film che racconta la corporeità di una Napoli che è quella
di Angela Luce vitale e bacchica nella decadenza e quella riacquistata
da Delia con fatica, attraverso l'emergere dell'inconscio, entrambe
continuamente al cospetto della sensualità vorace e instancabile
di una fauna urbana che nel non essere solo uno sfondo costituisce
quell'impasto tra i personaggi, la città, la sua cultura che da
al film la forza di lasciare il segno. In questa prospettiva è ancora
più forte l'effetto del mescolarsi continuo tra vecchio e nuovo
dell'esistenza comune di madre e figlia, la circolarità della vita
delle due donne, il parallelo ed inverso andamento delle due trame,
le colpe e le innocenze reciproche che innescano una sorta di gioco
della verità.
L'articolo
2
di
M.Zaccaro (1991)
«La Repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica
e sociale» così recita l'articolo 2 della Costituzione Italiana.
Così si intitola anche il film di Zaccaro che narra la storia
di una famiglia algerina immigrata in Italia.
La violazione dei diritti umani, a cui il titolo sembra rimandare,
non esaurisce completamente la sostanza del film. Anzi sembra un
pretesto per ribadire un evento antropologicamente devastante che
è l'immigrazione di popolazioni impoverite e "traumatizzate"
dalla rappresentazione del progresso.
La sofferenza di un domani avvolto dalla nebbia della rincorsa
di un minimo di sostentamento in una società diversa e sicuramente
poco accogliente, traspare in tutti i protagonisti immigrati del
film. Anche e soprattutto attraverso i movimenti, gli sguardi, le
riflessioni dei bambini passa una immagine, oltre che
di tenerezza, di generale difficoltà a essere felici nella
"terra promessa".
La poesia che il film trasmette va oltre il racconto della
storia e sottolinea nel montaggio, nella recitazione, nella fotografia,
il suo intento di critica a un modello di società, quella occidentale,
molto poco disponibile a essere una cultura tra le altre culture,
anzi. Un film che non disdegna di essere un tentativo di documentazione
antropologica della realtà dei nostri tempi attraverso lo sforzo
di far ridiventare le immagini cinematografiche, nella loro composizione,
quello che sono: immagini parziali per un messaggio ideologico.
Libera
di P.Corsicato
Un crocifisso
lascia il passo ad una antenna televisiva che ne richiama la forma
a croce, una donna distesa e interamente ricoperta da una maschera
di fango si trasforma in una donna vestita di bianco evocando la
nascita di una nuova specie umana - destinata a subire sulla propria
pelle tutta la irrealtà e la fragilità di cui vive. Al termine della
giornata di una vita che permette il successo solo a chi sia disposto,
letteralmente, a vendere la propria intimità, una donna si strucca,
toglie la maschera e la rimette al suo posto - la tazza del cesso.
Queste sequenze sono rispettivamente l'inizio e la fine del primo
lungometraggio di Pappi Corsicato, costruito come un film ad episodi
- tre storie di donne :Aurora, Carmela, Libera - che come è facile
capire in realtà tracciano un quadro unitario.
L'idea della
trasformazione, della nuova nascita a cui si è continuamente costretti
è una delle idee centrali del film, ed è sviluppata attraverso un
percorso che segue una linea che in fondo è abbastanza evidente.
Nel primo episodio lo stravolgimento metaforicamente espresso delle
prime immagini - di cui si è già detto - ha prodotto una vita che
non può che subire passivamente il processo di trasformazione della
propria esistenza. La donna tanto elogiata dal prete perché ha rinunciato
all'amore per preferire il denaro, più sicuro, pagherà caro persino
il tentativo di recuperare i vecchi buoni sentimenti. La trasformazione
dell'episodio centrale, quella intimamente voluta e prodotta dalla
stessa protagonista madre-padre, in quanto autenticamente desiderata
contro tutto e tutti non può che produrre disastri. L'ultima trasformazione
esistenziale, quella di cui è protagonista Libera, costituisce l'esempio
di un processo di adattamento, omologazione e perdita della propria
identità - la progressiva perdita di libertà di Libera e la repressione
della propria sessualità - a cui la protagonista giunge non senza
consapevolezza, per quanto il meccanismo che si determina non preveda
cedimenti di sorta. E' per questo che il suo atteggiamento verso
il marito esausto è professionale, cinico, produttivista nella sua
apparente amabilità - "fammi fare bella figura" dice mandandogli
un bacio - e si contrappone alla scena finale in cui, sola e davanti
allo specchio, può permettersi di togliere la maschera e metterla
al suo posto. L'immagine del water tra l'altro ritorna due volte
in questo episodio: della seconda si è già detto; la prima volta
invece è quella in cui una lacrima di Libera - ancora incapace di
"integrarsi" - finisce metaforicamente nel water. In qualche
modo la fine a cui si è destinati piangendosi addosso o omologandosi
- sembra suggerire Corsicato - è la stessa, anche se il tono surreale
ed ironico a cui ricorre il film rende meno spietato e un po' annacquato
il messaggio.
L'ironia della sorte
di El'dar Rjazanov
Il film L'ironia
della sorte (1975) è innanzitutto un film sovietico. E non soltanto
perchè l'azione si svolge tra le due principali città russe, Mosca
e Leningrado (oggi San Pietroburgo). Che si tratti di un film "tipicamente"
e "caratterialmente" sovietico lo dimostra il fatto che,
a partire dal '75, anno dell'uscita del film, ogni 31 Dicembre esso
veniva trasmesso dalla televisione sovietica. Il prologo all'inizio
del film non dà semplicemente l'argomento, non è una facile premessa
a un film comico e divertente, esso ha una valenza tutta politica
e, a nostro giudizio critica, nei riguardi di un sistema chiaramente
definito: quello sovietico. Anche se poi, ci viene da pensare, che,
in assenza di quel sistema, la sequenza continua di equivoci e slanci
emotivi che caratterizza la struttura dialogata del film e la sua
storia, e certamente
tutta la vita russa, sarebbe un po' meno poetica e meno comica.
La sovieticità del film non è solo nei luoghi in cui l'azione si
colloca, le periferie delle grandi città dove al posto dei coloriti
villagi sono sorti i famosi palazzoni grigi noti in tutto il mondo
o gli appartamenti a due stanze di 32 metri quadri con mobili polacchi.
C'è molto di sovietico nello sfortunato protagonista Zenia, ancora
celibe all'età di 36 anni (non dimentichiamo che solitamente il
matrimonio avveniva molto prima), un chirurgo con compiti
difficili ma poco riconosciuti, almeno economicamente, al
quale si nega la possibilità di avere "opinioni proprie".
E senza dubbio è tutto sovietico il rito della sauna ( e della vodka
naturalmente), un vero "rito solenne", come afferma Miska,
anche se non mancano i richiami al democratico mondo occidentale
rappresentato dal regalo di Ippolit a Nadia: un "vero"
profumo francese! Un film molto ironico, dunque, che raggiunge in
alcune scene una comicità ancora tutta sovietica. L' ironia è nel
linguaggio e questo forse rappresenta un limite specie per chi,
come voi, non potendo coglierla pienamente dovrà accontentarsi di
una traduzione in simultanea pressochè neutra, ma sentita. Ecco
allora qual è il nostro invito: un invito alla sottoscrizione. Di
cosa? Sottoscrivete per un corso di lingua russa, a pagamento naturalmente
!!!
Lisbon
story
(Ger,
1994) di Win Wenders
All'indomani di Così
lontano, così vicino!, forse per scrollarsi di dosso l'etichetta
di regista "filosofico" guadagnata con gli ultimi film
, Wenders manifesta in più occasioni il desiserio di cimentarsi
con i toni leggeri della commedia.
Lisbon story nasce come film su commissione. E' Paulo Branco,
il produttore più illuminato del cinema portoghese, a proporre a
Wnders, nell'ambito delle iniziative "Lisboa '94", la
realizzazione di un documentario sulla città lusitana scelta come
capitale europea della cultura. CI sarebbero tutte le premesse per
un reportage modello Tokyo-ga. Ed invece il regista tedesco, sempre
pronto a trasformare in spunti narrativi le suggestioni ambientali,
opta per la finzione: non un documentario su Lisbona, dunque, ma
la storia di qualcuno impegnato su Lisbona.
Sono molti gli elementi che legano Lisbon story a Lo stato
delle cose. Innanzitutto l'ambientazione portoghese: lì la spiaggia
di Sintra, qui Lisbona, peraltro già attraversata velocemente dai
personaggi di Fino alla fine del mondo e adesso autentica protagonista
del film, terza città decisiva nell'immaginario wendersiano dopo
Berlino e Tokyo. Quindi l'aspetto narrativo: al centro di entrambi,
infatti, c'è la storia della realizzazione di un film condita da
una misteriosa scomparsa (lì il produttore, qui il regista). Infine,
e soprattutto, i due film propongono perfettamente inserita nelle
pieghe del raccono, una riflessione sul mezzo cinematografico, l'istituzione
di una contrapposizione teorica destinata ad esplicitarsi attraverrso
una resa dei conti finali tra due personaggi. Se il confronto, nel
film del 1982, era tra due diverse concezioni del cinema (europea
e americana), la posta in gioco in quest'ultimo, è la sopravvivenza
stessa del cinema, la sua ragion d'essere di fronte alle nuove frontiere
inaugurate dal mezzo elettronico. Come il Wenders teorico degli
ultimi tempi, Fridrich non crede più nelle immagini: troppo inflazionate
per poter ancora aderire al reale, troppo mercificate per riuscire
a raccontare la verità. Ma la tesi del personaggio è insostenibile.
Non l'annullamento del proprio punto di vista occorre per ritrovare
immagini indispensabili, bensì proprio l'opposto: l'assunzione di
una responsabilità, l'affermazione del proprio ruolo di autore.
E' un sicnero atto di fiducia nel cinema, linguaggio di immagini
e suoni, quello che Wenders ci consegna pertanto con Lison story.
A testimoniarlo basta una sola sequenza: quella del bivacco del
cow-boy simulato da Phillip con gli effetti sonori, per il suo valore
di omaggio alle potenzialità evocative del mezzo audiovisivo. E
nanaturalmente, per stessa ammissione dell'autore, Lisbon story
non può non costituire il personale omaggio di Wenders al Centenario
del cinema. Il modo scelto dal regista tedesco è quello di guardare
all'indietro, alle sue origini. Attraverso le immagini accelerate
girate da Friedrich e, soprattutto, come accennato all'inizio, attraverso
espliciti riferimenti alle comiche del muto, all'univeerso magico
e irripetibile di Chaplin e Keaton: dal personaggio di Phillip,
buffo e maldestro nel suo rapporto con gli uomini e con le cose,
all'imitazione di Charlot compiuta, nel suo straordinario cammeo
di Manoel de Oliveira.
Lo
sguardo di Ulisse
di
Theo Angelopulos (Grecia,
1995)
Torna forse "di moda",
nei frammenti che l'informazione dedica oggi al Kosovo, tutto quel
cinema dei (e sui) Balcani che ebbe un minimo di attenzione durante
la guerra della ex-Jugoslavia. Tutto quel cinema (si pensi anche
ad Underground di Kusturicka o a Prima
della pioggia di Manchevsky) tentava con difficoltà di raccontare
i Balcani e la guerra senza cadere nella brutale semplificazione
dei media, ansiosi, come se si trattasse di un western, di identificare
i buoni e i cattivi senza complicazioni, senza analisi storiche,
cancellando memoria.
Il film di Anghelopulos, tradisce
indubbiamente un imbarazzo: come spiegare la furia omicida che travolge
i Balcani? Lo sguardo di Ulisse
è la ricerca di uno sguardo "innocente" su quel mondo,
attraverso la ricerca di alcuni rulli di pellicola girata all'inizio
del secolo che potrebbero contenere, appunto, il primo sguardo che
il cinema ha posto sui Balcani. Il lungo viaggio alla ricerca di
quello sguardo, di quella pellicola, porterà, inevitabilmente, a
Saraievo: solo andando nel luogo più dilaniato può avere senso la
riscoperta di quella innocenza. Il film, girato in Grecia, Macedonia,
Romania e Bosnia (le scene ambientate a Saraievo, girate a Mostar
e Vukovar ci mostrano due città anche più dilaniate della stessa
capitale), può benissimo essere considerato un fallimento, una sconfitta:
quella realtà sfugge al sistema di pensiero che ha alimentato il
cinema. Nella nebbia di Saraievo il cinema è impotente, non riesce
più a mostrare quello che avviene, può solo raccontare l'orrore
e il dolore ed appellarsi all'uomo, alla Storia, al mito, per ritrovare
il filo perduto.
In una intervista su Lo
sguardo di Ulisse Angelopulos spiegava: «I
Balcani sono una metafora non solo di tutta l'Europa, ma di tutto
il mondo. Basta vedere quello che succede nell'ex URSS, in Africa
Orientale e altrove. In questo senso, Saraievo è effettivamente
un simbolo. Ecco perché non mi disturba il fatto di non avervi potuto
girare le scene previste: il nostro aereo non ha potuto atterrare
perché quello precedente era stato mitragliato. Le abbiamo girate
a Mostar e a Vukovar, che sono ancora più distrutte di Saraievo
e dove si vedeva meglio quello che volevo dimostrare: che ogni semplificazione
è menzognera. Non c'è ideologia nella guerra civile che si combatte
nella ex Juogoslavia; è una guerra cinica, dove le popolazioni sono
ostaggio delle grandi potenze. La storia dell'inizio del secolo
permetteva di prevedere la tragedia attuale, ma nessuno ne ha tenuto
conto. Ho solo cercato di ricordarlo. (...) Ho cercato di viaggiare
come facevano i fratelli Manakis all'epoca dell'impero ottomano.
