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Associazione politico culturale
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ccp 10687036

Allosanfan

di Paolo e Vittorio Taviani

I nostri film - come tutto il cinema di ricerca - si rivolgono a un pubblico che "cerca". (1969)

Al contrario di ogni altro film dei Taviani, Allosanfan possiede, eccezionalmente, una struttura narrativa estremamente intricata, complessa. Le azioni, i protagonisti, anche i sentimenti paiono subire gli ostracismi di una legge superiore, anche nelle intenzioni degli autori. Nell'ombra qualcosa governa, "muove"; e gli abitanti di questo paese non possono che scoprire, sgomenti, di non essere altro che scacchi, liberi solo di seguire tracciati preordinati. Pure il linguaggio, l'espressione, il testo, si incanalano, procedeno per linee simmetriche di sviluppo. Nel film nessun personaggio può vantarsi di aver stabilito qualcosa, di essere padrone della propria esisenza o delle azioni. .. In Allosanfan, insomma, è il melodramma con le sue regole e le sue abitudini a stabilire il gioco delle parti. ... Ma la trama non è qui il destino; gli ostacoli e le peripezie non sono dettate dal Fato sono semmai le regole del gioco, il principio della realtà quale amputazione del desiderio, l'angoscia per il presente che genera i mostri minuscoli della famiglia come quelli del gruppo o del potere istituzionale.

"La restaurazione non ci appare solo come quel fatto di potere e di classe che fondamentalmente è: ma come una forza che punta su quanto di regressivo, di restauratorio - e di inconfessato - è in ciascuno di noi, anche in chi la combatte. Confessiamo tutto quello che nel momento della ricerca e dell'azione, soprattutto collettive, riusciamo a superare, e che nel momento del ristagno e dell'attesa rimuoviamo con una violenza pari al suo rifluire. La rimozione genera paralisi. Dobbiamo liberarcene. E' quanto abbiamo cercato di fare con Allosanfan, ed è stata una operazione faticosa e sgradevole".

La rivoluzione può divenire produttiva quando nella concretezza del reale il compito è quello di modificare, lentamente, le cose. Al contrario diviene alienante quando l'ansia ingigantisce a tal punto da far fuggire in un mondo che non esiste. Perciò Fulvio "non volendo riconoscere, vive nella menzogna: tradisce gli altri e sé stesso: solo così si può credere autosufficiente".

"Si tratta di far leva sulle contraddizioni dello Stato borghese... Quindi lotta per una nuova legge sul cinema, sulle direttrici: cinema  come servizio pubblico (enti di Stato, circuiti si Stato in alternativa al cinema, al profitto, principio della "non economicità" della produzione di ricerca); lotta per aperture di circuiti diversi (legati ai Comuni, al decentramento regionale, a nuove realtà sociali di base); per una scuola diversa ecc." (1971)

".... Crediamo nella qualità dell'uomo, nella sua capacità di produrre. Proprio perché ci sentiamo circondati dalle "tenebre" siamo disperatamente dalla parte di chi lotta per 'fare luce'." (1962)

"....E' il momento in cui possiamo rittrovare, con lo stupore, quello che - dice Goethe - caratterizza il "nuovo": l'esagerazione. Noi siamo per gli esagerati. E' proprio di chi non si nasconde a sé stesso e agli altri, di chi è pronto a tutto e a pagare di persona, abbastanza dolorante per essere maturo, è proprio di questi il diritto all'esagerazione" (1966)

Il colore rosso della camicia strappata di Fulvio si allontana fino a divenire un punto quasi invisibile e la musica del saltarello eccita la mente con la speranza di nuovo riproposta dall'azzurro degli occhi di Allosanfan.

"Per noi marxisti si tratta insomma di trovare un equilibrio tra soggettività e marxismo. Abbiamo bisogno di quello che qualcuno ha chiamato "nuovo umanesimo": un umanesimo, naturalmente non contermplativo, dell'io idealistico, ma rivoluzionario"

( Scheda tratta da Paolo e Vittorio Taviani di F.Accialini e L.Coluccelli, Il Castoro Cinema. In corsivo commenti dei Taviani)

 

Berlinguer ti voglio bene

di G. Bertolucci

"Ho parlato di un mondo che sta tra il proletariato urbano e il sottoproletariato contadino, e a mio parere ho fatto un film sull'oggi. Con il '68 la classe dalla quale provengo ha perso i connotati, mi sentivo di fare un film su questa cosa ormai indefinita. Con Benigni abbiamo cercato di rompere con quel tipo di schema che fa capo alla commedia all'italiana. Cercando di recuperare radici diverse da quelle piccolo borghesi di quest' ultima, e tornando a un dialetto arcaico e creando un personaggio sottoproletari che era sempre stato escluso da questo genere di commedia. (...) Non ho usato il 'turpiloquio' né la 'parolaccia'. Quel che convenzionalmente è considerato tale sarebbe tutto da verificare; se un professore di sessuologia adopera un frasario 'genitale' durante una lezione, questro non è affatto turpiloquio, e allora perchè dovrebbe esserlo se lo usa Cioni Mario, un sottoproletario rimasto infantile, che non è maturato né psicologicamente né socialmente? Il suo è un lessico genitale. Ho guardato alla storia del film attraverso una lente psicoanalitica. La gergalità genitale rimanda a significati che vanno molto al di là di quelli della 'parolaccia', usata di solito per catturare il pubblico, un tramite di un suo identificarsi attraverso un linguaggio comune. Nel mio film è proprio il contrario: ho insistito su un linguaggio insolito, chiuso in se stesso, asfissiante, per mostrare l'ossessività nella quale viveva il mio sottoproletario. Nella realtà, ovviamente, il turpiloquio è molto meno accentuato di quello che c'è in Berlinguer ti voglio bene"

Il titolo del film è un titolo libero, da intendersi come parte del linguaggio di Cioni Mario. La simpatia di Benigni per Enrico Berlinguer è ormai un dato acquisito, ma nel film il rapporto tra Cioni Mario ed il segretario del P.C.I. non è così risoluto ed è un po' più conflittuale. Oggetto di culto il suo ritratto, come un'icona: che però nell'orto funge da spaventapasseri. Il giovanotto vota senz'altro per lui, ma non è che  il compromesso storico lo entusiasmi. Comunista arcaico come la sua parlata, forse viene da lontano ma di sicuro non si sa quanto lontano possa andare, con tutti i problemi personali che gli gravano sul groppone. E' lì che aspetta un segnale dalla televisione, basterebbe solo una parola di Berlinguer a dare il via alla rivoluzione, e questo - inspiegabilmente per Cioni Mario - non avviene.

Le evasioni del protagonista (che per usare le parole di Pasolini a proposito di Accattone, appartiene ad un'altra razza rispetto a quella borghese e che per questo offre il là ad un razzismo di classe che non sopporta la sua stessa messa sullo schermo), le evasioni di Mario Cioni, appunto, si consumano in week-end più tristi della settimana lavorativa, dentro un cinema a luci rosse che non lo eccita ma lo deprime, e in una casa del popolo molto affollata per via della tombola. Quando si passa al'culturale', e il tema all'ordine del giorno è 'potrà mai la donna pareggiare l'uomo?', viene fuori quella concezione 'reazionaria di sinistra' della quale il film, secondo Benigni, si fa qui per la prima volta portavoce.

Nostra sintesi elaborata dalla recensione di Ugo Casiraghi, L'Unità marzo 1995. In corsivo un'intervista a Giuseppe Bertolucci

 

Brutti, sporchi e cattivi

di Ettore Scola

Brutti, sporchi e cattivi, film non a caso destinato a riaccendere intorno a Scola più di una polemica, si caratterizza per un insistito interesse per gli emarginati ma in un quadro di più accentuato pessimismo rispetto al suo cinema precedente. Più che riflettere a elementi secondari del costume o del modo di pensare, l'imbarbarimento su cui insiste il film va inteso nei suoi estremi "pasoliniani". Non a caso proprio al Pasolini del "genocidio culturale" aveva pensato il regista per una sorta di prefazione filmata, poi purtroppo, non realizzata. In essa, Pasolini avrebbe dovuto spiegare le ragioni storiche di quell'imbarbarimento, mettendo - come solitamente si fa nei libri - lo spettatore/lettore nelle condizioni di comprenderne immediatamente la problematica.

Scomodo Pasolini, che sarebbe morto di lì a poco, ucciso nei luoghi dove si tenta di avvelenare Giacinto (Nino Manfredi), e scomodo Scola che con Brutti, sporchi e cattivi disorienta critica e pubblico, pur guadagnando il premio per la miglior regia al festival di Cannes. Pasolini avrebbe voluto un finale ancora più amaro, convinto che "gli abitanti delle baracche erano, essi stessi, responsabili della loro evoluzione, essendosi voluti far colonizzare e distruggere". Scola ritiene che non ve ne sia bisogno, essendo di per sé già eloquente l'impietosa descrizione di luoghi, personaggi e situazioni. Ignoranti e avidi, i borgatari del film testimoniano abbondantemente che la povertà non è più una virtù (chissà se lo è mai stata) e neppure una condizione per dividere valori e giudizi.