Allora non c'erano frontiere, e a mia volta ho voluto fare come
se i Balcani fossero un unico paese. (...) Sotto l'impero ottomano,
le influenze circolavano fra le diverse comunità»
Lotte
in Italia
di
J.L.Godard (ITA, 1969 - 55')
Il film fu commissionato dalla Rai e in seguito rifiutato e
portato a termine con un produttore privato.In esso Godard, dopo
le ultime esperienze, la nozione di racconto
e di personaggio :
riguarda , infatti, il processo di trasformazione di una
ragazza borghese, militante di un gruppo extraparlamentare
ma ancora legata all'ideologia della sua classe d'origine. Eppure
è soprattutto un film teorico, che si interroga sui rapporti fra
film, rappresentazione, ideologia.
Il film è diviso in tre parti: la prima mostra varie fasi della
vita di Paola, fra una sequenza e l'altra vi sono tratti abbastanza
lunghi di schermo completamente nero.
Nella seconda parte gli spazi neri (che sono l'ideologia
- nel senso marxiano e negativo del termine
- e cioè un rapporto immaginario con la realtà) saranno sostituiti
per considerare la propria esistenza come un tutto e non nella forma
parcellizzata delle varie fasi della propria giornata. Nella terza
parte, infine, ricomincia da capo riprendendo le immagini già utilizzate
inserendole in nuove catene, non più interrotte da spazi neri, ma
intervallate da inquadrature di fabbriche, lavoro, operai, cioè
inquadrature di rapporti di produzione. Nessun discorso si può fare
insomma prescindendo dalla realtà dell'organizzazione del lavoro,
dei rapporti di produzione.
Così uno dei film più teorici di tutta la Storia del cinema
è anche uno dei film più militanti. Il film, che conclude la più
che decennale ricerca di G. tesa all'esibizione del lavoro cinematografico,
nel momento in cui raggiunge il suo risultato più geniale ed esemplare
(poiché si presenta come produttività ininterrotta al di fuori dalle
leggi della rappresentazione e dello scambio significante), scopre
anche il relativo disinteresse di questa operazione, chiede di essere
giudicato secondo altri parametri: "Noi non cerchiamo forme nuove, cerchiamo rapporti nuovi. Ciò consiste
innanzitutto nel distruggere i vecchi rapporti, anche solo sul piano
formale, poi nel rendersi conto che se li si è distrutti sul piano
formale è perché questa forma veniva da certe condizioni sociali
di esistenza e di lavoro comune che implicano lotte di contrari,
dunque un lavoro politico"
Malcom
X
di
Spike Lee
A Spike Lee riesce l'impresa - con non poche difficoltà di
ordine economico - che per anni era stata progettata nelle comunità
nere americane: la realizzazione di un film sul grande leader nero. Rispetto ad altri progetti analoghi, che erano giunti
fino alla stesura delle sceneggiature, si notano immediatamente
una serie di differenze: il massiccio investimento di risorse finanziarie
(40 milioni di dollari!) e una campagna pubblicitaria imponente
(con la vendita dei gadget
con la X in tutto il mondo). Ed inoltre una serie di "trasposizioni"
delle frasi di Malcom X, preferite alle citazioni letterali. Da
queste premesse il rischio di una manipolazione era grande e non
sembra affatto fugato dopo la visione del film.
Infatti l'ultimo Malcom X, dopo l'abbandono della Nation of
Islam rappresenta una novità assoluta nella comunità afro-americana.
I temi principali diventano per il leader nero quelli della prospettiva
antimperialista, dell'identificazione degli oppressori, ovvero delle
"strutture del potere" a livello internazionale (siamo
nel momento della crisi del colonialismo), e tornano sorprendentemante
attuali anche i temi delle nuove migrazioni internazionali dall'Africa
e dall'Asia verso i paesi industrializzati, la preoccupazione delle
nascenti alleanze del neocolonialismo bianco con le élites dirigenti
dei paesi africani di nuova indipendenza.
Altra novità, inoltre, consiste nell'avvicinamento ad alcuni
tratti della tradizione socialista, con lo spostamento di accento
dalla militanza in nome del colore della pelle al radicalismo politico
contro ogni forma di sfruttamento e discriminazione (anni dopo saranno
le Black Panthers a gridare "Fidel Castro è nero!, Mao è nero!,
i Vietcong sono neri!"). L'agitazione simultanea di questi
due obiettivi è un'impresa quasi impossibile nei ghetti statunitensi
negli anni sessanta- ma a vedere il film di Lee questo sembra inconcepibile
anche oggi: la solidarietà tra le vittime del razzismo cancella
le differenze sociali e respinge la lotta di classe titpica del
movimento operaio perché questa allenta la coesione etnica; e a
sua volta la lotta di classe del movimento operaio ignora solitamente
la discriminazione razziale. Malcom X riesce ad individuare un programma
politico che riduce ad un minimo storico, almeno in questo secolo,
il conflitto tra solidarietà dei discriminati e solidarietà degli
sfruttati. Queste linee direttrici del pensiero di Malcom X, che
ne costituiscono una parte importantissima, nel film non esistono.
Malcom X riteneva il razzismo un prodotto della società capitalistica:
"E' impossibile per una
persona bianca credere nel capitalismo e non credere al razzismo.
Non si può avere il capitalismo senza il razzismo. E se ti metti
a discutere con una persona e scopri che la sua filosofia è sicuramente
non razzista, di solito si tratta di un socialista, ovvero la sua
filosofia politica è il socialismo"(cfr. Malcom
X speaks, edited and with a Prefatory Note by George Breitman,
Grove Press 1965).
Il film di Spike Lee, da questo punto di vista, nella preoccupazione
didascalica o commerciale di arrivare a tutti, annacqua buona parte
di quelle novità, molto probabilmente perché non le condivide. E'
il suo Malcom X, più conciliabile
con i bilanci miliardari delle élites nere o con il lavarsi la coscienza
per i propri guadagni del Michael Jordan di turno.
Milou a maggio
di Louis Malle
"Chi
ha avuto un ruolo assolutamente determinante negli avvenimenti del
Maggio francese è lo sciopero generale di 9 milioni di lavoratori.
La partecipazione in massa di universitari, liceali e giovani lavoratori
intellettuali agli avvenimenti del Maggio, è stato un fenomeno importantissimo,
ma subordinato al movimento di lotta economica di classe di 9 milioni
di lavoratori. Ora noi constatiamo il seguente fatto: nella presentazione
e nei commenti che vengono attualmente diffusi sul mercato dei nostri
paesi capitalistici, l'ordine di importanza relativa di questi due
fenomeni (il movimento di sciopero generale e le azioni studentesche)
viene completamente rovesciato.
L'incontro operai/salariati - studenti, liceali,
giovani lavoratori, intellettuali, è stato un breve incontro che
non è sfociato in una fusione. La cosa più straordinaria, in questo
straordinario incontro della sfilata di centinaia di migliaia di
lavoratori, studenti, intellettuali, era la discordanza fra le parole
d'ordine predominanti presso i lavoratori e le parole d'ordine predominante
presso gli studenti e gli intellettuali. Gli studenti e gli intellettuali
chiedevano non un cambiamento di governo, ma la rivoluzione semplicemente.
Ma l'immensa massa dei lavoratori aveva tutt'altre parole d'ordine,
quelle tipiche della lotta di classe economica. Palesemente vi era
una discordanza e un malinteso fra le speranze utopistiche (ideologico-politiche)
degli studenti e le rivendicazioni operaie". (L. Althusser, in M.A. Macciocchi, Lettere dall'interno del P.C.I a L. Althusser).
Il film Milou
a maggio è ambientato proprio nel periodo delle lotte operaie e
studentesche che attraversarono l'intera Francia nel maggio del
1968. Per giorni il paese rimase paralizzato a causa dello sciopero
generale degli operai. L'eco di questi avvenimenti arriva in una
casa di campagna dove una famiglia borghese si è riunita in occasione
della morte della vecchia madre di Milou. Gli avvenimenti di Parigi,
seppur così lontani, condizionano fortemente la vita del piccolo
gruppo: a causa dello sciopero generale, infatti, il funerale della
nonna dovrà essere rimandato e i parenti saranno costretti a prolungare
la loro permanenza. Da Parigi arrivano i racconti delle manifestazioni:
ad un certo punto l'euforia rivoluzionaria sembra contagiare anche
il gruppo, a cui sfugge però completamente il senso delle rivendicazioni
studentesche e operaie. E' per questo che la breve esperienza collettiva
vissuta nella casa di campagna non lascia alcuna traccia nei protagonisti,
che accolgono con gioia la notizia della fine dello sciopero e che,
dopo la formalità del funerale, non vedono l'ora di partire per
tornare alla vita di sempre. Il malinteso, che secondo Althusser
è alla base del Maggio francese, è anche alla base di questo film:
delle lotte rivoluzionarie arrivano infatti solo immagini distorte,
che riducono l'esperienza del Maggio ad una generica rivendicazione
di libertà, intesa per lo più nel senso borghese-edonistico di libertà
sessuale e dei costumi.
Naked
M.Leigh
Leigh è un
regista inglese ormai non più giovane che ha raggiunto una certa
popolarità negli ultimi anni, nel dopo Tatcher, ed appartiene, non
solo anagraficamente, alla generazione di Loach. Il film Naked gli
valse il premio per la miglior regia a Cannes, dove pochi giorni
fa ha vinto la Palma d'oro per il miglior film con il nuovo Secrets
and lies.
Naked ci fa
immergere in una realtà, quella ai confini tra la parte bassa della
classe media londinese ed i margini della strada, in cui i personaggi
stancamente vivono le loro vite, subendo eventi che per la loro
gravità dovrebbero determinare degli scossoni, sono continuamente
provocati a delle reazioni forti, reazioni che però poi non si verificano
mai. Tutto riprenderà come prima. Si potrà forse decidere di "tornare
a casa", nella cittadina d'origine, ma Leigh non ne sembra
entusiasta, preferendo in fondo la continuazione del vagabondaggio
del protagonista a risoluzioni sulla propria vita che non siano
solidamente fondate su una presa di coscienza profonda. L'unico
personaggio che sembra agire secondo un'idea chiara su quel che
vuole dalla vita è il ricco e sadico violentatore che afferma di
voler vivere solo fino a quarant'anni, età in cui - afferma
-si suiciderà. Le donne che
se lo ritrovano in casa, dopo averne ricevuto violenza convivono
con la sua presenza, vi si adattano, sono in attesa che la situazione
si sblocchi in qualche modo. E' questo il modo di affrontare la
vita dei personaggi.
La violenza
del "cattivo" - personaggio espressamente metaforico -
è continuamente comparata con quella di cui è protagonista il personaggio
principale del film - Johnny - l'anarchico rompiscatole, che si
pone e pone agli altri continui interrogativi, che sgretola, a volte
con la sola presenza, le piccole e fragili certezze di vite miseramente
vissute. Egli esprime il suo disagio in modo aggressivo, cercando
comunque - a modo suo, secondo regole sue - una comunicazione reale.
Uno degli episodi
centrali del film è l'incontro con il guardiano notturno che si
interessa di letteratura e sogna sul futuro. I due personaggi non
potrebbero essere più lontani, ed emblematicamente il guardiano
- che pure ha voglia di parlare con il vagabondo - deve fingere
di continuare a leggere e di essere solo affinché i due possano
dialogare. Eppure la comunicazione avviene. La simpatia che si crea
tra i due, però, nasce
soprattutto dal comune senso di solitudine. Il guardiano-sognatore
difende disperatamente le sue illusioni, quelle più lontane sulla
casetta isolata in un futuro remoto, e quelle più prossime - sulla
donna che balla per lui, di notte, dietro una finestra senza tendine.
Entrambi i sogni saranno messi in crisi dal vagabondo che svela
la realtà per quello che è.
Alla fine Leigh
ci lascia spoerare per un attimo in una possibile redenzione, nella
possibilità di un reinserimento,
nella possibilità che per Johnny sia superata una fase pur necessaria
- quella della provocazione - a cui segua una prospettiva nuova.
Ma il finale consolatorio che il film sembra prospettare per qualche
attimo - l'amore che tutto risolve, infine - è subito smentito dal
protagonista che, leccandosi le ferite, continua per la sua strada.
Nel
nome del padre
di
J. Sheridan
Tratto da un avvenimento realmente accaduto, Nel
Nome del Padre di Jim Sheridan si inserisce in quel
cinema di impegno civile che ha i suoi modelli in Sacco e
Vanzetti di Giuliano Montaldo o in Daniel di Sidney Lumet o nel
più recente JFK di Oliver Stone.Un cinema che tende al risarcimento
morale e politico di coloro che hanno subito inconcepibili ingiustizie
in nome di un'ipocrita e assurda idea di "ragion di stato",
ed è esortazione a considerare sempre e comunque, come assoluti
e irrenunciabili i valori della verità e della dignità umana.
Il film, vincitore dell'Orso d'Oro al festival di Berlino,
narra la storia di Gerard Conlon (Daniel Day-Lewis ) e suo padre
Giuseppe (l'attore Pete Postle White), irlandesi e cattolici, che
ritenuti ingiustamente colpevoli di atti di terrorismo, insieme
ad altri giovani amici di Gerard, sconteranno 15 anni di duro carcere
(usciranno nel 1989) segnati dalle insensate torture fisiche e psicologiche
inflitte dai loro carcerieri e dalla tragica morte di Giuseppe,
che dapprima metterà dura prova la sanità mentale di Gerard, poi
contribuirà ad una sua nuova maturità esistenziale e politica.
Uscito di prigione Gerard troverà la forza di affrontare un
secondo processo che finalmente riconoscerà la sua innocenza e quella
dei suoi amici.
In un'atmosfera di grande tensione avverrà lo "smascheramento"
dei vari colpevoli, di coloro che, ai vertici dello Stato e della
Magistratura, avevano occultato le prove della difesa, determinando
uno dei casi processuali più clamorosi della tanto stimata giustizia
inglese.
La struttura narrativa del film si compone di due livelli,
uno politico ed un'altro più "personale" che riguarsa
il rapporto conflittuale tra
padre e figlio.
Se l'analisi politica della vicenda costituisce la parte più
debole del film, troppo enfatizzata è infatti la rappresentazione
dei "cattivi" e non fa emergere compiutamente il disegno
ideologico che è sotteso alla volontà di trovare in ogni caso dei
"colpevoli" per atti di terrorismo, risulta invece ben
trattegiata e "toccante" la storia del rapporto psicologico
conflittuale esistente tra Gerard e Giuseppe.
NEOREALISMO
Spunti per una riflessione
Il giovane parlamentare democristiano Giulio Andreotti, vicino a De Gasperi,
si espresse a proposito dei film del neorealismo dell'immediato
dopoguerra con le parole "I
panni sporchi si lavano in famiglia".
Questo atteggiamento con vocazioni censorie verso opere che rappresentavano
frontalmente la realtà, scegliendo il protagonismo delle fascie
più povere della popolazione nella loro quotidianità, era in effetti
molto diffuso. "Questi
stracci e questi cessi" (da C'eravamo
tanto amati di Ettore Scola) davano un'immagine dell'Italia,
anche all'estero, che infastidiva il ricompattato potere centrale
forte e duro degli anni del dopoguerra.
Eppure quel cinema, così malsopportato dal perbenismo di allora (che faceva
sospettare un nostalgico rimpianto per i fasti volgari e consolatori
del cinema del regime fascista), ebbe un ruolo importante nel restituire
simpatia all'Italia nel mondo dei vincitori della guerra.
Pur accreditando in alcuni casi una lettura storica incompleta (che però
fa trasparire la "scelta" di cosa rappresentare e "come",
quindi smentendo la presunta asetticità di questo cinema), i film
neorealisti effettivamente furono amati negli Stati Uniti ed ebbero
maggiori successi che non in Italia.
Lasciando da parte le polemiche di scarsa statura culturale di cui si è
accennato, occorre tuttavia ricordare che il neorealismo non fu
un movimento monolitico ed omogeneo: anche prima che i successi
ne catalogassero e definissero i cliché, le "regole",
che così diedero luogo a imitazioni e camuffamenti, le differenze
che si potevano cogliere nelle opere dei diversi autori erano marcate.
Un film come "La terra
trema" (1948) di Luchino Visconti, che da molti fu considerato
l'esempio più tipico del cinema neorealista (attori non professionisti,
uso del dialetto siciliano, protagonismo del popolo ecc.), era per
molti aspetti un'opera diversa: l'ispirazione era letteraria ("I Malavoglia" di Verga, molto "trattato") e l'intento
poetico prevaleva su quello rappresentativo; la mediazione culturale
dell'autore era insomma piuttosto forte e distante dall'idea che
la realtà sia già lì pronta per essere riportata così com'è (idea
peraltro che brutalmente banalizza l'intento, comunque non sempre
formulato o "concepito" dai neorealisti).
Sarà dunque necessario affrontare l'opera dei singoli autori affinché il
discorso risulti più completo e non solo sul neorealismo, che durò,
in fondo, pochi anni. Per brevità saranno scelti autori emblematici;
in ogni caso il consiglio che diamo ad ognuno è scontato e preliminare
a qualsiasi serio approfondimento: bisogna prima vedere i film e
poi tentare di analizzarli; e non solo quelli proposti in questa
sede.
"Se il neorealismo si è rivelato
in modo più impressionante al mondo attraverso Roma città aperta (1945), sta agli
altri giudicare... Il neorealismo nasce, incosciamente, come film
dialettale; poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani e
sociali della guerra e del dopoguerra...Un bisogno, che è proprio
dell'uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto
della realtà direi in modo spietatamente concreto... Il neorealismo
è una sincera necessità, anche, di vedere gli uomini quali sono
senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario".
Così Roberto Rossellini racconta
la sua opera.
In questo regista c'è un dato che emerge, quello della immediatezza,
di una capacità - che non fu solo sua - di un impatto diretto col
reale, che si contrapponeva in questo senso al cinema precedente.
I principi generali lasciano il posto alle indagini sul concreto , il cinema
collocato nella sua fisica
(il retroterra storico) e nella sua "materialità"
(il suo linguaggio).
Quando si parla dell'"occhio" di Rossellini si allude proprio
a questo; la sua scoperta della macchina da presa è soprattutto
disponibilità a cogliere il rapporto tra personaggi e ambiente,
un cinema di cose, un paesaggio mentale, dei comportamenti, il tempo
come fattore significativo primo (un "cinema della durata").
L'oggettività allora (e non sempre se ne è parlato a proposito)
è una diversa attitudine verso le cose, la possibilità di ridurre,
per lo spettatore, il margine tra presenza
dei fenomeni e intervento dell'autore. Ma la riduzione è sempre
l'esito un'operazione, non di una registrazione.
In questo senso si può intendere l'espressione di cinema di improvvisazione
per il neorealismo. In parte può essere anche vera, se si intende
la mancanza di alcuni elementi tecnici (per esempio, di una sceneggiatura
articolata), a favore di una capacità autonoma di scoperta del linguaggio
cinematografico, la disponibilità della macchina da presa; non quindi,
in linea di principio, facile impressionismo, o rapsodicità, mancanza
di un legame. Lo stesso Paisà
(1946), che è il film girato più a caldo più a contatto con
una realtà frammentaria, è tutt'altro che un opera a cui manchi
un progetto unitario, una "costruzione". Ancora l'intervento,
dunque, o - in altre parole - l'intento stilistico in un senso tutto
particolare: "Bisognava evitare - disse Rossellini - di essere poeti"; questa credo sia un po' la lezione principale,
la mancanza di un coefficiente estetico che fosse aprioristico,
o in qualche modo programmatico o giustapposto.
Per queste ragioni il Rossellini del primo dopoguerra è quello che più riesce
a dare il quadro di una determinata situazione storica (per esempio,
l'Italia degli anni '45-'50, ma anche altri paesi sconvolti dalla
guerra, si pensi a Germania
anno zero del 1947).
Prendiamo Paisà: notiamo la capacità
di renderci, man mano che cresce, cioè man mano che geograficamente
sale, la crescita di una coralità politica. Il film continuamente
si apre da episodi legati a "storie" di carattere individuale
verso il grande affresco finale; contemporaneamente scopre la realtà
regionale, le diversificazioni che avevamo ignorato, quei dati emergenti
che occorreva raccogliere, come il dialetto, che diventa materiale
stilistico indice della volontà di star dentro le cose.
L'"occhio"
di Rossellini, è la sua capacità, per esempio, di recuperare ai
significati anche gli aspetti apparentemente marginali della realtà,
facendo cadere la distinzione tra momenti primari della narrazione
e contingenti; quanto cinema moderno è debitore di questa capacità
di produrre significati dando uguale spessore alle cose! Raramente
il cinema è riuscito a fare così film di cose, di ambienti, in cui
i personaggi sono "segni". La narrazione "forte"
viene meno, quella sorta di condanna a raccontare che il cinema
si porta addosso, lascia il posto alle dilatazioni, alla perdita
di nesso causale, di intreccio forzato: "Bisogna
privare le cose del nesso logico", cioè liberarsi dai collegamenti
narrativi, dei tempi pieni. Ecco perché è sbagliato considerare
il suo cinema posteriore (Francesco
giullare di Dio del 1950 e Viaggio
in Italia del 1953) come un "abbandono delle ragioni del
neorealismo", perché dietro c'è lo spettro delle codificazioni
e dei cartelli indicatori; e Rossellini avvertiva, intuitivamente
più che razionalmente, il bisogno di un aggiornamento che non poteva
non essere anche stilistico.
Resta da osservare quanto Rossellini abbia tentato, rischiosamente, un aggiornamento
del neorealismo. Così come, più avanti, affronterà, altrettanto
difficilmente, la crisi
del cinema, proponendosi, con Luigi
XIV (1966), un obiettivo che rimettesse in causa la funzione
delle sue operazioni. In fondo, una delle doti principali di questo
autore, era proprio questa capacità di mettersi in discussione.
Vittorio De Sica, nato a Sora nel 1901, ma vissuto prevelentamente a Napoli, fu accompagnato
nei suoi film "neorealisti", I bambini ci guardano (1945), Sciuscià
(1946), Ladri di biciclette
(1948), Miracolo a Milano
(1950), Umberto D. (1951),
da Cesare Zavattini,
soggettista e sceneggiatore ma soprattutto anima di quei film, le
cui seguenti enunciazioni (ci riferiamo a interventi, dichiarazioni,
interviste, comprese tra il '45 e il '54) ruotano innanzitutto attorno
alla nozione di attualità. "Vediamo
allora dove risiede la prospettiva del neorealismo: nella scoperta
dell'attualità. Fino a ieri la cinematografia si basava sul soggetto,
frutto dell'immaginazione. Tutto nasceva come se l'attualità, il
fatto non tagliato da romanzo, non esistesse. Per il cinema esistevano
solo i fatti "grandi". La guerra invece ci ha fatto scoprire
a vita nei suoi valori continui".
Ma l'attualità in Zavattini è intesa anche come contemporaneità, e dunque
utilizzata come esplicitazione cronologica. "Il
cinema - continua Zavattini - non
dovrebbe mai voltarsi indietro. Dovrebbe accettare come conditio
sine qua non la conteporaneità. Ecco perché il mio impegno morale
è tutto rivolto all'attuale, anche se sono nutrito di passato: credo,
infatti, che per rendere efficiente un'azione bisogna porla nei
limiti, bisogna, come fa il chirurgo, circoscrivere il campo operativo.
E' nocivo allo sviluppo del neorealismo che questo imperativo dell'attuale
non sia abbastanza diffuso"..."Pensiamo al nostro bisogno
di verità, all'urgenza che è in noi di vedere tutto quello che non
ci facevano vedere prima, e il cinema ci apparirà come il mezzo
fatale, provvidenziale alla nostra urgenza di attualità. Il cinema
è infatti, l'unico mezzo capace di prendere la cosa come l'hai scelta:
lo spazio tra la intuizione e la realizzazione è il minimo. La suggestione
della parola il cinema te la dà in maniera più immediata e più persuasiva.
In un tempo in cui c'è una gara di secondi, il cinema è destinato
a guadagnare il massimo"..."Mettiamo un disoccupato fermo
davanti alla macchina da presa, e poi inchiodiamo il pubblico per
cinque minuti davanti a quell'immagine proiettata sullo schermo.
Questo non si vuole. Si grida: Montaggio!, perché le immagini scorrano
veloci e la conoscenza del pubblico resti superficiale, e la verità
non venga approfondita. Dico disoccupato ma potrei dire qualunque
cosa che richieda urgenti interventi e per la quale la nostra durata
di attenzione è sempre inferiore alla necessità di conoscerla veramente"..."Una
volta, sempre per le malintese ragioni di ritmo, suspence, movimento,
ecc., una lite non poteva durare più di due minuti perché -si diceva-
il pubblico si sarebbe stancato e bisognava passare oltre. Oggi
siamo riusciti a farla durare un po' di più: diciamo sette minuti.
Il neo-realismo deve farla durare il tempo necessario e sufficiente
(che può coincidere con l'intera durata del film) perché la lite
possa essere analizzata in tutti i suoi elementi, in tutti i suoi
echi, in tutta la sua essenza. Questo avverrà solo il giorno in
cui si arriverà a convincersi che una lite (naturalmente parlo di
una lite qualunque, fra uomini qualunque, in un luogo qualunque)
fatta vedere nel più analitico dei modi, ha in sé dei momenti di
dolore, di stupore, di tensione, come la più costruita delle "storie".
La duplicità sembra attraversare la personalità viscontiana senza risparmiare
versante alcuno; si tratta di una duplicità che ne percorre tutti
i momenti e gli aspetti possibili: biografico, culturale, politico,
creativo.