I conti col populismo del neorealismo sono presto fatti nell'epoca delle omologazioni di massa mass-mediologiche e non consentono di trarre alcun positivo bilancio. Tutto è monetizzato e monetizzabile sul filo di un istinto di sopravvivenza che ha del tribale, dell'animalesco. Senza identità, i "brutti sporchi e cattivi" del film, confinati ai margini del cosiddetto "vivere civile", incarnano come possono lo "spirito del tempo". La loro mostruosità è indubbia, ma le ragioni per cui sono pronti a scannarsi sono del tutto simili a quelle che scatenano gli appetiti della "società civile", con la differenza che qui, almeno, non ci sono paraventi ideologici o alibi sociali. Essi stessi non sono più il paravento o l'alibi di nessuna coscienza. Chi si era illuso di trovarli "belli, puliti e buoni", con le carte in regola per accedere alle vie del Signore, o del Socialismo, ha ampia materia per ricredersi.

A Scola viene da più parti rimproverata la volgarità con cui è resa la ...volgarità, ma nel film il suo uso è quanto mai funzionale alla connotazione dell'ambiente. Fra tanti risentiti (re)censori, qualche voce a favore. Alberto Moravia, ad esempio, che fotografa con esattezza la "filosofia" del film: "C'è stato quello che Pier Paolo Pasolini chiamava il cambiamento antropologico del consumismo; e che noi, più modestamente, definiremmo la scomparsa dei tempi migliori" ("L'Espresso", 10 novembre 1975).

Sintesi da "Ettore Scola" di Roberto Ellero - Il Castoro cinema, 1989

 

Il diario di una schizofrenica

di Nelo Risi

Un giovane regista italiano, innamoratosi del libro "Diario di una schizofrenica",chiede alla signora Sechehaye, la psicoanalista di Ginevra che ha curato Renée, (la protagonista del libro) di poterne trarre un film. Descrivendo dapprima  i sintomi della schizofrenia e, in seguito, la loro scomparsa, seguendo l'evoluzione della psiche della malata dall'infantilismo più completo in cui era caduta, allo stato di adulta evoluta, l' autrice  ha dimostrato il metodo con il quale la malata era guarita. Il libro riferisce  l'esperienza vissuta dalla  malata e mostra tutto ciò che si maschera dietro le manifestazioni della schizofrenia ; Freud scriveva: "questi malati si sono distratti dalla realtà esteriore ed è per questo che su quella interiore ne sanno più di noi e possono rivelarci cose che senza il loro aiuto sarebbero rimaste impenetrabili" .

Nelo Risi tenta  di riprodurre,con il linguaggio cinematrografico,quella che è già di per sè un'opera artistica. La signora Sechehaye era molto perplessa di fronte a tale proposta,perchè le difficoltà tecniche erano certo notevoli; la pittura consente di riprodurre alcune delle trasfigurazioni della realtà che Renèe descrive: ad esempio l'isolarsi degli oggetti e delle loro singole parti, lo svincolarsi delle cose dal loro significato e funzione, le modificazioni nella luminosità ambientale e nella consistenza materiale degli oggetti, il sovvertimento di ogni prospettiva (e leggendo le pagine scritte da Renèe vien fatto spesso di riferirsi a certe modalità d'espressione della pittura contemporanea ); ed è anche pensabile che il cinema possa impadronirsi di queste modalità di espressione e utilizzarle. Ciò sarebbe poco comprensibile per lo spettatore che vedrebbe Renèe come la protagonista del film,e il diario non sarebbe allora più tale,ma la riproduzione obiettiva del comportamento esteriore di una qualsiasi ammalata di mente; oppure non dovrebbe mai apparire nel film e questo dovrebbe limitarsi a riprodurre ( in modo assai parziale ) il mondo esteriore come Renèe lo ha veduto, ma ne uscirebbe un film documentario.

E' importante mettere in rilievo l'aspetto tecnicamente scientifico, di descrizione del trattamento psicoanalitico di un caso di schizofrenia, veduto con gli occhi dell' ammalata stessa. Il problema è quello della intelligibilità della malattia mentale e della schizofrenia,  la forma specifica  da cui Renèe  è stata colpita, che è incomprensibile per l' uomo normale:l'alienazione , e cioè il fatto che l'ammalato diventa altro, e sembra non appartenere più alla comunità degli uomini. Anche Renèe  è stata al di là dei confini della umana comunicazione e comprensibilità; ma quando guarisce e giunge, come essa dice "a sistemarsi definitivamente nella bella realtà" ( che è poi quella realtà a tutti comune che garantisce   la comunicazione sociale), essa riesce a rendere comunicabili  anche le sue esperienze di malata. Vi sono dunque anche nell' individuo normale elementi interiori suscettibili di risuonare alle descrizioni che Renèe ci fa: una parte di noi alla quale il mondo dello schizofrenico non è totalmente estraneo, un coacervo di nostre esperienze che noi stessi ignoriamo. Possiamo dunque intendere e rivivere la storia di Renèe: da un lato perchè la barriera che divideva Renèe ammalata dagli uomini normali è tale solo in apparenza, perchè gli elementi che compongono la malattia mentale di Renèe  in qualche modo si ritrovano in noi; dall' altro perchè Renèe, senza saperlo e senza volerlo, ha scritto un' opera poetica suscettibile di risvegliare elementi nascosti che sono in ognuno.

Lo schizofrenico, anche quando si trova in uno stato di decadimento mentale e psichico che fa pensare alla demenza, resta in possesso di un'anima, di un' intelligenza, e prova sentimenti talvolta molto vivi senza poterli esteriorizzare. Anche nei periodi di indifferenza completa e negli stati stuporali in cui il malato non sente più nulla , gli resta una lucidità impersonale che non solo gli permette di percepire quello che accade intorno a lui, ma anche di rendersi conto dei suoi stati affettivi.Spesso è questa stessa indifferenza che, spinta all' estremo, gli impedisce di parlare e di rispondere alle domande che gli fanno. L' osservazione di  questi fatti permetterà più tardi al malato di ricordarsi le tappe della sua malattia  e di poterle raccontare.

 

Fai la cosa giusta

di Spike Lee

"Fai la cosa giusta" è una citazione da un discorso di Malcom X; il film ne è pieno, come di tante espressioni gergali (molte perdutesi nel doppiaggio) nate in varie fasi all'interno dei movimenti neri (la più comune è l'uso del termine "fratello"). Ma insieme al leader che è ricordato per la famosa espressione "by any mean necessary" (con ogni mezzo necessario), criterio guida di tutta la linea politica di Malcom X, a fare da contraltare è la figura dell'altro leader nero Martin Luther King, legato invece alla prassi nonviolenta. Le due figure, la cui ombra aleggia nel film appaiono in una rara fotografia che li ritrae insieme (i rapporti fra i due furono controversi e non sempre idilliaci). Da questa foto nascerà il pretesto di una lite banale che degenererà in disastro e la foto stessa risulterà salva da un incendio per puro caso.

Il film tornerà alla ribalta dopo gli scontri di Los Angeles a seguito della sentenza sul caso Rodney King (il nero preso a bastonate da alcuni poliziotti e filmato dalla telecamera di un amatore - i poliziotti furono prima assolti e dopo gli incidenti, con intervento del Presidente degli Usa quella sentenza fu annullata), per la impressionante somiglianza tra le sue immagini e quelle della rivolta diffuse dalle televisioni durante gli scontri realmente accaduti un paio di anni dopo. Questo ci dice molto non tanto sul film, quanto sul tipo di realtà che esso racconta e in particolare sulla prevedibilità del suo svolgimento: di fronte ad una palese ingiustizia - che per gli afroamericani non mancano mai da cinque secoli in qua - presto o tardi, e comunque in modo incontrollabile, non più logico o irrazionale, si scatena una reazione.

Lo spaccato che il film offre è uno spaccato contraddittorio, descrive una vita basata sui rapporti di forza, delle relazioni che si evolvono in modo ripetitivo, ciclico, senza domandarsi più il perché. Il caldo che avvolge la lunga giornata estiva in cui sisvolge la vicenda è ineluttabile, come molti dei caratteri delle vite raccontate. Ci si punzecchia, si cerca di mostrare forza sull'altro, ma tutto è normale, in qualche modo sotto controllo. Ognuno deve recitare una parte, mostrare i muscoli, anche se non ha alcuna voglia di usarli. E' in clima misto di gentilezza, aggressività, quieto vivere e rabbia che cova, ordinariamente, come una risata o uno sberleffo: tutto sembra tener, in fondo. Non sembra si porti rancore dopo una lite senza importanza, soprattutto se la giornata ne contiene decine. Invece sarà proprio una lite senza importanza a portare alla tragedia.

Impressiona, nel film, ed è un tratto interessante, l'assenza di una figura quasi mitica, quella dell' Americano : qui ci sono italiani, africani, spagnoli, coreani ecc. Gli unici americani sono in qualche modo i poliziotti (che uccidono, che abusano del loro potere, che resteranno impuniti e lasceranno i vari gruppi a scannarsi fra loro nello sfogare la rabbia). I poliziotti attraversano, o meglio, scivolano sul quartiere in modo superficiale, cercano di starci il meno possibile. E' la rappresentazione di uno Stato che, abbandonata al caos ogni comunità, si occupa appunto solo dell'ordine pubblico. Le comunità, d'altro canto, vivono in modo schizofrenico al loro interno: è la paura a dominarle subdolamente, ma anche convenzionalmente: se qualcuno mi pesta un piede e rovina le mie "Nike " da 200 dollari ed è bianco io "devo" arrabbiarmi, il mio ruolo lo impone. La cultura del quartiere (sia tra gli afroamericani che tra i portoricani o gli italiani) è un miscuglio di consumismo (le "Nike" da 200 dollari acquistate da un disoccupato) e luoghi comuni (gli insulti che ogni gruppo rivolge ad un altro, il quale prosegue la catena finchè il cerchio non riprende), in cui Michael Jordan è sullo stesso piano - entra nel proprio sistema di valori con pari dignità - di Malcom X, così come Robert De Niro è sullo stesso piano di Antonio Cuomo, in una confusione di idee tra il ridicolo ed il tragico. La miscela, insomma è esplosiva ed esplode.

Il giorno si chiude ed il giorno dopo il D.J. riprende le trasmissioni radio della giornata con le previsioni del tempo: "Caldo!" (hot = lett. bollente) proprio come all'inizio del film, come ogni giorno.

 

Fino all'ultimo respiro

di Jean Luc Godard (Fra, 1959)

Titolo originale: A' boute de souffle. Soggetto: Francois Truffaut Sceneggiatura: J.L.G. Fotografia: Raoul Coutard. Montaggio: Cécile Decugis e Lila Herman. Musica: Martial Solal e Mozart. Interpreti: Jean Paul Belmondo e Jean Seberg. Durata: 87'.

 

"A' boute de souffle appartiene per sua natura al ge- nere di film in cui tutto è permesso. Qualsiasi cosa fa- cessero i personaggi poteva essere integrata nel film (...). A' boute de souffle è una storia, non è un soggetto. Il soggetto è qualcosa di semplice e vasto che si può riassumere in venti secondi, la vendetta il piacere... La storia la si può riassumere solo in venti minuti".

A proposito della realizzazione di Fino all'ultimo respi- ro il direttore della fotografia Raoul Coutard ricorda il modo di procedere di G.: "Di giorno in giorno, man mano che i dettagli del soggetto si precisavano, egli spiegava il modo di realizarli: niente cavalletto per la cinepresa, niente luci se possibile, carrelli senza bi- nari...Poco a poco noi scoprivamo il bisogno di andare contro le regole e la grammatica cinema- tografica. Durante le riprese G. confermò questa posizione, tanto più che la suddivisione delle inqua- drature era fatta man mano, come i dialoghi. Il film si costruiva man mano, durante la visione dei giornalieri (le inqua- drature girate nel giorno precedente, ndr). Così lui non può dire il giorno prima, e nemmeno immedia- tamente prima, che cosa si sta per fare: è provando una scena che la decisione viene presa, a volte dopo aver girato un ciak si ricostruisce tutta la scena da un altro punto di vista. Non è raro, se non ha ancora bene in mente unna scena, che decida all'ultimo momento digirare un'altra cosa, in un altro ambiente. A volte si ferma per un giorno intero per prendere tempo e riflettere...".

Improvvisazione, uso di tecniche agili, non appesantite dalle consuete attrezzature, grande rapidità nelle riprese e conseguente basso costo, tutto ciò fa parte del normale (dopo questo film) modo di procedere di tutta la Nouvel- le Vague. Ma per G. non si tratta solo di assottigliare la barra che separa la vita dal cinema o di venire incontro ad esigenze produttive: l'obiettivo principale è quello di andare contro le regole stabilite, riesplorare più in profondità le possibilità del mezzo.

Un punto fermo della critica, per il linguaggio usato, fu il tema del disordine. Il protagonista, definito generica- mente "anarchico", fu interpretato come il campione di una gioventù sbandata, sulla scia di alcuni modelli cine- matografici degli anni '50, l'esempio di una crisi totale di valori. Il linguaggio frammentario e discontinuo del film, il disprezzo delle regole registiche vennero così letti come il necessario risultato di tale atteggiamento "di fondo", secondo un modello teorico ancora oggi ben vitale, quello secondo cui il "contenuto" determina e condiziona la "forma".

Ma è opportuno vedere più a fondo in che cosa consista l'anarchismo espressivo del film. Tutto il cinema classico (il cinema americano dal '30 al '60) aveva avuto un assillo costante: quello di nascondere la sua costitutiva frammentarietà e discontinuità e di proporsi come un racconto fluido, che scorre senza intoppi o sbalzi. A questo fine esso ha codificato, rendendole obbligatorie, una serie di tacite regole che costituiscono il patrimonio dei tecnici e dei professionisti "seri", quelle che stabiliscono il modo corretto di fare cinema. Per quanto riguarda il montaggio, per esempio, dimenticando la lezione del cinema sovietico degli anni '20, il cinema classico ha reso praticamente obbligatoria la regola che i cambi di inquadratura devono risultare il più possibile impercettibili per lo spettatore. A questo fine bisogna evitare alcune incongruenze rese possibili dallo spostamento di angolazione della cinepresa fra un'inquadratura e la seguente : uno spostamento troppo pccolo (in pratica inferiore ai 30 gradi) è vissuto come inutile e perciò disturbante; uno spostamento eccessivo può sbilanciare la composizione interna dell'inquadratura ed è perciò anch'esso da bandire. Ebbene G. rifiuta proprio queste pseudo-regol. Assistiamo così - ciò che ogni buon montatore considera ancora oggi agghiacciante - a "scavalcamenti di campo" (due persone che in una inquadratura sono una sulla destra e l'altra sulla sinistra dello schermo e in quella seguente occupano posizioni invertite), ad una serie di attacchi che paiono piuttosto bruschi singhiozzi della cinepresa, e così via.

Per questo Fino all'ultimo respiro è contemporaneamente un film sul cinema ( è strapieno di citazion o situazioni riferite all'universo cinematografico) ed un film contro il cinema. Questo film costituisce la premessa di un pensiero che non cesserà mai di interrogarsi sul cinema, sul rapporto con la realtà, sull'intreccio tra ideologia dominante e controllo della tecnologia.

 

Full Metal Jacket  

di Stanley Kubrick

Soggetto ispirato al romanzo "The short-timers" di Gustav Hasford Sceneggiatura di S.K., Michael Herr, G. Hasford Musica Abigail Mead e canzoni dell'epoca (Tell me goodbye, These boots are made for walking, Paint it, black) Interpreti: Matthew Modine (soldato Joker), Adam Baldwin (Animal), Vincenzo D'Onofrio (Palla di lardo), Lee Herrmey (Sergente istruttore Hartman), Arlise Howard (Cowboy), Kevyn Major Howard (Rafterman) Produzione :Stanley Kubrick per Warner Bros Distribuzione W.B. Durata 116'.  Le riprese sono state effettuate a nord di Londra, in una officina del gas abbandonata, negli studi di Shepperton.

 

K. conferma il suo interesse per i generi cinematografici: tutta la sua produzione si caratterizza per la incursione dell' autore in diversi generi (il film di fantascienza con 2001..., il film horror con Shining, il film sulla violenza urbana  con Arancia Meccanica, il film in costume con Barry Lyndon, il film erotico o sull'erotismo con Lolita, e infine soprattutto il film di guerra con Orizzonti di Gloria e Il dottor Strana- more - e diciamo soprattutto, per la presenza della guerra e del suo funzionamento in film come Spartacus con il con- flitto fra i barbari schiavi e romani, in Barry Lyndon con la Guerra dei Sette Anni ecc.). Il film di genere, e più di ogni altro il film bellico, consente all'autore una più rapida ed ef-

ficace tipizzazione dei "personaggi" - che sono spesso solo delle maschere - e rende credibile la esasperazione dei loro stati d'animo, delle circostanze in cui agiscono. Il film di genere insomma facilita la costruzione del meccanismo ad orologeria (si pensi al clockwork orange - l'arancia ad orologeria, l'arancia meccanica) del film in cui i personaggi sono le pedine (e si pensi ai continui riferimenti al gioco degli scacchi) a disposizione dell'autore.

Da questo punto di vista è frequente, come qui in Full metal jacket, la divisione dei film di Kubrick in due parti l'una contrapposta all'altra in cui  prima c'è la costruzione del meccanismo filmico e poi il suo svolgersi. In Arancia meccanica, ad esempio, la seconda parte del film costituisce per Alex il contrappasso della prima; in Barry Lyndon alla progressiva ascesa sociale di Barry nella prima parte segue il progressivo declino. La prima parte del film serve a  delineare il percorso che inevitabilmente, implacabilmente e puntualmente - senza che gli Uomini, autori stessi delle premesse di quel percorso, possano poi modificarne gli esiti - dovrà essere seguito (si pensi a Il dottor stranamore o a Orizzonti di gloria). In Full metal jacket la prima parte  del film ci mostra la costruzione, come in un laboratorio, del killer ed il killer sarà il prodotto inevitabile che ne risulterà. Joker (letteralmente buffone) percorrerà per intero questo itinerario (questo sentiero, path = itinerario, sentiero - si ricordi Paths of glory) ed alla fine, dopo aver ucciso dirà "Vivo in un mondo di merda, ma sono vivo e non ho più paura".

Se in Path of glory (Orizzonti di gloria) c'era in qualche modo e pur con le ambiguità del caso una sostanziale differenza tra gli ufficiali, i  vertici dell'esercito e la truppa, vera carne da macello soggetta alle ambizioni di potere (del generale sfregiato e quasi infantilmente "cattivo, ma anche del  Capo di Stato Maggiore che lucidamente muove le pedine perché "doveva essere fatto", che è poi il vero rappresentante del Potere), in Full metal jacket non vi è nulla del genere: nessuno è innocente. Si pensi, già nella prima parte, alla vendetta contro Palla di lardo - che, fra l'altro è quello che prima degli altri apprende l'essenziale dal "trattamento" subito: la voglia di uccidere che lo porta ad incominciare la sua guerra prima degli altri.. Si pensi alla impossibilità di individuare dei "buoni".  "Meglio a te che a me" dirà cinicamente uno dei soldati commentando la morte di un compagno; ma poi quello stesso soldato sarà l'unico che tenterà di salvare dal cecchino nemico i compagni morenti. Non è un caso che Joker porti scritto sull'elmetto "Born to kill" insieme al simbolo della pace.