Luchino Visconti fu infatti intellettuale di estrazione aristocratica ma, fin dagli anni
del'adolescenza e della prima giovinezza, di formanzione, di orientamento,
di scelte, diciamo, progressisti. Un progressismo che si esprime
dapprima sul fronte delle scelte e delle determinazioni antifasciste
- vissute, tra l'altro in quella fase, con molta coerenza e con
molto coraggio - e che nel dopoguerra lo porterà, sostanzialmente,
a schierarsi a sinistra, soprattutto a fare proprie le posizioni
generali del partito comunista, senza tentennamenti, esitazioni,
incertezze, anche nei momenti in cui altri, invece, denunciano crisi
più o meno profonde, più o meno attendibili.
Profeta e anticipatore del neorealismo secondo una certa tradizione o, se
si preferisce, secondo una certa leggenda. Profeta e anticipatore,
con Ossessione ( ), e autore
poi dell'opera più esemplare e più alta del cinema neorealista La terra trema, ma negli stessi anni, impegnato in campo teatrale
in una azione che, se non andava nella direzione opposta, certamente
introduceva in questo quadro parecchi elementi di dubbio, di contraddizione,
quantomeno di discussione. Mentre girava La
terra trema (1948) o Bellissima
(1951), Visconti svolgeva infatti un'azione senza dubbio salutare
di aggiornamento e di rinnovamento delle scene italiane, troppo
a lungo imprigionate in una improduttiva autarchia, seppure gli
autori ai quali egli si rifaceva, i testi che proponeva erano i
più disperati ed eterogenei possibili.
Il più intransigente, il più puro dei neorealisti, si dirà in un film come
La terra trema, e tuttavia
per formazione, per riferimenti culturali, molto diverso dalla figura
canonica dal regista neorealista, con un backgroung di gran lunga
più ricco, più articolato, complesso, e che gli altri, anche i maggiori,
come Rossellini e Zavattini, conoscevano indirettamente, "orecchiavano"
in un certo senso dall'esterno. E ancora, a proposito della duplicità
che dicevamo, a teatro fu un grande anzi beffardo dissacratore di
classici: si ricorda una sua edizione di una tragedia di Alfieri,
con fanfare e penacchi in cui si rivisitava allegramente certi moduli
e stilemi della tradizione con una disinvoltura e un'arditezza che
restano un episodio abbastanza circoscritto nella storia, poi fondamentalmente
molto tranquilla, del teatro italiano. Sempre a teatro, però non
nascondeva la sua avversione e la sua sordità nei confronti, non
solo delle maggiori esperienze del teatro contemporaneo, ma anche
di quelle con le quali il suo marxismo avrebbe dovuto comunque entrare
in un rapporto di attrito di confronto, se non necessariamente di
adesione.Si pensi a Brecht e alle avanguardie che restano sempre
fuori, direi proprio organicamente, costitutivamente, dall'arco
delle letture e delle scelte viscontiane.
La fonte di molti equivoci consiste nell'aver voluto a ogni costo stabilire
una coincidenza puntuale, anzi una coincidenza esemplare tra il
lavoro di Visconti e alcuni nodi e luoghi fondanti della cultura
antifascista e progressista: nell'aver cioè voluto istituire un
rapporto stretto, meccanico, conseguente tra certi momenti contraddittori
ma comunque alti di sviluppo, di tensione di una certa cultura,
e una esperienza, un lavoro, una posizione un approccio, come quelli
di Visconti, che avrebbero in un cero senso dovuto riassumere tutti
questi momenti portandoli a una grado di esemplarità e di perfezione
quasi paragdimatiche.
Non possiamo certo dimenticare che Visconti, pur con interventi abbastanza
episodici e parsimoniosi, è però stato per tutta una fase organicamente
legato a una certa storia della cultura italiana antifascista e
progressista, e quindi ha contribuito direttamente alla costruzione
dell'immagine critica che abbiamo ricordato. Ma si tratta di un
abito stretto, un abito stretto che lascia fuori troppe cose ovvero
le conduce a contraddizioni talvolta lancinanti, non componibili;
un abito che offre di un opera e di una personalità così complessa
una immagine riduttiva, che finisce coll'impoverirle anziché arricchirle
e precisarle.
Comincia il lungo viaggio di Visconti a ritroso nella memoria e nella cultura,
il ritrovamento delle radici, la rivisitazione delle fonti, attraverso
le strutture del melodramma e del romanzo ottocentesco, sino alle
sue propaggini e variazioni manierali. Rocco
e i suoi fratelli (1960) non rappresenta affatto un'eccezione,
perché ancora una volta e soprattutto qui il luogo dell'autenticità
non sarà la fabbrica, le schiere operaie, delle ultime immagini,
ma il conflitto-contrasto viscerale tra un gruppo di personaggi
e soprattutto tra la città e l'industria sentite come foresta e
violenza e la natura, il paese, le radici come luogo di un'autenticità
che può essere soltanto ormai di elegia e di rimpianto.
La natura dei materiali, dei registri letterari, figurativi, musicali (il
loro uso mai meramente scenografico) e lo straordinario grado di
fusione al quale Visconti li reca, non sono dati esterni di sensibilità
e di gusto, sono l'habitat culturale di questi personaggi, l'aria
stessa che respirano, i loro comportamenti divengono la proiezione
critica della visione e della cultura dell'autore, che in essi si
rappresenta, si obiettiva e si giudica.
Per questo in Senso (1953) e negli
altri film che verranno, la volontà e il gusto dello smascheramento
sono così acri e impietosi. L'autore ripercorre criticamente dall'interno
la propria storia con una capacità di corrosione, di dilatazione
che si farà sempre più fievole, ma non senza colpi di coda, assalti
e tentativi di sortita, per quanto anch'essi via via più vaghi.
Roma e la natia Romagna sono i due poli del cinema di Federico
Fellini (1920-1994), anche per ragioni ancestrali. Federico
è romagnolo soltanto a metà: romagnolo verace era il padre Urbano,
viaggiatore di commercio in dolciumi e marmellate, e romana la madre,
Uda Barbiani. I vitelloni
del 1953, direttamente
autobiografico, è una galleria di giovani disoccupati, irresponsabili
e velleitari figli di mamma (e il termine entrò nella lingua italiana),
tra i quali campeggia il personaggio di Sordi (Alberto), punto di
fusione di violenza satirica, grottesco e patetismo.
Dopo La strada (1954), favola
drammatica, parabola crisitana sul peccato e la redenzione, apologo
sulla condizione umana in generale (la solitudine dell'individuo
e il suo bisogno di comunicazione) e della donna in particolare,
che è anche una picaresca e magica escursione attraverso i paesaggi
dell'Appennino centrale nel trapasso delle stagioni estranee alle
pene dell'uomo, Roma e i suoi dintorni (Marino, Cerveteri) sono
lo sfondo di Il Bidone (1955):
piazza del Popolo, il cinema Flaminio, il villaggio dei baraccati
addossato agli archi in rovina dell'acquedotto Felice e quella sequenza
d'antologia che è la festa in casa del "bidonista" ricco.
Roma e la campagna romana sono stalvolta uno sfondo neutro, non
caratterizzato in modi specifici come, forse, era inevitabile in
un'opera stanca dove ritornano, tritati senza invenzione innovatrice,
molti motivi dei film precedenti: le passeggiate notturne, la prostituta
all'alba, le giostre di periferia, le vie deserte della cittadina
di provincia.
Al suo apparire La dolce vita nel
1960 fu giudicato dai più il film meno privato di un autore che,
nel bene e nel male, era stato negli anni cinquanta, con Antonioni,
colui che s'era più scoperto e confessato, mettendo a nudo il proprio
cuore. Sembrò, il suo, un film sul disordine: un solo, enorme "flash"
sulla realtà di una metropoli mondana e caotica, febbrile e corrotta,
sulla Roma pagana e improduttiva di via Veneto, del divismo cinematografico,
della cafè-society, della aristocrazia nera, che agli occhi dell'autore,
e del suo "alter ego" e vicario Marcello appare affascinante
e turpe. Un viaggio attraverso il disgusto, lo definì Fellini.
La dolce vita era, o doveva essere, una storia di cinegiornale di quel mondo romano (gli
scandali del Rugantino, le orgie di Capocotta, via Veneto, gli alberghi
internazionali, Cinecittà) dove razzolava un certo giornalismo in
rotocalco.
Visto a distanza, col senno del poi, La
dolce vita fa figura di spartiacque nel panorama del cinema
italiano del dopoguerra. In un certo senso, anzi, ne segna la fine
e l'inizio di una nuova epoca. La sua importanza e il suo significato
possono essere riassunti in questi punti: 1) rappresentò nella carriera
del suo attore, l'approdo alla maturità espressiva; 2) contribuì
a quel rinnovamento dei modi narrativi che fu il fenomeno più vistoso
nel cinema degli anni sessanta; 3) ripropose come già avevano fatto
Rossellini prima e Antonioni poi quel problema del neorealismo e
del suo superamento che in quegli anni costituì la cattiva coscienza
- e, in qualche caso, il tormento - della critica cinematografica
italiana; 4) segnò una svolta fondamentale nella storia della libertà
d'espressione in campo cinematografico.
Con 8 e mezzo Felllini va ancora
più avanti nella rottura degli schemi della drammatugia tradizionale.
E' un film di un film (il sogno di un sogno?), la storia di un regista
che non riesce a fare un film. Il suo vero contenuto è la fitta
trama dei rapporti e dei legami del protagonista: con la moglie,
l'amante, l'ambiente di lavoro, gli estranei. Dopo aver raccontato
lo smarrimento del suo personaggio, la nausea, la pena, l'angoscia
con cui sente quei rapporti, lo sforzo per mettervi ordine e scoprirvi
un senso, dove lo fa approdare? La vita sono gli altri, i vivi e
i morti, gli esseri reali e le creature della fantasia; bisogna
accettarli tutti, con amore, gratitudine e solidarietà. La sua è
la conclusione di un artista, di uno showman che si è costantemente
difeso dall'intellettualismo con la natura sanguigna del suo istinto
spettacolare, ma pure con una profonda partecipazione all'umanità
dei suoi personaggi, anche dei più abietti, testimone e complice.
Antonioni comincia a far cinema negli anni cinquanta avendo di fronte una
società italiana in cui erano in atto tutti i movimenti restaurativi,
di riconsolidamento di classe, dopo una stagione - anche cinematograficamente
- di utopie, con il disagio quindi di un "prima" che si
ha addosso e un "dopo" che tradisce, oltre a non garantire.
Michelangelo Antonioni, pur avendo partecipato, più o meno indirettamente, alla fase di espansione
del neorealismo, cioè tra gli anni '44-45 e il '50 (ricordiamo l'importante
attività di documentarista, Gente
del Po soprattutto, ma anche quello di critico), realizza i
primi film negli anni della "crisi"; per un verso allora
sembra recepire la nota emergente di quanto era avvenuto (l'attitudine
al sociale, la recettività ecc.), ma per l'altro si rende conto
di alcuni elementi drenanti. E' questa consapevolezza il dato più
importante degli esordi. Che cosa rimette in discussione? Soprattutto
due fattori: primo, che il neorealismo era rimasto un fenomeno culturale
borghese, nei suoi aspetti magari più radicali, la cui "rottura"
andava quindi circoscritta; e allora, anziché tentare fughe in avanti,
accetta fino in fondo questa matrice facendola diventare riflessione
in sé; non è a caso, si potrebbe notare non poi tanto di sfuggita,
che personaggio centrale di tanto cinema antonioniano sia un intellettuale,
che agisce e sente il peso di un condizionamento (si pensi in particolare
alla trilogia dell'Avventura
(1960), La notte (1960), L'eclisse del 1961-62). Il secondo fatto riguarda il linguaggio,
problema che da un punto di vista teorico, ma anche pratico (con
eccezioni, Rossellini per primo) era stato in qualche modo messo
da parte, perché veniva dopo l'urgenza di alcuni dati
(il cosa, insomma); e Antonioni sin dall'inizio si pone il problema
del come, della forma,
che resterà uno degli assi portanti della sua opera (e sotto questo
profilo il film cruciale è Blow-up
(1966), il cui "oggetto" è proprio la discussione
del mezzo, del proprio strumento di comunicazione.
Dice Antonioni: "Una delle mie
preoccupazioni, girando, è quella di seguire il personaggio finché
non sento la necessità di staccare. Seguirlo non per partito preso,
ma perché mi sembra importante stabilire, cogliere di questo personaggio
i momenti che appaiono meno importanti". L'evento, perno
centrale, viene sezionato, quasi diluito, analizzato e perciò disteso,
ampliato, recuperando quelli che si dicevano i "tempi morti",
le apparenti digressioni. Si parte da un fatto,
per "svilupparlo" (come il protegonista di Blow-up),
per andare all'interno più che vedere ciò che da esso può nascere.
Le maglie del racconto vengono dilatate: come si potrebbe vedere dall'analisi
delle singole opere, l'"arco" narrativo (inizio, sviuppo,
conclusione, ecc.) a poco a poco si allenta, fino a sostituire la
costruzione con l'osservazione e l'analisi. Il punto d'arrivo è
una sorta di oggettualità nata dalla scomposizione dell'ambiente:
come un nuovo vedere dove il massimo di obiettività (la tanto sottolineata
freddezza di Antonioni), lo sguardo da spettatore disinteressato
scoprono le ambivalenze, la non univocità del significato.