E' abbastanza interessante notare che la scena ritenuta più violenta (uno dei tagli subiti dal film nel passaggio televisivo), quella della morte di Palla di lardo, non sia una scena di guerra e riguardi invece, come in Paths of glory una sola delle due parti in guerra. L'incursione di K. nel genere bellico e nel sottogenere Vietnam ha anche questa particolarità: non si è trattato della peggior guerra (se non per gli USA, in quanto è l'unica perduta). La sua tipicità non è nell'inferno della giungla descritto dal cinema americano sul Vietnam (la battaglia cui assistiamo è urbana, contro un cecchino, come in qualsiasi guerra, sembra di vedere le immagini della Bosnia). E' ancora una volta, in K. , una guerra astratta, un gioco in cui è coinvolto su vasta scala l'uomo, ed è forse la sua stupidità la protagonista del film.  Si uccide nutriti di cultura media (midcult), come John Wayne. Quella stessa cultura media che ha trovato similitudini (nella povertà dei propri riferimenti culturali) tra la prima parte del film  e Ufficiale gentiluomo, laddove qui si costruisce un assassino perfetto in luogo di un amante-principe azzurro.

Un'ultima particolarità va ricordata. la battaglia urbana del la seconda parte è girata quasi in tempo reale. L'abilità di K. sta nel creare tensione e suspance senza lavorare sull'accorciamento temporale (la sorpresa determinata da un a restrizione del tempo filmico: il colpo improvviso) o sull'allungamento (la dilatazione del tempo è il meccanismo tipico della suspance).

 

Grido di libertà

di Richard Attenbourgh (USA, 1987)

Questo film narra la storia di Stephen Biko, attivista nero, che si contrapponeva al regime sudafricano dell'APARTHEID. Ma è anche la storia della speranza di un mondo migliore e più giusto, che coinvolge, nella lotta contro l'oppressore anche popoli e culture diverse.

Biko muore orrendamente nel 1977 dopo 45 giorni di torture inflittegli dalla polizia del regime sudafricano. Ma non muore, come non era morta nelle tragedie che fino ad allora e che fino al 1994 erano continuate a nome della superiorità  di una "razza" su un'altra, la speranza.

Il Sudafrica, indipendente ed unito dal 1910, è abi- tato da 37 milioni di abitanti, di cui 5 di bianchi e 27 di neri. Meta del colonialismo occidentale per centinaia di anni poiché ricco di materie prime e soprattutto di diamanti, il Sudafrica è stato guidato da una  minoranza bianca (boeri) dal 1940 con la "politica" della segregazione razziale. Denominata APARTHEID (letteralmente stato di separazione), la segregazione razziale poggiava su due fondamentali strumenti:  la legge sul censimento della popolazione, che classificava tutti gli africani in base alla razza e la legge sulle aree di gruppo (bantustan), dove i neri erano frazionati in homeland a seconda delle etnie oppure nelle township (sobborghi di grandi città).

Per 54 anni questo regime razzista ha potuto continuare a governare un intero paese. Ha creato un vero e proprio stato del terrore, dove i neri non solo non avrebbero mai potuto avere i più elementari diritti civili e politici (nessun nero ha mai avuto la cittadinanza sudafricana, ma solo quella del bantu- stan), erano sfruttati dal punto di vista economico e sociale.

Tutte le opposizoni al regime erano vietate. Viene messo al bando il comunismo, chiusi i maggiori partiti che si opponevano all'APARTHEID. Tra questi l'ANC (African National Congress) di Nelson Mandela, il quale verrà arrestato nel 1963.

Non si contano gli eccidi del governo. Tristemente si ricordano Soweto nel 1976 dove la polizia, in seguito ad una dimostrazione, sparò sulla folla uccidendo 575 persone e,  nel 1992, Boipotang dove l'esercito massacra 70 neri.

Dal 1966 il Sudafrica combatte una guerra di aggressione contro la Namibia e l'Angola. In questo ultimo paese la guerra si protrae fino ad oggi.

Ci son voluti 50 anni di disumanità per arrivare a rivedere il concetto di democrazia e convivenza all'interno dello stato sudafricano.

Nel febbraio 1990, quando oramai l'insostenibilità dell'APARTHEID, sostenuta dal 1985 dallo stato di emergenza con i militari per le strade, aveva provocato una vera e propria guerra civile,  il governo bianco accetta di avviare il processo delle riforme per una transizione alla democrazia.

I primi passi furono quelli di dare accesso ai neri a comuni servizi pubblici, spiagge, piscine, parchi, biblioteche. Tutto ciò era vietato ai 27 milioni di neri fin dal 1953.

Nell' aprile 1994 infatti si sono svolte le prime elezioni libere e vince il partito di Nelson Mandela (African National Congress) con il 63% dei voti. Presidente diventa proprio Mandela che era stato rimesso in libertà l'11/2/1990 dopo 27 anni di carcere, poiché oppositore del regime. Il 10/10/93 era stato premiato, insieme allo statista bianco De Klerk, con il premio Nobel per la pace.

Dal 1994 il paese è rinato. La speranza di un mondo di convivenza pacifica tra gli uomini oggi passa proprio per il Sudafrica, esempio di comprensione e non di vendetta. In questo senso la firma dell'abolizione della pena di morte, il 6/6/95, da parte del presidente Mandela, è un chiaro invito ai paesi che si ritengono da decenni democratici, a rispettare realmente i diritti umani

L'esempio che oggi viene dal Sudafrica vale tantissimo poiché viene dal continente africano oggi dimenticato e dilaniato da guerre d'aggressione e civili, povertà e fame, come forse mai era avvenuto fino ad oggi.

 

Il colore viola

di Steven Spielberg (USA, 1986)

Dopo il secondo Indiana Jones, S. sorprende tutti per la scelta di un film all-black (tutto nero, con soli attori afroamericani). Inoltre lo realizza in modo imprevedibile, date le sue abitudini, e cioè senza storyboard (nel cinema lo storyboard è la illustrazione con dei disegni delle varie inquadrature nella loro successione; questo modo di lavorare, che consente di pre-programmare con maggiore dettaglio la fase delle riprese - quindi riducendo i costi di lavorazione - fu introdotta in realtà quando ci si rese conto delle potenzialità del montaggio da Ejsenstejn e molto usata da Hitchcock sia per queste ragioni, sia per 'costruire' la composizione di ogni inquadratura - tutto quello che deve apparire sullo schermo, da quale angolazione deve essere visto ecc.). D'altra parte S. aveva già in passato dichiarato: "La pre-programmazione mi ha davvero molto aiutato nelle sequenze d'azione. Sono perduto se non programmo una sequenza d'azione, - prima nella mia mente, poi sulla carta, poi finalmente, nell'arco di settimane, nel film. Ma in altri casi programmo le scene in linea di massima e lascio che gli attori mi ispirino. Se si deve fare una scena emozionante, preferisco di gran lunga costruirla con gli attori, dire al cameraman e alla troupe di aspettare fuori. E poi cominciare a inquadrare dopo aver eseguito le prove. Lascio che gli attori si muovano dove si sentano di farlo. Ecco, qui entro io e in qualche modo coreografo l'azione. Nella terza fase arriva la macchina da presa e si gira". Si comprende dunque il perché ne Il colore viola, film di emozioni e di sentimenti e non d'azione, dove è molto più necessaria una interpretazione convincente degli attori, si preferiscano margini più ampi di libertà anche sul set alla logica e razionale pre-programmazione. Domina, invece, l'aspetto coreografico cui fa riferimento S. nella dichiarazione riportata, ed è per questo che il film è stato paragonato ad un musical, per quanto meno cantato e più spettacolare rispetto al musical tradizionale.

Il libro da cui è tratto il film era costruito sul linguaggio della protagonista, e specificatamente sul progressivo miglioramento del suo uso da parte della protagonista che scrive delle lettere a Dio mano a mano che ella acquista coscienza di se stessa come essere umano e come donna. Tutto questo nella pellicola non c'è. Il rischio che il film corre, nel non voler essere opera "sociale", ma di sentimenti e cioè nel suo mostrare personaggi particolarmente deboli e inermi vittime della brutalità dei prepotenti, è quello di accreditare la tesi che un nero misero e ignorante lo sia più di un bianco nelle stesse condizioni: il rischio, insomma, di un approccio emotivo, ma dalla morale discutibilmente prevenuta, nonostante l'onestà dell'autore (In questo senso si  comprende perché la comunità nera in genere abbia boicottato la pellicola). In realtà il  regista ha visto in Whoopi Goldberg la possibilità di creare un E.T. nero, cioè un alieno sovraccarico di umiltà e tenerezza. Le grandi emozioni sono tutte in scena, sempre: orgoglio, modestia, amore, sessualità, violenza, rimpianto ecc. , e tutte trovano corpo in questo o quel personaggio senza ambiguità o sfumature.

S. ha dunque proposto il suo E.T. nero, venandolo di suggestioni infantili a un punto tale che la scena di chiusura fra le due sorelle che giocano sullo sfondo di un sole troppo grande rimanda a un'età ritrovata dopo essere stata tenuta chiusa dentro per tanti anni. Le bambine d'un tempo si rincontrano da grandi, dopo la sofferenza c'è la tranquillità, la pace. Tuttavia, per quanto pieno di elementi da commedia, Il colore viola rimane un film di dolore: il senso di gruppo della comunità nera tocca il massimo livello nella scena dell'incontro fra i due gruppi, quello della chiesa e quello che giunge dal bar; il primo intona uno spiritual ("Il Signore vuol dirti qualcosa") per contrastare il rumore del blues che giunge da lì vicino, ed ecco allora che anche il gruppo laico intona lo stesso spiritual andandosi a congiungere ai fedeli. Il momento è forte e il suo significato evidente: le radici della cultura nera sono le stesse, laica o religiosa che essa sia: il blues è soltanto un'altra forma di lamento per la propria condizione di reietti, di infelici. Forse è per il senso di dolore che domina il film che S. ha deciso di fare un all-black: forse in nessun popolo come in quello del blues il dramma della razza si confonde con un'inesausta capacità di scherzare, ridere, gioire. In nessuno tranne che nel popolo ebraico, del quale proprio nei suoi spirituals quello nero afferma di sentirsi epigone e a cui per razza, guarda caso, appartiene Spielberg.

 

OTAR IOSELIANI

Storia di un regista scomodo

Ioseliani lamenta nei suoi film il progressivo imborghesimento dei suoi connazionali, l'aggressività-passività dei Russi, la commercializzazione della produzione cinematografica e, più latamente, la perdita nella vita delle cose di maggior valore, di quelle che la rendono vivibile e godibile: il disinteresse per il denaro, l'amore e l'amicizia, la libertà di gestire a proprio comodo le proprie giornate, la natura e la musica, le bevute in compagnia... Non è fatto, dunque, per entusiasmare i burocrati moscoviti (e neanche quelli georgiani) e si trova vieppiù isolato anche rispetto al suo pubblico privilegiato, quello dei connazionali, che cercano anch'essi dal cinema non l'espressione della propria cultura ma la sua folklorizzazione, e il dramma e la commedia, e i sentimento consolatori e falsificati.

Ha studiato musica a Tbilisi, sua città natale (1934), poi matematica e meccanica a Mosca, ma passando al VGIK per laurearvisi nel '61. Il suo saggio di diploma è un documentario d'ambiente georgiano, Cugun (La ghisa, 1964), che è singolare per il suo sguardo sulla fonderia così arguto e "diverso" dall'epopea del lavoro. Aveva, però, già girato nel '61 il suo primo film, Aprel' (Aprile), bloccato chissà perché dalla burocrazia. Per la delusione aveva abbandonato il cinema e si era fatto operaio e poi marinaio, ma al cinema e al lungometraggio era tornato con Listopad (La caduta delle foglie, 1966), il film che lo rivelò a Cannes, due anni dopo, alla critica occidentale. Nel 1971 si è affermato definitivamente con il satirico ed amaro Zil pevcij drozd (C'era una volta un merlo canterino), girato a Tblisi, in gran parte in ambienti reali. Considerato politicamente scomodo, Iosseliani ha avuto in effeti ben poche occasioni per rivelare al pubblico e alla critica il suo talento; nel 1976 ha girato Pastoral, rimasto però quasi sconosciuto. Pastoral è stato presentato da Ioseliani ai burocrati come "un film sulla psicologia dei piccolo-borghesi che ci ostacolano la vita nella nostra lotta per la costruzione di un uomo nuovo. E nessuno ha sorriso, turri erano serissimi e così mi hanno dato l'autorizzazione a girare".

Ha detto ancora Ioseliani "Non sono Dio né un demiurgo. Quel che voglio è fissare la mia felicità o la mia tenerezza ssullo schermo per trasmetterle agli altri. E' il solo atteggiamento che non sia aggressivo. Non vglio insegnare alla gente come deve vivere. Ciascuno è nato per bere il bicchiere della sua vita" E ancora "Ho scoperto le regole della mia arte: dev'essere come la vita. Credo che ricreare la realtà significhi conservare nella memoria qualcosa che ha molta importanza per se stessi e che si giudica necessario comunicare allo spettatore dialogando con lui".

 

La messa è finita

(Ita, 1985) di N. Moretti

SCHEDA TECNICA: Scenegg.  N.Moretti e S. Petraglia Dir.fot. F.Di Giacomo Musica N. Piovani Prod. Faso Film Durata originale 94'. Interpreti: N. Moretti (don Giulio), Margarita Lozano (sua madre), Ferruccio De Ceresa (suo padre), Enrica Maria Modugno (Valentina, sua sorella ), Marco Messeri (Saverio) Roberto Vezzosi (Cesare).

 

"Il prete - dichiara l'autore - è figura troppo spesso degradata a macchietta nel cinema di casa nostra". Si tratta in effetti di un personaggio complesso da mettere in scena.

In realtà. La messa è finita contiene molti elementi di contiunuità rispetto alle precedenti opere eppure costituisce una assoluta novità per il cinema di Moretti, ed anche nel personaggio di don Giulio troviamo appunto la novità di un prete - certo lontano dal Moretti/Apicella - che tuttavia mantiene i tratti caratteriali, le ossessioni e le manie di Michele Apicella, il protagonista di tutti i film di Moretti (con l'eccezione di Caro diario, dove è direttamente Moretti il protagonista).

Il film esce nel 1985, in piena era Craxiana ed appare in stridente contrasto con l'Italia spregiudicata e rampante di quegli anni, gli anni dell'esplosione della Borsa Valori, del referendum perduto sulla contingenza, dell'esplosione delle televisioni Berlusconiane, delle prime spinte verso il presidenzialismo (Craxi e MSI ne sono i principali assertori). Il film - che peraltro comincia con un ritorno a Roma, il centro, la madre traditrice anche se indubbiamente madre - è l'opera di un moralista, di un autore che non accetta una "libertà nel nulla" (cfr. Ghezzi), che pur straziato - in bilico tra la nostalgia di un'adolescenza felice o presunta tale e lo squallore e l'immaturità in cui si sgretola la famiglia - tenta di opporsi.

La posizione che così assume è scomoda, vorrebbe essere quella dell'osservatore che oggettivamente, un po' dall'alto aiuta gli altri e viene invece travolto dai suoi problemi (è quello che succede a Michele in Bianca, è costretto ad entrare in gioco e non può più solo guardare, giudicare guidare...). Il prete si trova nella difficoltà di voler dare aiuto ad una umanità che non lo desidera o che vuole solo l'assoluzione, mentre non trova aiuto quando lo cerca. Giulio, pur fallendo, come confessa, rifiuta una facile fuga (tornare al paese), e poi nel finale deciderà di sottoporsi ad una prova ancora più estrema, andando dove "il vento fa diventare pazzi" e la gente ha bisogno di un amico.

Una solitudine come questa trova non certo soluzione, ma almeno un momento di serenità nel momento di fusione tra rito e mito, nella messa "ballata" del finale. Nel rito della messa rivive il mito della famiglia: Saverio ed Astrid, ad esmpio, ballano dolcemente. La comunità sembra riunita nell'amore di fronte al sacrificio di Giulio che va in una terra sperduta e questo è almeno un indizio per proseguire il viaggio.

 

La mia generazione

di Wilm Labate (Italia 1996)

Ne La mia generazione compaiono due vere e proprie allegorie: quella di Braccio (Claudio Amendola), componente di una minoranza che con la forza intendeva far prevalere le propria idee e la propria concezione di “Stato”, e dall’altra quella di un capitano dei carabinieri (Silvio Orlando) componente di una maggioranza che nel 1983 - anno in cui è ambientato il film - era ormai vincente. Il film parla di quello scontro. Insomma Braccio, “il terrorismo”, e il capitano dei carabinieri, “lo Stato”, rappresentano questi due blocchi contrapposti.

L’aspetto interessante del film è forse l’onestà intellettuale che lo caratterizza, nel mettere lo Stato nelle mani di un personaggio davvero abominevole, sgradevole fino in fondo. Nonostante Silvio Orlando goda normalmente di grande simpatia, qui è trasformato in un personaggio viscido e odioso. D’altra parte il “cattivo”, Braccio, è un personaggio certo in crisi, ma non ha arroganza e non permette che gli si laceri l’anima in mille pezzi: è, in fondo, un personaggio forte, che non può accettare di essere un “pentito”, sebbene alla fine si dissoci dalla lotta armata smontando la pistola.

Altro aspetto interessante del film è nel fatto che sia quasi interamente girato su un blindato dei carabinieri che trasferisce il prigioniero. Si tratta di una sorta di “diligenza” che attraversa in lungo l’Italia, ma che in realtà attraversa più uno spazio temporale che uno spazio geografico. Questo grazie al lavoro con gli attori, che assumono “filologicamente” gli atteggiamenti e la postura dei personaggi dell’epoca - un’umanità diversa da quella di oggi - , ma anche perché il viaggio vuole essere anche una sorta di “spiegazione” storica di quello che è avvenuto in Italia.

Il film è probabilmente più debole di quanto ci si potesse aspettare da Wilma Labate, costretta per esigenze di produzione a diverse rinunce in cambio degli attori che desiderava (la Rai, ad esempio, ha impedito che il film fosse girato in bianco e nero) e risulta forse così più accessibile per un pubblico più numeroso.