Consegue che l'altro perno della narrazione tradizionale, il personaggio,
ne esce redicalmente ridimensionato; il suo essere portatore di
uno "sviluppo psicologico" - asse del racconto - viene
messo in discussione. Il legame col suo "interno" si slabbra;
dalle psicologie come luogo primo da esplorare l'autore passa all'analisi
del comportamento come rivelazione di un determinato atteggiamento;
fino a che tronca questo cordone ombelicale, e il comportamento
diventa un dato oggettivo da analizzare, senza un necessario punto
di riferimento del personaggio. Già nei primi film c'è questa attenzione
al comportamento, penso ai tallonamenti, allo stare addosso ai personaggi
in Cronaca di un amore, anche
quando non ci sono momenti rivelatori; il punto estremo di questa
ricerca è l'Avventura, o
L'eclisse.
L'errore potrebbe essere di pensare che quanto si è andato dicendo avvenga
in Antonioni in modo lineare, quasi preordinato; e, invece, coerentemente
(cioè rischiosamente) ci sono ambivalenze e ritorni.
* La relazione è tratta principalmente,
come la precedente, dalla Storia del cinema a cura di Adelio Ferrero,
della Marsilio Editori, del 1978.
Orizzonti
di gloria
(Paths
of glory USA,1957)
di
Stanley Kubrick
Orizzonti di gloria
è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è perché
ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi
del fenomeno. Esso è già dato nella scritta iniziale ("1916",
la guerra è in corso) e nella voce fuoricampo che brevemente puntualizza
la situazione del conflitto, e le cui ultime parole sottolineano
la posizione di stallo nella guerra di trincea, nella quale "gli
attacchi riusciti si misuravano in guadagni di qualche centinaio
di metri, pagati con centinaia di migliaia di vite". In seguito
la voce tace, e resta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente
determinata e con tutti i particolari al posto giusto (Churchill
lodò la verosimiglianza storicadel film), eppure guerra che pare
astratta, guerra in cui non si vede neanche un nemico, in cui il
riferimento sorico preciso crea solo l'incubo.
L'ironia di K. sta nel prendere a esempio una guerra storicamente
vera che, resa esattamente e "realisticamente", si rivela
come un puro assurdo. Sarà questo il "meccanismo" essenziale
del cinema di K.: la fascinazione nei confronti di una ragione il
cui "funzionamento" logico, preciso e puntuale conduce
all'assurdo, al ridicolo al pazzesco (si pensi al Dottor
Sranamore, a Shining, e più di ogni altro al computer Hal di 2001
Odissea nello spazio che, massima espressione delle vette raggiunte
dalla scienza, per "istinto di conservazione" tenterà
il sabotaggio della missione spaziale).
K., in Orizzonti di gloria
non ha bisogno di sconvolfere apertamente il genere bellico coll'invenzione
fantastica o coll'evidenza della condanna o ancora mediante l'irrisione
distorcente. Si capisce perché sia rimasto colpito dalla situazione
proposta dal romanzo: il processo (che si svolge in un ambiente
settecentesco che richiama l'età dei lumi, su un pavimento a scacchiera
- ancora un "gioco" razionale) e la condanna per codardia,
sono la riproposta dell'assurdo meccanismo di previsione e pianificazione
della morte all'interno di una sola delle parti in guerra. Non c'è
scampo: poiché il rito della presa o del tentativo di presa del
Formicaio col suo olocausto non si è svolto fino in fondo (rito
perché in ogni caso non c'è un fine bellico dichiarato: l'azione
serve a calmare il Comando e a saziare una sete di carriera, così
come le fucilazioni a soddisfare l'opinione pubblica), a ciò si
rimedia con un rito più sicuro,
più facilmente controllabile, ma che ha la stessa struttura:
decimazione o estrazione a sorte si ha comunque casualità nello
sfoltimento.
Il film sembra chiudersi, dopo l'inesorabile svolgimento di
quanto stabilito dal "meccanismo" bellico, con una speranza:
gli uomini che cantano in coro una avvolgente ballata. In realtà
l'ambiguità è forte: prima di tutto perché i soldati sono lì a divertirsi
dopo aver assistito all'esecuzione; inoltre il momento di serenità
malinconica del canto in coro ha in qualche modo la funzione di
ricaricare i soldati prima del loro ritorno al funzionamento della
macchina-guerra. L'ambiguità che percorre tutto il film si ripropone
immutata: la definizione di uomo è sempre doppia: il luogotenente
di Mireau osserva la stupidità dei soldati che quando scoppia una
bomba si ammassano come bestie stringendosi tra loro, invece di
sparpagliarsi, Dax ribatte che proprio quesrto li qualifica come
esseri umani e nessuna delle due frasi sembra completamente vera
o falsa.
Nostra sintesi da S.Kubrick
di E.Ghezzi, Il castoro cinema
Otto
e mezzo
di
Federico Fellini
(Ita,
1963)
I fatti, che si svolgono su piani
narrativi simultanei, e cioè della realtà, del ricordo e della immaginazione,
fino a confondersi nel
finale, si svolgono in una stazione termale , mezza Montecatini
e mezza Chianciano, tra lo stile liberty e il moderno. Guido, regista
di un film, non riesce a progredire
col suo lavoro. Invano è sollecitato dal produttore, interrogato
dagli assistenti dagli attori. Qual è la trama del suo nuovo film?
Nessuno la conosce, ma quel che è più grave, neppure lui. I suoi
collaboratori si fanno impazienti. Anche la moglie è stanco del
suo vuoto, della sua indecisione, della sua infedeltà. Guido cerca:
un po di chiarezza in se stesso, idee per il film da fare,
attori da impegnare, la donna del sogno, del suo film e della sua
stessa vita, da fermare come un ideale irraggiungibile. Scruta anche
nel proprio passato - linfanzia, leducazione cattolica
- e nellavvenire. Si accompagna con un critico fino a che
non è tentato di impiccarlo. La visione di donna continua a inseguirlo,
senza che riesca mai a raggiungerla. La moglie diventa la testimone,
ora paziente, ora meno, delle sue stramberie e delle sue menzogne.
Intanto il produttore va avanti,
visiona provini, costruisce un gran scenario da stazione astronautica,
invita i giornalisti a una conferenza stampa, impone a Guido di
cominciare. Ma che cosa? Il regista non ha idea di quello che farà
e che può fare. E soltanto cosciente del suo crollo immediato,
della sua fine artistica. Sa che non ha più niente da dire, che
non riuscirà più ad esprimersi.
Ormai il suo smacco è sicuro. Non
cè più niente da fare. Guido è finito ignominiosamente sotto
il tavolo del colossale rinfresco servito agli invitati e agli inviati
stampa di tutto il mondo. Ma a questo punto - ora che la sua impotenza
è sicura e la sua fine decretata - al rivedere tutti quei personaggi,
veri e falsi, del suo passato e della sua immaginazione, coi quali
dovrebbe ricominciare - e che sono le creature dei suoi film, come
i fantasmi della sua infanzia, le tappe stesse del suo passato -
Guido sente una emozione interiore: tutto si muove nel suo spirito.
Sì, era tutto vero: la sua impotenza, la sua incapacità, la
sua fumisteria, il suo crollo; ma a questo punto, ora che ha constatato
la verità, egli se ne è liberato. La tenerezza per gli uomini lo
riprende, lamore della vita come letizia, come comprensione
del tutto. E può riguadagnare festosamente, fiduciosamente, il suo
cammino, con lo stesso spirito dei suoi anni migliori, ascoltando
la stessa marcia da circo. Il film si farà. Non ci sarà un crollo,
ma un nuovo principio. Non nella crisi, ma nella felicità creativa.
Palombella rossa
di N. Moretti (1989)
All'uscita
di Palombella Rossa il
settimanale cattolico (sic!) Il
Sabato, diretto da Liguori, titolava: "Compagni, the end".
A Formigoni & C. Moretti si limita a rispondere che "CL
è solo la punta più infantile dell'iceberg. Del resto io, nel film,
più che spintonare continuamente uno di loro non potevo fare",
rifiutando dunque le interpretazioni del film che tendevano a considerarlo
una sorta di dichiarazione di resa. D'altra parte basta vedere il
film per accorgersi come sia l'accusa a dominare, pur nel succedersi
degli interrogativi e dei dubbi, sulla rassegnazione "il
mio è un film sulla difficoltà di essere comunisti, ma anche sulla
necessità di esserli. (...) Qui si confonde la riflessione, il dubbio,
la ricerca con la crisi".
Il protagonista
Michele ha a che fare con i ricordi. Ma essi sono solo degli "shining"
capaci solo di illuminare lo spazio-tempo della piscina. La piscina
è il mondo-cinema-cervello da cui non si esce. Il tentativo di comunicare,
dimensione che fonda il ricordo per attivare il circuito passato-presente,
è cruciale nel film. Emblematica è la scena in cui Michele "vede"
l'episodio al quale tutti rimandano e accennano: il dinale della
tribuna politica televisiva con la canzone canatata "in diretta"
e la successiva estensione della visione in vasca, con il pubblico
che partecipa al canto. Sembra realizzarsi "questo sentimento
popolare" - cui allude la canzone di Battiato - attraverso
l'occhietto della telecamera televisiva. Ma è un'illusione, che
si spezzerà al grido "Acireale Acireale!", rivelatore
di una partecipazione della massa (il pubblico equivalente al popolo)
che ha risposto ad uno stimolo, senza essere toccata in profondità.
Si realizza quanto espresso in precedenza: "Se
cerco di tradurre in una formula semplice quello che ho in testa,
io lì fallisco".
Il sole che
chiude il film è di cartapesta. "Ma
questo non vuol dire - dice Moretti - che
bisogna abbandonare l'idea di cambiare il mondo". Da qui
la critica ad un PCI che "ha
troppa paura di non sembrare moderno", ma anche la consapevolezza
che sia necessario "trovare
nuove parole di opposizione. Le vecchie si sono logorate. Oggi anche
il dissenso viene incanalato, riassorbito, triturato dentro il Grande
Spettacolo Nazionale. Bisogna trovare nuove parole, nuovi spazi,
nuovi luoghi". Anche perché se una volta si "teorizzava
su tutto - insiste Moretti - anche
su quale gelateria scegliere la sera, adesso si va tutti al Maurizio
Costanzo Show".
Paris,
Texas
(USA,1984)
di
Wim Wenders
Questo film rappresenta per Wenders il coronamento di un vecchio
sogno, quello di girare un film negli Stati Uniti, in quel paesaggio
mitico dove le più belle storie cinematografiche - su tutte quelle
degli amati western - sono state ambientate. L'occasione gliela
offre l'incontro con
lo scrittore-attore Sam Shepard; la collaborazione con Shepard si
risolve, più che nell'effetiva vicinanza fisica, in una lenta e
parallela progressione sulla stessa lunghezza d'onda. I due autori,
mossi dalle suggestioni contenute in un'immagine shepardiana - quella
di un uomo che attraversa come un automa il deserto in prossimità
del confine messicano - accumulano progressivamente gli elementi
di una storia possibile, quella di due fratelli, per poi arrivare,
dopo un'instancabile processo di sottrazione e la graduale crescita
del personaggio femminile, alla vicenda, lineare e nettissima, di
Paris, Texas.
Premiato a Cannes con la Palma d'oro, Paris, Texas consacra la fama internazionale del suo autore, trasformandolo
in un oggetto di "culto" e sancendo, in coincidenza con
la nuova identità commerciale rivelata dal cinema d'autore, la capacità
di penetrazione al box office del marchio "Wim Wenders".
Ma non è solo questa la svolta indicata dal film. Afferma infatti
il regista: "Tutti i miei film precedenti, in realtà, non credevano
nella storia, nella trama: si basavano esclusivamente sui personaggi
e sulle varie situazioni in cui essi si venivano a trovare. Stavolta,
nonostante il fil sia completamente "aperto", la trama
ha una direzione molto precisa sin dal primo momento: sappiamo perché
Travis sta facendo determinate cose e dove sta andando il film".
Il perseguimento di questa che è lecito individuare come una
svolta drammaturgica, non impedisce comunque a Wenders di soffermarsi
sui temi per così dire "classici" del suo cinema. In primo
luogo quella della comunicazione, punto nevralgico di qualsiasi
rapporto interpersonale, momento fondamentale dell'essere nel mondo
di cui occorre recuperare, straniandola, l'effettiva funzione. Non
è un caso allora se Travis, che proprio sull'azzeramento della parola
ha fondato la separazione dal reale, recuperi il legame con le persone
amate attraverso una forma comunicativa dapprima istintiva, quasi
animalesca, e poi mediata da strumenti tecnologici. Il personaggio
di Alex, figlio di Travis, ribadisce poi lattenzione di Wenders
per la realtà infantile, universo non idealizzato del quale è impossibile
ignorare le lacerazoini prodotte dalle colpe degli adulti, ma il
cui sguardo innocente e diretto può sempre garantire l'acquisizione
di un'identità. E infine, come anticipato nell'emblematico titolo
che allude al luogo mitico di un'impossibile sintesi, il film mette
in scena, ancora una volta, il critico dissidio fra America ed Europa,
non più risolto, però, a livello cinematografico, ma piuttosto evidenziato
come un'alternativa fra due diversi modi di vivere, due diverse
condizioni esistenziali. Tale alternativa
affiora nettissima nell'insistita dialettica tra spazi aperti,
che restituiscono l'idea del vuoto e della solitudine ma suggeriscono
anche la possibilità dello spostamento, del viaggio come momento
liberatorio e conoscitivo, e luoghi chiusi, regno della serenità
familiare e dell'affermazione dei sentimenti.
Paris, Texas
è un film che, come affermato più volte dal regista, non solo segna
il definitivo distacco da un' America intesa come approdo mitico,
"mondo magico verso cui tendere", a riprova della disponibilità
dell'autore all'indagine di nuove dinamiche narrative, ma registra
anche l'ingresso nell'universo wendersiano di un personaggio, quello
femminile fino ad ora rimosso o soltanto vanamente cercato dal suo
cinema.
Nostra sintesi da W.Wenders
di F. D'Angelo, Il castoro
cinema
PIER PAOLO PASOLINI
Dove va l'umanita'? Boh!
Note sui film di Pier Paolo Pasolini
"I miei primi film, da 'Accattone' al 'Vangelo secondo Matteo' a 'La
ricotta' a 'Edipo re', li ho fatti sotto il segno di Gramsci. Mi
sono illuso di fare opere nazional-popolari nel senso gramsciano
della parola e quindi da ciò consegue che pensavo di rivolgermi
al popolo. Al popolo come classe sociale ben differenziata dalla
borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così come l'aveva
conosciuto Gramsci e come io stesso l'avevo conosciuto da giovane,
almeno fino a tutti gli anni cinquanta. E' successa poi quella che
si chiama la crisi, in un certo senso positiva, della società italiana
e cioè il passaggio dell'Italia da un'epoca a carattere ancora in
parte agrario, artigianale, e comunque paleocapitalistico, ad una
nuova epoca: quella del benessere, il neocapitalismo, e quindi con
la trasformazione in un certo senso radicale, per quanto fulminea,
della società italiana; il trasformarsi cioè di questo popolo, idealizzato
da Gramsci e da me giovane, in qualcos'altro, in quella che i sociologi
chiamano massa. A questo punto io mi sono rifiutato, non programmaticamente,
non aprioristicamente, ma in seguito alle prime esperienze, di fare
dei prodotti che fossero consumabili da questa massa; quindi ho
fatto dei film d'élite, cioè apparentemente antidemocratici, aristocratici;
mentre, in realtà, essendo
film prodotti in polemica con la cultura di massa che è tirannica,
che è antidemocratica per eccellenza, in realtà sono un atto, per
quanto forse inutile, per quanto idealistico, di democrazia".
(da un' intervista televisiva del 1969) .
ACCATTONE - 1961 - Il primo film di Pasolini, ACCATTONE, è del 1961, quando
esisteva ancora il "popolo" nelle borgate romane che vivono
all' ombra degli ultimi caseggiati di cemento della periferia .
"La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi
che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di
un sottoproletario, sono sempre in certo qual modo puri perché privi
di coscienza e quindi essenziali... Il mondo psicologico del sottoproletario
è preistorico, mentre il mondo borghese è evidentemente il mondo
della storia ... i miei sottoproletari vivono ancora nell'antica
preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia,
il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria e la somiglianza
fra le due preistorie è puramente casuale ".
E' questo lo schema di 'Accattone'. Un personaggio che è epico perché così
lo rende la sua natura di emarginato, una carenza oggettiva di autocoscienza,
una sterile purezza di atteggiamenti anche nell' inferno della borgata.
Il mondo borghese si avverte soltanto per il suo profumo di morte
e di tecnologia, comunque lontanamente, ma contrapposto al mondo
di forme incerte, essenziali, con qualcosa di religioso come il
sentimento vitale dei popoli primitivi, in cui vive Accattone. Tutto
questo porterà alla morte sacrificale che riscatta e insieme suggella
le colpe del protagonista, che però non muore come un consapevole
martire di un' ideologia; semmai è costante l'irrisione di Accattone
verso la morte, la fame, la solitudine .
L' amore e la sconsolata concezione metastorica di Pasolini rifiutano ogni
dialettica, assegnano ad ogni personaggio un ruolo da recitare fino
in fondo, senza porte né finestre. Ognuno si macera in solitudine,
con voce che non invoca e non piange, non ricorda e non prevede:
Accattone è un punto in cui tutta l' angoscia di Pasolini si raccoglie,
prima di distendersi in una più facile narrazione, come sarà in
"Mamma Roma" e "La ricotta".
UCCELLACCI
E UCCELLINI - 1966 -
" Per chi è crocifisso alla
sua razionalità straziante,
macerato dal puritanesimo, non
ha più senso
che un' aristocratica, e ahi,
impopolare opposizione.
La rivoluzione non è più che un
sentimento... "
Il film è una favola ("ideocomica"). Ma anche una nuova e generosa
autocrocifissione (con tutto quel che comporta di narcisistico,
ma anche di eroico). Pasolini prende la propria crisi e la mostra
di fronte a tutti. E' la nota dolente e a tratti disperata di quanto
si è perduto che rappresenta l'autentica forza della nuova poetica.
Il cinema di Pasolini ha chiuso la sua partita con il mondo sottoproletario
di Accattone e dei suoi primi film. L' ultima immagine dei ragazzi
di vita è nostalgica e memorabile. Davanti a un piccolo bar periferico,
quattro o cinque tra quelli che furono
gli interpreti di una stagione ballano con la furbizia dritta
di un tempo. Ma hanno pronti da una parte gli involti di carta di
giornale con il pranzo del giorno e smettono di ballare per inseguire
un autobus (che non riescono a prendere ): sono diventati operai,
meccanici, tipografi, in città che li ingoiano la mattina per risputarli
la sera nei casermoni popolari.
Il tentativo di deviare la natura verso la storia è illusione di corvi che
camminano dietro al sottoproletariato aspettando la morte. Certo
il corvo-Pasolini non è solo questo; è anche uno spirito libero
e dolce, un poeta anarchico.
Nel grigiore sgranato di un paesaggio irreale, accade che la storia finisca
e (in modo un po' mitico) indichi un'altro orizzonte dove poter
ricominciare a vivere. I cartelli segnaletici non lasciano dubbi:
Cuba, Istanbul, il terzo mondo si preparano a farsi protagonisti,
a premere sul mondo neocapitalista. L' istinto di vita delle nuove
genti in marcia verso il nord aggredirà l'istinto mortuario e decadente
dell' occidente.
E' dunque evidente come il film sia il punto fermo di un' esperienza ormai
conclusa e risponda a una personale contraddizione ideologica ed
umana.
"Fare un film significa (almeno per me) dire la verità sul proprio
conto, su quello che realmente si è". Ed in queste parole non
c' è solo la sincerità, ma anche la teorizzazione del passaggio
dall' oggetto al soggetto, una discesa verticale in se stesso.
EDIPO RE - 1967 - Al presente storico delle marionette che vorrebbero esistere,
ma non possono che per pochi attimi, ai memorabili interpreti (Totò
e Ninetto) rozzi e straccioni con la loro impossibile speranza,
Pasolini preferisce ora il mito e la rabbia autobiografica.
Siamo fuori della storia. Lungo questa strada Pasolini se ne va solitario,
con intatto amore per la realtà. Ma è un amore che uccide invece
che donare vita, una passione mistica che si ingigantisce e passa
per il mito, la metafora, spesso con un' inquietudine che si fa
poesia.
Il film è del ' 67 e Pasolini precisa di essere ormai lontano da ciò che
la narrazione percorre e con ogni probabilità è vero. Tuttavia resta
una vicinanza col senso di quella tragedia originale che Edipo personifica
nel mondo.
Cinematograficamente (montaggio, realizzazione delle inquadrature, ritmo)
è forse uno dei migliori film di Pasolini. Il prologo e l'epilogo
sono tra le cose più riuscite, sequenze fondamentali per mettere
a fuoco il giudizio complessivo sull' opera. E qui si scavalca il
tragico rituale della tragedia. Mentre si dà la possibilità di cogliere
riferimenti al contesto storico, nello stesso tempo si reintegra
il mito nella sua atemporalità disumana.
L'epilogo mostra un brandello d' Italia moderna, giovani al bar, vetrine,
fabbriche lontane, chiese di provincia. Sono i resti di passate
descrizioni rabbiose e ora puro sfondo, lumi appannati. Solo Edipo
esiste veramente, in un primo piano della disperazione che lo isola
in una fissità secolare. Viaggia da secoli con la ragione e il dolore,
il peccato e l'espiazione. Nello stesso bosco dove aveva sentito
per la prima volta il sole, il verde dei prati, il suono dei rami
al vento, si conclude un ciclo che sembrava immortale: "La
vita finisce dove comincia ".
MEDEA - 1969 - Il cinema di Pasolini è spesso scomodo, sgradevole, fa pensare,
mette sotto accusa la tranquillità borghese e pasciuta di chi non
ha tormenti di alcun genere (di chi ha il lusso di non avere preoccupazioni),
discute sulla religiosità vera o presunta delle nostre tradizioni
e delle tradizioni della nostra civiltà, è fuori delle consuetudini
quotidiane, perché è scabroso e non indiretto: scontenta spesso
i conformisti della sostanza come quelli delle apparenze.
Medea ristabilisce per un momento la calma classica di un mondo che Pasolini
sente e ama prima ancora come poeta e come scrittore che come regista:
è una calma ovviamente più d'apparenza che di sostanza, perché il
personaggio centrale non è certo di quelli che lasciano indifferenti;
inoltre è utile a Pasolini per tutta una serie di riferimenti al
modo in cui viviamo oggi. C'è il discorso sulla violenza, il discorso
sui miti falsi e i miti veri (la religione vera e l'opportunismo
esteriore), sul vuoto a-spirituale, l'adattamento e il disadattamento
di popoli primitivi a circostanze falsamente ed apparentemente libere
e in realtà - non di rado - ingannatrici; e c'è il tema del "terzo
mondo", della sua
genuinità di atteggiamenti e riflessioni, vicino al contrasto con
una "civilizzazione" che non è scevra di residui colonialistici.
E c'è - forse ancor più in primo piano - un' impostazione stilistica
eppure continuamente sovraccarica di timbri, stacchi, colori significanti.
Il clima è quello di una struttura arcaica localizzata come allo stato di
analisi. Alla fine i contrasti scoppiano in fragori violenti eppure,
ad esempio, la Callas resta molto misurata nella recitazione. E
nello stesso tempo è significativo che la forza del brano finale,
l'uccisione dei figli, non sia inferiore per intensità drammatica
a quella dell' inizio apparentemente distaccato, oggettivo: destino
e coscienza in qualche modo si riavvicinano, il mistero si scioglie
nel dramma, cultura popolare e cultura nazionale si legano, nell'
intellettuale, per rappresentare il continuo e complesso dilemma
dell' uomo.
NOSTRA SINTESI
da: - "Pier Paolo Pasolini"
di S. Petraglia, Il Castoro cinema,
La Nuova Italia - "Il
Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea" di P.P.Pasolini,
collana Gli elefanti, Garzanti - "Il
cinema di Pasolini" di A. Ferrero, Mondadori - " Le
ceneri di Pasolini" film di P. Misuraca, prodotto da Fuori
Orario, Raitre
Romanzo
di un giovane povero
(1995)
di E. Scola
La filmografia di Scola sembra avvertire
e riflettere più di altre la crisi della commedia allitaliana,
ipotizzandone e poi realizzandone la successiva trasformazione.
Dopo le prove registiche dei film
Se permettete, parliamo di donne (1964), La
congiuntura (1964), Il
vittimista (1965), LArcidiavolo
(1966), Riusciranno i
nostri eroi ....? (1968), la sottrazione di comicità inizia
con il Commissario pepe
(1979): questo film segna il tramonto del modello classico della
commedia allitaliana. E un
tramonto che avviene nella seconda metà degli anni
sessanta, in corrispondenza di precisi riscontri sociali.
Ridicolizzare i parvenu del boom
economico e mettere alla berlina i vizi (soprattutto privati) del
perbenismo borghese non basta più. La svolta di Scola ha luogo con
un film che per la
prima volta avverte il bisogno di fare del protagonista, il borghesissimo
Commissario Pepe, una sorta di eroe positivo, il tipo che paga di
persona il torto di scoprire gli altarini del potere alla cui conservazione
è preposto. Per far questo occorre naturalmente che Pepe abbia la
giusta drammaticità, non sia pavido e macchiettistico.
Sempre più nei film di Scola il tono
si fa amaro. Il lato abnorme della quotidianità di Ceravamo tanto amati (1974) e la mostruosità dei
marginali di Brutti, sporchi
e cattivi (1976) trovano ideale continuità nella commedia noir
del Romanzo di un giovane
povero (1995). Il tema centrale del film è quello del disagio
della psiche: la morbosa nostalgia di un passato felice della madre,
la condizione di disoccupato di Vincenzo, lansia patetica
di opporsi strenuamente alla vecchiaia del pensionato Bartoloni.