 

La notte di San Lorenzo

di Paolo e Vittorio Taviani

Paolo e Vittorio Taviani otterranno con questo film il loro più grande successo. Fino a pochi anni prima erano stati seguaci del cinema politico, che si era affermato fortemente negli anni ‘70. In quella loro esperienza avevano affrontato il tema della Rivoluzione e delle sue prospettive, in particolare in una società a capitalismo avanzato come l’Italia. La loro ricerca («I nostri film sono fatti per un pubblico che cerca») era stata comunque sempre incentrata sul tentativo di trovare una sintesi tra gli ideali rivoluzionari, socialisti e marxisti, e la soggettività: tra il bisogno di un agire collettivo e la ricchezza dell’individuo che vuole restare insieme agli altri.

La Notte di San Lorenzo è un film della memoria. Esso racconta - nel 1982 - del travagliato 1944, in attesa della liberazione dai tedeschi ad opera degli americani, nel paesino d’origine dei due autori. Al di là della notazione biografica, va sottolineato come la memoria della Storia sia proposta attraverso una storia - mitizzata e forse reinventata, ma «vera», come alla fine dice la protagonista - così come la ricorda una donna che all’epoca dei fatti aveva solo sei anni. È dunque il ricordo che una donna di oggi fa di una sua esperienza infantile che permette il sopravvivere della memoria storica.

Il desiderio cui allude il titolo, che evoca la notte delle stelle cadenti, è chiarito immediatamente: «Sai qual è il mio desiderio, amore mio? Il mio desiderio, questa notte, è quello di trovare le parole per raccontare un’altra notte di S.Lorenzo di tanti anni fa». Trovare le parole migliori per raccontare, dunque. Infatti non si tratta di raccontare solo una storia o La Storia, si tratta di descrivere le emozioni degli uomini e delle donne, di spiegare che cosa significavano quegli eventi nel momento in cui i personaggi li vivevano. Sarebbe impossibile e ipocrita voler raccontare «oggettivamente». In questo senso appare sempre evidente, in tutto il film, la posizione morale degli autori.

Bisogna aggiungere che il film non rivela, se non nell’ultima sequenza, chi sia il destinatario del racconto della protagonista, ma scopriremo che il destinatario principale è la narratrice stessa, la quale non vuole dunque solo raccontare, bensì affermare la propria identità: la donna che racconta anche a se stessa, definisce chi è. Dunque non solo film della memoria, ma anche film sulla memoria, sulla sua necessità per l’individuo che voglia affermare la propria identità, la propria storia, il proprio vissuto.

Il quadro che il film ci presenta, attraverso il lungo flashback in cui è racchiuso il racconto, ha, sostanzialmente, un unico protagonista: il popolo. Si tratta infatti di un affresco dell’Italia contadina e popolare dell’epoca (si pensi all’episodio iniziale del matrimonio, alla pipì che la ragazza fa - compiaciuta - davanti all’eccitazione dei bambini nel rifugio, alla cultura contadina della «roba», ricordata dalle valige con i vestiti che si portano dietro, alla sessualità - così calorosa e importante in queste vite, vissuta con autenticità). Le persone del popolo sono sempre capaci di reagire, anche ai colpi più drammatici, e vivono con l’imperativo «s’ha il dovere di sopravvivere», enunciato nel frugale ma festoso matrimonio iniziale da un prete popolano (contrapposto al vescovo, che invece, nel voler salvare anime e non vite, determina la catastrofe del duomo).

Nella voce fuori campo della donna che racconta, nel suo italiano elegante, nella poeticità del suo ricordare, scopriamo le trasformazioni che quest’Italia ha vissuto. La bambina figlia di contadini è cresciuta in una donna colta, che ha però bisogno, per definire se stessa, di ricordare.

 

La paura mangia l'anima

di R.W.Fassbinder  (Ger. 1973)

Un primo riferimento ad Angst essen Seele auf (La paura mangia l'anima) è contenuto in un precedente film di Fassbinder, Der amerikanische Soldat (Il soldato americano, 1970); lì, infatti una cameriera (Margarethe von Trotta) racconta, ma con finale diverso, la storia che costituirà il soggetto di La paura mangia l'anima: "Esser felici non è sempre un piacere....c'era ad Amburgo una donna delle pulizie che si  chiamava Emmi. Una sera, rientrando, fu colta dalla pioggia; allora entrò in un caffè, normalmente frequentato da immigrati. Si siede ed ordina una Coca. D'improvviso un uomo la invita a ballare. Lui è grande e forte e ha due spalle robuste. Lei lo trova bello e danza insieme a lui. Poi si siedono sul tavolo e parlano. E lui le diche che non ha un posto dove andare. Così lei gli dice di andare a dormire a casa sua. Sì, e a casa dormono insieme e qualche giorno più tardi lei dice che dovrebbero sposarsi. Allora si sposano ed Emmi si ritrova di colpo giovane. Vista di spalle le si sarebbero dati trent'anni. E per sei mesi furono pazzamente felici".

Fin qui il racconto della cameriera coincide con la storia del film, il seguito differisce profondamente. Margarete von Trotta raccontava ancora del ritrovamento del cadavere di Emmi, assassinata; segni sul collo indicavano che l'uccisore portava un anello-sigillo con incisa una "A". Il marito, che si chiamava Alì, fu arrestato. Ma la polizia scoprì che egli aveva un numero infinito di amici che si chiamavano Alì e che tutti portavano un anello uguale. Allora furono interrogati tutti i turchi di Amburgo, che però non capivano una parola di tedesco. Così la polizia non sapeva che pesci pigliare. In questo modo si spiegano i vari titoli con cui questo film è stato conosciuto in Italia. Quando il Goethe  Institut lo mise in circolazione si intitolava Tutti gli altri si chiamavano Alì. Successivamente, al film fu restituito il suo bellissimo titolo originale La paura mangia l'anima (la traduzione non rende esattamente lo sgrammaticato tedesco di Alì, per cui il titolo dovrebbe essere effettivamente Paura divorare anima).

La storia di La paura mangia l'anima prosegue invece descrivendo le difficoltà che Alì ed Emmi  trovano nel farsi accettare dalla società: i tre figli di Emmi la rinnegano schifati; il droghiere le vieta l'ingresso nel suo negozio; le colleghe di lavoro la ignorano disgustate. Ma, dopo un viaggio all'estero, tutto cambia: i figli hanno bisogno della madre perché tenga i nipoti; il droghiere pensa cxhe i supermercati gli fanno una dura concorrenza; colleghe e vicine cominciano ad invidiare ad Emmi un marito così giovane e gentile.

Nel momento in cui vengono ufficialmente riconosciuti, Emmi diventa però possessiva nei confronti di Alì. I due si lasciano e si cercano riconoscendo infine il bisogno che hanno della reciproca presenza, una presenza che li mette al sicuro da un destino che potrebbe anche essere chiamato "sfruttamento".

Questo è uno dei film più immediati di Fassbinder, non perché facile e scontato, me per come espone con chiarezza e sensibilità verità semplici ed essenziali. Il regista sfrutta sapientemente il pathos della rivolta iniziale degli emarginati attraverso l'inevitabile identificazione del pubblico con la storia dei protagonisti e con quella che nel film passa come la "causa giusta". Ma il regista sa anche che la realtà non è fatta di buoni e cattivi. L'ambiente sociale di Emmi si rivela abbastanza elastico da integrare la loro diversità (anche se solo per interesse). Emmi, tuttavia, sgretola l'affetto di Alì per lei, non comprendendone la diversità. E senza rispetto non si dà amore. Altri Alì ed altre Emmi compaiono un gradino sotto la loro condizione: un'affermazione, questa, da prendere alla lettera, se pensiamo alla sequenza in cui Emmi si ritrova a spettegolare sulle scale con le colleghe sul licenziamento di una di loro, mentre la sostituta, una giovane yugoslava, è ignorata e costretta a consumare la colazione al piano inferiore. La paura mangia l'anima è un buon esempio in cui Fassbinder tratta il personaggio del "diverso". Il suo approccio non è né morboso, né "poetico" (come è, ad esempio, quello di Herzog): è umano  e sincero.

"Ogni volta che due persone si incontrano e stabiliscono una relazione si tratta di vedere che domina l'altro (..). La gente non ha imparato ad amare. Il prerequisito per poter amare senza dominare l'altro è che il tuo corpo impari, dal momento in cui abbandona il ventre della madre, che può morire. Quando si accetta il fatto che la morte è una parte della vita, non la si teme più e non si ha più paura di qualsiasi altra "fine"; ma finché si vive con la paura della morte, si reagisce in modo identico rispetto alla fine di una relazione e, come risultato, l'amore che pure esiste viene pervertito". (R.W. Fassbinder)

 

La ricotta

di P.P.Pasolini (ITA, 1963 - 20')

Con questo film, che segue Accattone e Mamma Roma, Pasolini offre una grottesca sacra rappresentazione, apparentemente incline al divertissement d'autore, che sintetizza invece con grande maestria intellettuale la sua attuale idea "politica" di cinema - di presa di posizione nei confronti del proprio ruolo di intellettuale antiborghese - gettando le basi del suo cinema a venire. Nonostante il film presenti una struttura piuttosto lineare, da comica chapliniana, mai come qui la sintesi tra il grottesco temperamento autoironico di questi "nuovi martiri" senza santità e la loro tragedia inesorabile fa emergere con chiarezza l'ispirazione pasoliniana, in bilico tra un sentimento paleocristiano della religione come cosa viva e quotidiana e gli ultimi effetti della teoria di Gramsci di cui P. aveva cantato le "Ceneri" qualche anno prima. Il film narra della storia di un film da girarsi sulla vita di Cristo, e in questo gioco di specchi tra i due piani di finzione, sottolineato dal bianco e nerousato per il grigiore "reale" del set in contrasto con il colore "del film", le cui scene si ispirano all'iconografia manieristica (la Deposizione del Cristo di Rosso Fiorentino e quella del Pontormo), intaglia una sottile opera semiseria, permeata da un profondo senso di ritorno a quell'infanzia perenne dei "poveri di spirito" di cui P. per tutta la vita si è fatto apostolo.