I personaggi del film sono bloccati, incapaci di contestualizzare
la loro disperazione. Il giovane Vincenzo Persico è come pietrificato,
solamente una sorta di automatismo sembra spingerlo nei suoi quasi
sempre inutili tentativi di trovare lavoro. A prevalere non è la
rabbia contestatrice (diversi da questa sono infatti i momenti del
film in cui Vincenzo si abbandona allo sfogo infantile e alla folle
e sterile rabbiosità), ma la rassegnazione fatalistica. Forse va
interpretato in questo senso lanticipazione della sorte del
giovane posta allinizio del film, che conferisce al racconto
un tono di ineluttabilità, di tragicità senza catarsi finale.
Se nel primo film del ciclo La
crisi di Serrau la crisi si manifesta come esplosione dinamica
e dialettica delle conflittualità, in questo film il conflitto si
pone come condizione statica, fissa, che attraversa i personaggi
senza scuoterli: non cè un orizzonte di fuga possibile e,
paradossalmente, proprio la prigione rappresenterà per Vincenzo
la liberazione finale. Come già sperimentato in altre prove registiche,
anche qui Scola contamina il genere della commedia con atmosfere
gialle e noir, intensificandole in alcune scene (incontri di Vincenzo
nellandrone del palazzo con Bartoloni) con una resa espressionistica
della fotografia. Si tratta tuttavia di un noir atipico dal momento
che lattenzione del regista non è concentrata sulla risoluzione
dellintrigo, ma sullanalisi dei meccanismi psicologici
che ci illuminano sui comportamenti dei due indagati.
Schindler's
list
di
S.Spilberg (USA 1994)
A qualcuno forse suonò quasi offensivo e blasfemo che l'autore
holliwoodiano più "compromesso", con un'idea ludica e
infantilmente fantasiosa del cinema, appena reduce dal film-zoo
sui dinosauri -imposto sul mercato con una campagna pubblicitaria
senza precedenti- si fosse messo al lavoro su un tema come quello
dell'Olocausto. S., di origine ebraico-polacca, accarezzava l'idea
già da tempo.
Il film indubbiamente segna una rottura col cinema precedente
dell'autore. La meraviglia della fantasia, che aveva sostanziato
pressoché ogni sua pellicola (persino, in taluni momenti, opere
di sofferenza come il Il colore
viola e L'Impero del Sole)
e che intendeva costruire il suo apogeo in Jurassik
Park non ha alcuno spazio nel suo progetto di film razziale.
Strana cosa che, dopo un quarto di secolo passato nel tentativo
di accattivarsi la Motion Picture Academy, Hollywood gli abbia concesso
attenzione ed onore alla cerimonia degli Oscar per una pellicola
così poco rappresentativa di ciò che caratterizza l'intera sua opera.
Ed è altrettanto strano che, al contrario, proprio la critica si
sia trovata in impaccio davanti al film, non sapendo se affrontarlo
come prodotto di immaginazione, documento di una tristissima pagina
di storia contemporanea, studio (auto)biografico o altro ancora.
Spielberg si è documentato sulla vita di quel gruppo di ebrei
schindleriani, ma ha ovviamente improvvisato sui particolari delle
loro giornate. Non i fatti, s'intende, ma i dettagli. Come possiamo
essere sicuri che Goeth compisse davvero quei movimenti, che quel
giorno fosse davvero a letto con quella ragazza, che si rimirasse
allo specchio soddisfatto della sua magnanimità dopo aver deciso
di concedere il perdono? Il punto è tutto qui: se ci
si aspetta la verità da quello che il cinema non può fare
altro che inventare, immaginare, allora siamo condannati ad esserne
gli impietosi, ciechi giudici, incapaci di capire che nella sala
buia la verità non sta
nell'aderenza al documento, ma nello spirito che il documento induce
in noi e che è compito del film -di quel tipo di film- richiamare,
suggerire, rievocare. E questo Spielberg lo fa benissimo, nonstante
il confronto con il libro di Keneally non porti alcuna prova, non
fornisca alcun aiuto in questo senso. In nessun luogo possiamo leggere
con certezza una precisa, inequivocabile definizione della personalità
e degli intenti di Schindler. Ed è bene che sia così: perché tutti,
senza distinzione, siamo fatti in modo da non permettere una chiara
lettura delle motivazioni delle nostre scelte, dei nostri atti.
Schindler ha salvato 1100 ebrei: questo è quanto, ed è bene ricordare
che è ampiamente bastato agli interessati per offrirgli in eterno
la loro riconoscenza e il loro affetto. In questo incontro fra Capitale
e Morale, la joint venture
è paritetica, l'uno rischia quanto rischia l'altra, l'uno vince
quando vince l'altra. Tranne naturalmente verso la fine della storia,
quando ormai ciò che più conta ha preso la mano (e il cuore) a Schindler,
che usa la fabbrica unicamente come copertura per gli operai.
Tutto questo va benissimo, è bello, è nobile, persino quando
motivazioni e disegni non sono completamente distinguibili; fa parte
della vita, del carattere umano, della sua psiche, delle sue stesse
debolezze così come della sua forza. Ma Schindler non è la politica,
non è la Germania, e, pur affiliato ad esso, non è il partito nazista.
Il film ricorda una persona, un gruppo, un evento nel quadro di
un sacrificio razziale senza precedenti per efferatezza e crudeltà,
ma non fa di questo quadro il suo argomento globale.
Ma qui Thomas Keneally
e Spielberg rinunciano a creare un personaggio diviso tra
luce e ombra e optano per un santino, in cui c'è l'ennesima pecora
nera, che francescanamente si redime sino a privarsi di ogni ricchezza
per avere nella sua azienda, costino quel che costino in
bustarelle, il maggior numero di ebrei da sottrarre a un destino
peggiore. Abbiamo, più che il calvario dei ghettizzati, la redenzione,
il ravvedimento di un tizio che agli inizi della vicenda il cuore
lo metteva a tacere per far crescere il conto in banca. Rivien fuori
una vecchia conoscenza che non è stata prerogativa unica del realismo
socialista, l'eroe positivo, accarezzato da Hollywood soprattutto
negli anni Trenta e anche più tardi. Il peccatore che si riscatta,
l'individuo dalla scorza dura che si intenerisce più del Bogart
di Casablanca e si conquista le onorificenze tributategli dallo Stato
di Israele.
In conclusione un film diverso nell'universo spielberghiano,ma
ancora legato ai meccanismi hollywoodiani, sincero nello spirito
che lo anima, ma forse meno intenso di altri film sul tema dell'Olocausto.
Nostra
sintesi da Steven Spielberg,
Franco La Polla, Il castoro cinema (1995) e "Schindler's
list", un film benemerito ma non memorabile, Mino Argentieri,
Cinemasessanta n.1 (1995)
Sur
di
Fernando Ezquiel Solanas, 1988
A metà degli anni '60, in una Argentina orfana del peronismo
e combattuta tra rivoluzione e reazione, inizia l'attività cinematografica
e "politica" di Fernando Solanas. Insieme ad altri registi
argentini, quali Getino e Vallejo, fonda il gruppo Cine Liberation.
L'intento è quello di utilizzare il cinema come strumento di documentazione
sociale e di interpretazione storico-politica dell'Argentina e, a più ampio respiro, come mezzo di lotta di liberazione in
quei paesi allora etichettati come Terzo Mondo. Il risultato più
significativo di questa esperienza è L'ora
dei forni, un lungometraggio documentario a cui Solanas lavora
insieme a Getino negli anni '66-68 per circa trenta mesi, in uno
dei periodi più repressivi della storia dell'Argentina. Il film
è una trilogia sulla società argentina che ripercorre i diversi
conflitti (economici, sociali ecc.) che hanno portato prima al peronismo
poi alla sua caduta e infine a quello che fu definito il "decennio
della violenza"; gli autori identificano il sindacalismo peronista
come forza trainante della rivoluzione sociale e trattano vicende
nazionali storiche in termini aggressivi e stimolanti, tali da richiedere
la discussione critica e la partecipazione diretta del pubblico.
A questo lungometraggio seguirà, in perfetta sintonia col precedente,
Los hijos de Fierro, ispirato
al poema epico nazionale Martin Fierro. Nel 1976, per ragioni politiche,
Solanas si trasferisce in Francia, dove rimarrà fino al 1983 anno
di ritorno alla democrazia dell'Argentina. Nella produzione relativa
a questo periodo più recente figurano film come Tango-L'esilio
di Gardel e Sur, film
con forti connotati autobiografici.
Premiato nel 1988 al festival di Cannes per la miglior regia,
Sur è l'ideale proseguimento
del sofferto e appassionato Tangos-L'esilio
di Gardel. Il film racconta la vicenda di un prigioniero politico,
Floreal, uscito dal carcere nel 1983 all'indomani del ritorno alla
democrazia della società argentina attraversata da cinque anni di
dittatura militare che ha provocato 50.000 morti e 30.000 "desaparecidos".
Il film si divide in 4 parti che caratterizzano i temi trattati
dal regista: il sogno, la politica, la morte, l'amore, che si intrecciano
continuamente, portando alla luce l'impegno politico contro la dittatura
e il "sistema" e la dinamica della vita quotidiana caratterizzata
da amore, amicizia, sesso e tradimento.
Sur
è il sogno che, dalla traduzione del titolo, è il "sud".
Il sogno è la speranza di emanciparsi dal Nord del mondo, colonialista
e imperialista. I richiami continui al peronismo, movimento politico
populista, messo al bando per quasi tre decenni dalle varie dittature
succedutesi al governo in Argentina, caratterizzano il progetto
politico SUR. Questo progetto vuole cambiare totalmente il sistema
politico sociale ed economico dell'Argentina.
Questa speranza è stata clamorosamente tradita dall'applicazione
"reale" del peronismo del dopo dittatura (dall'83 ad oggi)
con Alfonsin e Menem, che hanno applicato le ricette delle istituzioni
economiche internazionali con tale solerzia da impoverire gran parte
della popolazione. Speranza tradita anche per quanto riguarda la
giustizia sui diritti umani violati durante i 7 anni di dittatura.
I generali, responsabili di grandi nefandezze, non hanno ancora
pagato i loro crimini.
L'atmosfera di Sur
è surreale. Continui sovrapposizioni di più piani di racconto: quella
surreale, quella possibile, quella passata, completano la storia
del e l'idea del film e sono funzionali all'esplicazione dei temi
sopra descritti, supportati anche dalle musiche di Astor Piazzolla.
Con la fine del film il regista invita alla resistenza politica
e sociale contro ogni dittatura e discriminazione, ribadendo che
i problemi della vita quotidiana, i sentimenti, gli affetti, gli
amori, la gelosia, non debbano essere pretesto per concentrare la
propria riflessione esclusivamente su sé stessi.
Terra e libertà
di K. Loach (1995)
Il film di
Loach sfugge innanzitutto al rischio del kolossal o del grande film
di guerra, che il titolo potrebbe suggerire ed il tema affrontato
(la guerra di Spagna) avrebbero certamente corso nelle mani di un
altro regista. Il rischio è evitato evidentemente per ragioni di
produzione, ma è abbastanza chiara una scelta precisa di Loach,
quella di raccontare il grande evento storico attraveso le sorti
di un piccolo gruppetto di rivoluzionari. In quest'ottica appare
subito chiaro come il tema trattato e la visione politica del regista
siano inscindibili dallo stile che caratterizza la sua opera. L'attenzione
al particolare ed il rifiuto della visione "generale"
quando questa si fa astratta si sviluppano attraverso un linguaggio
che è lo stesso degli altri film di Loach: molta camera a mano,
senza i grandi dolly o i lunghi carrelli che ritualizzano la guerra,
con un taglio che spesso fa immergere lo spettatore nella vicenda.
Non c'è mai uno sguardo distaccato della macchina da presa. Scena
emblematica, da questo punto di vista, è quella della assemblea
nella Casa del Popolo appena espropriata al latifondista di turno:
la scena è girata allo stesso modo delle scene di Riff-Raff
in cui i lavoratori, in un piccolo ufficio, discutono o scherzano
nelle pause di lavoro del cantiere, e cioè in modo da far percepire
- attraverso le varie inquadrature - l'idea di una soggettiva (il
punto di vista di una persona presente nella scena, che la osserva
dall'interno). Questo da un punto di vista formale. Il contenuto
della scena, è d'altra parte assolutamente coerente. I contadini
che collettivizzano la terra sulla base di riflessioni che sono
sempre il frutto dell'esperienza quotidiana, del contatto diretto
con la loro realtà, con la loro terra, devono affrontare il punto
di vista "generale" degli stalinisti che ragionano in
termini per loro astratti, statuali. Se i contadini percepiscono
la collettivizzazione della terra come appropriazione di classe
(il ché è emblematicamente rappresentato dalla terra che il giovane
inglese riporterà in patria), non altrettanto si può dire degli
stalinisti, che non esiteranno a sacrificare la collettivizzazione.