"Stracci è un personaggio più meccanico di Accattone, perché sono io - e si vede - che aziono i fili. E lo si nota con esattezza nella costante autoironia. Ecco perché stracci è un personaggio meno poetico di Accattone. Ma è però èiù significativo, più generalizzato. La crisi di cui il film testimonia non è la mia, ma è la crisi di un certo modo di vedere i problemi della società italiana (..). Stracci non è più un e del sottoproletariato romano in quanto problema specifico, ma è l'eroe simbolico del Terzo Mondo".

Il regista interpretato da Orson Welles - che recitò in italiano - rappresenta, invece , oltre all'arguzia antiborghese, anche la profonda contaminazione che l'intellettualità marxista dell'epoca stava subendo, nel suo lento processo di integrazione e identificazione, dalla stessa intellettualità borghese. Si tratta di "una specie di caricatura di me stesso andato oltre certi limiti e visto come se, per un processo di inaridimento interiore, fossi diventato un ex - comunista".

Ne La ricotta, dunque, emerge la profonda mutazione, nel senso di una compenetrazione contraddittoria e confusa di tutte le classi che la costituiscono, della società italiana. Il corteo di giornalisti e produttori che si avvia verso l'enorme buffet apparecchiato proprio ai piedi delle tre croci, stigmatizza in pochi secondi lo spirito superficiale e consumistico che anima il senso religioso borghese, contro il quale P. di lì a poco realizzerà il suo Vangelo.

 

La storia di Qiu Ju

di Zhang Yi Mou, (Cina, 1992)

Il film è il racconto di una storia molto semplice nel suo svolgimento: la protagonista, Qiu Ju (Gong Li) è una contadina che testardamente esige le dovute scuse dal capo del villaggio che ha colpito suo marito con un calcio al basso ventre. Per ottenerle deve seguire un lungo iter burocratico.

La vicenda è ambientata nella Cina rurale ed il regista utilizza un cast  composto per il novanta per cento da attori non professionisti, veri contadini della provincia dello Shanxi. Il film presenta quasi un tono documentaristico a causa di uno spiccato realismo descrittivo e ci offre uno spaccato anche del contrasto tra campagna e città, oltre alla descrizione precisa della vita quotidiana di un villaggio cinese, delle relazioni sociali che vi intercorrono.

Qiu Ju è la donna che rivendica la sua individualità e i suoi diritti, e che non si adegua al rispetto tradizionale verso il capo e l'ordine costituito. Come spiega lo stesso Zhang Yi Mou: "nella storia di Qiu Ju non è importante il litigio, chi abbia ragione o no, e neppure che la legge sia davvero imparziale. E' importante la volontà della donna, il suo carattere, il suo modo di pensare che una volta in Cina non esisteva". Ed infatti il ruolo di Qiu Ju gode di una centralità che le è riconosciuta dalla stessa comunità di appartenenza, a differenza di quanto avveniva nel precedente film di Zhang Yi Mou, Lanterne Rosse, in cui la protagonista è una concubina che rifiuta il ruolo subordinato socialmente assegnatole: il conflitto con la figura maschile del marito, che rappresenta l'immutabilità della tradizione e del potere, è destinato ad una drammatica sconfitta.  

Nella vicenda di Qiu Ju si percepisce la distanza tra le dinamiche interpersonali interne alla comunità e il potere burocratico, assolutamente spersonalizzato e spersonalizzante: la ricomposizione del rapporto tra Qiu Ju e il capo del villaggio non avviene attraverso il ricorso ad un potere superiore e lontano, ma si realizza sul piano delle relazioni personali dei protagonisti della storia.

 

Lamerica

di Gianni Amelio (1991)

Lamerica è il primo film di Gianni Amelio che fonde la coralità di un evento storico -il crollo del socialismo reale in un piccolo paese come l'Albania - e l'analisi di un conflitto personalizzato.

Film a doppio binario, Lamerica ritesse il motivo del viaggio, presente in Il ladro di bambini (e in molti film del neorealismo italiano), nonché quello della presa in custodia di un individuo verso il quale, in principio, non si ha nemmeno un po' di curiosità.Qui si realizza l'intuizione che accoppia due opposti smarrimenti, prodotti da quella terribile guerra che è la vita e la storia degli uomini: il reduce traumatizzato dalla interminabile permanenza nelle prigioni e nei lager staliniani, l'ex soldato che nella mente sconvolta è rimasto fermo a mezzo secolo fa, e il braccio destro di un affarista cinico, il servitore compiacente e convinto di un'ideologia che antepona a ogni regola etica e morale il profitto, da raggiungere a testa bassa, al di fuori di ogni legge e controllo, indefferenti al prossimo.

Queste due figure,  quella di Spiro (Carmelo Di Mazzarelli) e quella di Gino (Enrico Lo Verso), che avrebbero potuto risultare astratte e intellettualistiche, grazie all'abilità del regista diventano due esseri provvisti di umanità e di accenti dolorosi. Se un segno Lamerica lo incide, questo lo si intercetta proprio nei momenti in cui la macchina da presa abbandona i campi ariosi per stringersi intorno a Lo Verso e a Di Mazzarelli, ritagliandoli dall'abbondante e frastornante contorno. Incontriamo, in Lamerica, un paesaggista che agli esterni dei suoi film chiede di esprimere le spine e le lacerazioni dell'interiorità. I panorami albanesi, che rammentano il nostro meridione povero del periodo fascista e postbellico, si prestano alla bisogna, brulli, aspri, pietrosi. E hanno nello squallore delle cornici urbane o paesane una sorta di prolungamento, il simbolo di una provincia arretrata e di una economia striminzita, l'emblema di una società autosegragatasi dal consorzio mondiale e sottoposta a un regime coercitivo irrirato da ondate di fanatismo ideologico e da censure di ogni specie. Questa società per la prima volta assapora avidamente la libertà di comunicare e, captando le stazioni televisive italiane, si immagina un'Italia terra dei bagordi, un'America a tiro di schioppo, dispensatrice generosa di benessere, raggiungibile facilmente, avendo con sé soltanto il vestito che si indossa.

 

L'amore molesto

di M.Martone

Un primo aspetto interessante nell'analizzare i film di Martone (Morte di un matematico napoletano e L'amore molesto) è il fatto che pur essendo entrambi i film basati sulla vita e sui sentimenti più intimi ed a volte reconditi di personaggi che da un punto di vista cinematografico sono molto ben sviluppati, tanto che nel passaggio dal teatro al cinema del regista si è giustamente individuata una continuità nel suo tentativo di tracciare una "drammaturgia del pensiero", pur essendo dunque un regista che ha fatto questa scelta di fondo, le sue parole per descrivere entrambi i film sono innanzitutto riferite alla città di Napoli: "In Morte di... c'era la Napoli della testa, ne L'amore molesto c'è la Napoli del corpo".

Il rapporto con la città è dunque un elemento essenziale dei film di Martone. Se in Morte di ... c'era una Napoli in cui dominava una luce giallastra che era insieme il conforto del sole ed il pallore polveroso della malattia, ne L'amore molesto Martone mostra la visceralità della città attraverso un intreccio profondo e inquietante, una città stridente, misteriosa, soffocante  eppure solare, torbida, in cui anche i sensi ed i sentimenti dei personaggi sono continuamente segnati dalla città in cui si vive, la metropoli caotica e a volte spaventosa con la sua inscindibile umanità. Una città di ambiguità, doppiezze, in cui colpa e innocenza si mescolano continuamente, che è un'altro personaggio.

L'amore molesto è un film che racconta la corporeità di una Napoli che è quella di Angela Luce vitale e bacchica nella decadenza e quella riacquistata da Delia con fatica, attraverso l'emergere dell'inconscio, entrambe continuamente al cospetto della sensualità vorace e instancabile di una fauna urbana che nel non essere solo uno sfondo costituisce quell'impasto tra i personaggi, la città, la sua cultura che da al film la forza di lasciare il segno. In questa prospettiva è ancora più forte l'effetto del mescolarsi continuo tra vecchio e nuovo dell'esistenza comune di madre e figlia, la circolarità della vita delle due donne, il parallelo ed inverso andamento delle due trame, le colpe e le innocenze reciproche che innescano una sorta di gioco della verità.

 

L'articolo 2

di M.Zaccaro (1991)

«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» così recita l'articolo 2 della Costituzione Italiana.

Così si intitola anche il film di Zaccaro che narra la storia di una famiglia algerina immigrata in Italia.

La violazione dei diritti umani, a cui il titolo sembra rimandare, non esaurisce completamente la sostanza del film. Anzi sembra un pretesto per ribadire un evento antropologicamente devastante che è l'immigrazione di popolazioni impoverite e "traumatizzate" dalla rappresentazione del progresso.

La sofferenza di un domani avvolto dalla nebbia della rincorsa di un minimo di sostentamento in una società diversa e sicuramente poco accogliente, traspare in tutti i protagonisti immigrati del film. Anche e soprattutto attraverso i movimenti, gli sguardi, le riflessioni dei bambini passa una immagine, oltre che  di tenerezza, di generale difficoltà a essere felici nella "terra promessa".