"Nel maggio del 1937, soprattutto a Barcellona,
ma anche altrove in Catalogna, si verificarono scontri armati tra
le milizie del Poum (Partito operaio di unificazione marxista),
alleate con gli anarchici della CNT-Fai, ed il resto delle forze
armate e politiche repubblicane che lottavano contro il generale
Franco. Al fondo di questo scontro, che avrebbe indebolito le capacità
di resistenza della Repubblica, c'era la preponderanza conquistata
dalle forze repubblicane moderate e dal Partito Comunista (PSUC
in Catalogna) sull'avanguardismo rivoluzionario del POUM e degli
anarchici. Il Partito Comunista considerava prioritario vincere
la guerra prima di fare la rivoluzione; la contrario, gli anarchici
ed i membri del POUM volevano mantenere le milizie popolari e lanciare
un processo di collettivizzazione che avrebbe impegnato i lavoratori
nella difesa di una Repubblica dei lavoratori".
" E' puro anacronismo cercare ora di risolvere
la questione se fosse prioritario vincere la guerra o fare la rivoluzione,
ma è necessario che la memoria storica dei comunisti obbedienti
alla Terza Internazionale assumano la mostruosità del caso dell'anarchico
Nin Andreu (ucciso da agenti sovietici) e delle repressione contro
il POUM". "I comunisti del PSUC avevano la loro logica
rivoluzionaria, come l'avevano quelli del POUM, e in quella svolta
della storia le due parti in conflitto convergevano sulla necessità
della violenza e del terrore rivoluzionario. Non si può trattare
una parte come intrinsecamente violenta e totalitaria e l'altra
come inerme e innocente nelle mani della barbarie comunista. Una
cosa è ora denunciare la sconfitta della ragione libertaria rappresentata
dal caso Nin e l'alienazione della maggioranza dei seguaci dello
stalinismo; altra cosa è demonizzare un settore comunista protagonista
di buona parte della lotta contro il franchismo durante e dopo la
guerra".
(Tratto da
Manuel Vasquez Montalban, Il manifesto 24/9/95)
"E quando sarà il momento giusto perché i comunisti
facciano i conti con la loro storia?". "E'
un pezzo di storia nostra, e noi siamo speciali per non esaminarla
quando siamo in guerra, e archiviarla quando la guerra è finita.
Finita: ogni giorno siamo più stretti, ci hanno liquidato dalla
politica, ci esorcizzano gli ex giovani che vorrebbero non averci
mai incontrarti e non ci capiscono i giovanissimi che non hanno
neanche avuto il tempo di incontrarci. Nulla mi leva dal capo che
siamo deboli anche a causa dei nostri silenzi".
"Non credo a chi mi sussurra: meglio non pretendere
di cambiare, perché solo il proporsi un intervento implica volontà
di manipolazione e dominio, come se non fosse in atto un devastante
processo di alienazione, del quale non occorre essere Lenin, basta
essere Daharendorf per allarmarsi. Perché il nostro progetto è sconfitto?"
(Tratto da
Rossana Rossanda, il manifesto 13/10/95)
La guerra civile
spagnola si protrasse dal 1936 al 1939. Causò la morte 600.000 persone.
Circa 400.000 morirono a causa delle squadre della morte di Franco
durante e dopo la guerra. Altrettanti spagnoli vennero uccisi in
esilio. Fra i morti vennero contati migliaia di volontari stranieri
giunti in Spagna per combatter il fascismo. La sconfitta della democrazia
spagnola lasciò per i successivi 40 anni nelle mani della dittatura
fascista.
Con la caduta
dei regimi comunisti la Rivoluzione Spagnola va anche ricordata
come uno dei pochi tentativi rivoluzionari alternativi allo stalinismo.
Il cinico abbandono da parte delle democrazie occidentali contrastò
con la solidarietà di massa espressa dai lavoratori di tutto il
mondo.
LUCHINO VISCONTI
La duplicità sembra attraversare la personalità viscontiana
senza risparmiare versante alcuno; si tratta di una duplicità che
ne percorre tutti i momenti e gli aspetti possibili: biografico,
culturale, politico, creativo.
Luchino Visconti fu infatti intellettuale di estrazione aristocratica
ma, fin dagli anni del'adolescenza e della prima giovinezza, di
formanzione, di orientamento, di scelte, diciamo, progressisti.
Un progressismo che si esprime dapprima sul fronte delle scelte
e delle determinazioni antifasciste - vissute, tra l'altro in quella
fase, con molta coerenza e con molto coraggio - e che nel dopoguerra
lo porterà, sostanzialmente, a schierarsi a sinistra, soprattutto
a fare proprie le posizioni generali del partito comunista, senza
tentennamenti, esitazioni, incertezze, anche nei momenti in cui
altri, invece, denunciano crisi più o meno profonde, più o meno
attendibili.
Profeta e anticipatore del neorealismo secondo una certa
tradizione o, se si preferisce, secondo una certa leggenda. Profeta
e anticipatore, con Ossessione
( ), e autore poi dell'opera più esemplare e più alta del cinema neorealista
La terra trema, ma negli
stessi anni, impegnato in campo teatrale in una azione che, se non
andava nella direzione opposta, certamente introduceva in questo
quadro parecchi elementi di dubbio, di contraddizione, quantomeno
di discussione. Mentre girava La
terra trema (1948) o Bellissima
(1951), Visconti svolgeva infatti un'azione senza dubbio salutare
di aggiornamento e di rinnovamento delle scene italiane, troppo
a lungo imprigionate in una improduttiva autarchia, seppure gli
autori ai quali egli si rifaceva, i testi che proponeva erano i
più disperati ed eterogenei possibili.
Il più intransigente, il più puro dei neorealisti, si dirà
in un film come La terra trema, e tuttavia per formazione, per riferimenti culturali,
molto diverso dalla figura canonica dal regista neorealista, con
un backgroung di gran lunga più ricco, più articolato, complesso,
e che gli altri, anche i maggiori, come Rossellini e Zavattini,
conoscevano indirettamente, "orecchiavano" in un certo
senso dall'esterno. E ancora, a proposito della duplicità che dicevamo,
a teatro fu un grande anzi beffardo dissacratore di classici: si
ricorda una sua edizione di una tragedia di Alfieri, con fanfare
e penacchi in cui si rivisitava allegramente certi moduli e stilemi
della tradizione con una disinvoltura e un'arditezza che restano
un episodio abbastanza circoscritto nella storia, poi fondamentalmente
molto tranquilla, del teatro italiano. Sempre a teatro, però non
nascondeva la sua avversione e la sua sordità nei confronti, non
solo delle maggiori esperienze del teatro contemporaneo, ma anche
di quelle con le quali il suo marxismo avrebbe dovuto comunque entrare
in un rapporto di attrito di confronto, se non necessariamente di
adesione.Si pensi a Brecht e alle avanguardie che restano sempre
fuori, direi proprio organicamente, costitutivamente, dall'arco
delle letture e delle scelte viscontiane.
La fonte di molti equivoci consiste nell'aver voluto a ogni
costo stabilire una coincidenza puntuale, anzi una coincidenza esemplare
tra il lavoro di Visconti e alcuni nodi e luoghi fondanti della
cultura antifascista e progressista: nell'aver cioè voluto istituire
un rapporto stretto, meccanico, conseguente tra certi momenti contraddittori
ma comunque alti di sviluppo, di tensione di una certa cultura,
e una esperienza, un lavoro, una posizione un approccio, come quelli
di Visconti, che avrebbero in un cero senso dovuto riassumere tutti
questi momenti portandoli a una grado di esemplarità e di perfezione
quasi paragdimatiche.
Non possiamo certo dimenticare che Visconti, pur con interventi
abbastanza episodici e parsimoniosi, è però stato per tutta una
fase organicamente legato a una certa storia della cultura italiana
antifascista e progressista, e quindi ha contribuito direttamente
alla costruzione dell'immagine critica che abbiamo ricordato. Ma
si tratta di un abito stretto, un abito stretto che lascia fuori
troppe cose ovvero le conduce a contraddizioni talvolta lancinanti,
non componibili; un abito che offre di un opera e di una personalità
così complessa una immagine riduttiva, che finisce coll'impoverirle
anziché arricchirle e precisarle.
Comincia il lungo viaggio di Visconti a ritroso nella memoria. La natura
dei materiali, dei registri letterari, figurativi, musicali (il
loro uso mai meramente scenografico) e lo straordinario grado di
fusione al quale Visconti li reca, non sono dati esterni di sensibilità
e di gusto, sono l'habitat culturale di questi personaggi, l'aria
stessa che respirano, i loro comportamenti divengono la proiezione
critica della visione e della cultura dell'autore, che in essi si
rappresenta, si obiettiva e si giudica.
Per questo in Senso
(1953) e negli altri film che verranno, la volontà e il gusto
dello smascheramento sono così acri e impietosi. L'autore ripercorre
criticamente dall'interno la propria storia con una capacità di
corrosione, di dilatazione che si farà sempre più fievole, ma non
senza colpi di coda, assalti e tentativi di sortita, per quanto
anch'essi via via più vaghi.
Vito e gli altri
(1992 - A. Capuano)
L'opera prima
di Capuano non parla solo di bambini. Il film parla innanzitutto
di una cultura, quella cultura che ormai distrattamente noi ci lasciamo
scivolare addosso senza soppesare il suo impatto, la cultura televisiva
delle automobili luccicanti e delle belle gambe - o delle telenovelas.
I personaggi del film - ed in particolare Vito - si integrano in
maniera perversa - in quanto si legano in modo assolutamente naturale
- con quelli osservati in carne ed ossa nei quartieri di Napoli,
i modelli degli spacciatori, dei boss, di chi ce l'ha fatta ed è
rispettato. In questo contesto Vito non può che essere fiero dell'esperienza
del riformatorio, ostentata con un tatuaggio. Capuano ci suggerisce,
insomma, che il modello di massa imposto è sempre metabolizzato
e integrato con la propria cultura.
Un'altro aspetto
molto interessante del film riguarda il rapporto con un cinema realista
e la soluzione particolare con cui questo rapporto è risolto dall'autore.
Il neorealismo era stato caratterizzato dalla convinzione che la
realtà fosse lì pronta e si trattasse innanzitutto di imprimerla
sulla pellicola (Zavattini). Ma il cinema neorealista era poi andato
in crisi a causa delle sue carenze teoriche, per cui le sue opere
- frutto di un affascinato moto istintivo di attrazione verso la
realtà - hanno presto mostrato la corda. In Vito e gli altri Capuano
non fa un'operazione neorealista. Infatti, se sceglie di usare attori
non professionisti, che parlano un dialetto che spesso necessita
di sottotitoli, tuttavia fa alcune scellte che caratterizzano in
modo fortemente "ideologico" il film: il racconto è frammentato
dalle interviste-lezioni di vita che gli stessi protagonisti rivolgono
al pubblicco, seduti su sedie da bar in mezzo alla strada; prese
da sole potrebbero costituire un documento televisivo, ma nel film
sottolineano l'intento ideologico che nel documentare vuole innanzitutto
accusare. In altre parole, mentre con le interviste Capuano vuole
suggerirci che "nella realtà" quei bambini sono proprio
così come nel film, d'altra parte le interviste interrompono il
racconto della vicenda, imponendoci con questo distacco una riflessione,
pretendendo quindi l'attenzione anziché la partecipazione emotiva
del pubblico.
Analoga funzione hanno le lente panoramiche
circolari sui bambini che si affacciano sulla città: non sono belli
visti cos? Quei bambini così poeticamente rappresentati sono spacciatori,
assassini, prostitute. Che ne pensate? In fondo l'operazione è molto
cinematografica - e poco neorealista - proprio per questo: l'artificio
del montaggio alternato non mostra semplicemente una realtà che
è stata fotografata. Ci dice anche come guardarla e pretende una
messa in discussione.
Z
- L'orgia del potere
di
Constantin Costa-Gavras (1969), durata 126'
Il film è tratto dal romanzo dello scrittore greco Vassilis
Vassilikos che rievoca l'affare
Lambrakis. Il film parafrasa la vicenda esplosa in Grecia nel
1963 quando Gregorio Lambrakis, professore di medicina all'Università
di Atene e deputato di sinistra al parlamento, venne investito da
un automezzo, riportando ferite gravissime che lo condussero in
pochi giorni alla morte. Se ne originò un processo largamente manipolato,
secondo la denuncia di Vassilikos, dalle autorità greche, che doveva
poi sostanzialmente terminare con un nulla di fatto ed infine con
la riabilitazione degli alti ufficiali colpevoli, affermandosi in
Grecia il regime dei colonnelli. Il film si svolge in un immaginario
paese mediterraneo (si tratta di una coproduzione franco-algerina),
ma le intenzioni degli autori sono esplicite nel rifarsi, sia pure
con altri nomi, all'affare
Lambrakis. Z (iniziale del verbo greco zow
che significa "è vivo") è ciò che veniva scritto sui
muri all'epoca dell'omicidio di Gregorio Lambrakis.
Z, L'orgia del potere
è costruito con grande abilità, ma anche con enfasi tesa a tracciare
un quadro di immediata presa spettacolare. E' un film esplicitamente
politico volto a interessare la più larga udienza possibile. Il
film riscosse un grande successo di pubblico in Francia e all'estero
conquistando addirittura nel 1970 l'Oscar quale miglior film straniero.
|