La poesia che il film trasmette va oltre il racconto della storia e sottolinea nel montaggio, nella recitazione, nella fotografia, il suo intento di critica a un modello di società, quella occidentale, molto poco disponibile a essere una cultura tra le altre culture, anzi. Un film che non disdegna di essere un tentativo di documentazione antropologica della realtà dei nostri tempi attraverso lo sforzo di far ridiventare le immagini cinematografiche, nella loro composizione, quello che sono: immagini parziali per un messaggio ideologico.

 

Libera

di P.Corsicato

Un crocifisso lascia il passo ad una antenna televisiva che ne richiama la forma a croce, una donna distesa e interamente ricoperta da una maschera di fango si trasforma in una donna vestita di bianco evocando la nascita di una nuova specie umana - destinata a subire sulla propria pelle tutta la irrealtà e la fragilità di cui vive. Al termine della giornata di una vita che permette il successo solo a chi sia disposto, letteralmente, a vendere la propria intimità, una donna si strucca, toglie la maschera e la rimette al suo posto - la tazza del cesso. Queste sequenze sono rispettivamente l'inizio e la fine del primo lungometraggio di Pappi Corsicato, costruito come un film ad episodi - tre storie di donne :Aurora, Carmela, Libera - che come è facile capire in realtà tracciano un quadro unitario.

L'idea della trasformazione, della nuova nascita a cui si è continuamente costretti è una delle idee centrali del film, ed è sviluppata attraverso un percorso che segue una linea che in fondo è abbastanza evidente. Nel primo episodio lo stravolgimento metaforicamente espresso delle prime immagini - di cui si è già detto - ha prodotto una vita che non può che subire passivamente il processo di trasformazione della propria esistenza. La donna tanto elogiata dal prete perché ha rinunciato all'amore per preferire il denaro, più sicuro, pagherà caro persino il tentativo di recuperare i vecchi buoni sentimenti. La trasformazione dell'episodio centrale, quella intimamente voluta e prodotta dalla stessa protagonista madre-padre, in quanto autenticamente desiderata contro tutto e tutti non può che produrre disastri. L'ultima trasformazione esistenziale, quella di cui è protagonista Libera, costituisce l'esempio di un processo di adattamento, omologazione e perdita della propria identità - la progressiva perdita di libertà di Libera e la repressione della propria sessualità - a cui la protagonista giunge non senza consapevolezza, per quanto il meccanismo che si determina non preveda cedimenti di sorta. E' per questo che il suo atteggiamento verso il marito esausto è professionale, cinico, produttivista nella sua apparente amabilità - "fammi fare bella figura" dice mandandogli un bacio - e si contrappone alla scena finale in cui, sola e davanti allo specchio, può permettersi di togliere la maschera e metterla al suo posto. L'immagine del water tra l'altro ritorna due volte in questo episodio: della seconda si è già detto; la prima volta invece è quella in cui una lacrima di Libera - ancora incapace di "integrarsi" - finisce metaforicamente nel water. In qualche modo la fine a cui si è destinati piangendosi addosso o omologandosi - sembra suggerire Corsicato - è la stessa, anche se il tono surreale ed ironico a cui ricorre il film rende meno spietato e un po' annacquato il messaggio.

 

L'ironia della sorte

di El'dar Rjazanov

Il film L'ironia della sorte (1975) è innanzitutto un film sovietico. E non soltanto perchè l'azione si svolge tra le due principali città russe, Mosca e Leningrado (oggi San Pietroburgo). Che si tratti di un film "tipicamente" e "caratterialmente" sovietico lo dimostra il fatto che, a partire dal '75, anno dell'uscita del film, ogni 31 Dicembre esso veniva trasmesso dalla televisione sovietica. Il prologo all'inizio del film non dà semplicemente l'argomento, non è una facile premessa a un film comico e divertente, esso ha una valenza tutta politica e, a nostro giudizio critica, nei riguardi di un sistema chiaramente definito: quello sovietico. Anche se poi, ci viene da pensare, che, in assenza di quel sistema, la sequenza continua di equivoci e slanci emotivi che caratterizza la struttura dialogata del film e la sua storia,  e certamente tutta la vita russa, sarebbe un po' meno poetica e meno comica. La sovieticità del film non è solo nei luoghi in cui l'azione si colloca, le periferie delle grandi città dove al posto dei coloriti villagi sono sorti i famosi palazzoni grigi noti in tutto il mondo o gli appartamenti a due stanze di 32 metri quadri con mobili polacchi. C'è molto di sovietico nello sfortunato protagonista Zenia, ancora celibe all'età di 36 anni (non dimentichiamo che solitamente il matrimonio avveniva molto prima), un chirurgo con compiti  difficili ma poco riconosciuti, almeno economicamente, al quale si nega la possibilità di avere "opinioni proprie". E senza dubbio è tutto sovietico il rito della sauna ( e della vodka naturalmente), un vero "rito solenne", come afferma Miska, anche se non mancano i richiami al democratico mondo occidentale rappresentato dal regalo di Ippolit a Nadia: un "vero" profumo francese! Un film molto ironico, dunque, che raggiunge in alcune scene una comicità ancora tutta sovietica. L' ironia è nel linguaggio e questo forse rappresenta un limite specie per chi, come voi, non potendo coglierla pienamente dovrà accontentarsi di una traduzione in simultanea pressochè neutra, ma sentita. Ecco allora qual è il nostro invito: un invito alla sottoscrizione. Di cosa? Sottoscrivete per un corso di lingua russa, a pagamento naturalmente !!!

 

Lisbon story

(Ger, 1994) di Win Wenders

All'indomani di Così lontano, così vicino!, forse per scrollarsi di dosso l'etichetta di regista "filosofico" guadagnata con gli ultimi film , Wenders manifesta in più occasioni il desiserio di cimentarsi con i toni leggeri della commedia.

Lisbon story nasce come film su commissione. E' Paulo Branco, il produttore più illuminato del cinema portoghese, a proporre a Wnders, nell'ambito delle iniziative "Lisboa '94", la realizzazione di un documentario sulla città lusitana scelta come capitale europea della cultura. CI sarebbero tutte le premesse per un reportage modello Tokyo-ga. Ed invece il regista tedesco, sempre pronto a trasformare in spunti narrativi le suggestioni ambientali, opta per la finzione: non un documentario su Lisbona, dunque, ma la storia di qualcuno impegnato su Lisbona.

Sono molti gli elementi che legano Lisbon story a Lo stato delle cose. Innanzitutto l'ambientazione portoghese: lì la spiaggia di Sintra, qui Lisbona, peraltro già attraversata velocemente dai personaggi di Fino alla fine del mondo e adesso autentica protagonista del film, terza città decisiva nell'immaginario wendersiano dopo Berlino e Tokyo. Quindi l'aspetto narrativo: al centro di entrambi, infatti, c'è la storia della realizzazione di un film condita da una misteriosa scomparsa (lì il produttore, qui il regista). Infine, e soprattutto, i due film propongono perfettamente inserita nelle pieghe del raccono, una riflessione sul mezzo cinematografico, l'istituzione di una contrapposizione teorica destinata ad esplicitarsi attraverrso una resa dei conti finali tra due personaggi. Se il confronto, nel film del 1982, era tra due diverse concezioni del cinema (europea e americana), la posta in gioco in quest'ultimo, è la sopravvivenza stessa del cinema, la sua ragion d'essere di fronte alle nuove frontiere inaugurate dal mezzo elettronico. Come il Wenders teorico degli ultimi tempi, Fridrich non crede più nelle immagini: troppo inflazionate per poter ancora aderire al reale, troppo mercificate per riuscire a raccontare la verità. Ma la tesi del personaggio è insostenibile. Non l'annullamento del proprio punto di vista occorre per ritrovare immagini indispensabili, bensì proprio l'opposto: l'assunzione di una responsabilità, l'affermazione del proprio ruolo di autore. E' un sicnero atto di fiducia nel cinema, linguaggio di immagini e suoni, quello che Wenders ci consegna pertanto con Lison story. A testimoniarlo basta una sola sequenza: quella del bivacco del cow-boy simulato da Phillip con gli effetti sonori, per il suo valore di omaggio alle potenzialità evocative del mezzo audiovisivo. E nanaturalmente, per stessa ammissione dell'autore, Lisbon story non può non costituire il personale omaggio di Wenders al Centenario del cinema. Il modo scelto dal regista tedesco è quello di guardare all'indietro, alle sue origini. Attraverso le immagini accelerate girate da Friedrich e, soprattutto, come accennato all'inizio, attraverso espliciti riferimenti alle comiche del muto, all'univeerso magico e irripetibile di Chaplin e Keaton: dal personaggio di Phillip, buffo e maldestro nel suo rapporto con gli uomini e con le cose, all'imitazione di Charlot compiuta, nel suo straordinario cammeo di Manoel de Oliveira.

 

Lo sguardo di Ulisse

di Theo Angelopulos (Grecia, 1995)

Torna forse "di moda", nei frammenti che l'informazione dedica oggi al Kosovo, tutto quel cinema dei (e sui) Balcani che ebbe un minimo di attenzione durante la guerra della ex-Jugoslavia. Tutto quel cinema (si pensi anche ad Underground di Kusturicka o a Prima della pioggia di Manchevsky) tentava con difficoltà di raccontare i Balcani e la guerra senza cadere nella brutale semplificazione dei media, ansiosi, come se si trattasse di un western, di identificare i buoni e i cattivi senza complicazioni, senza analisi storiche, cancellando memoria.

Il film di Anghelopulos, tradisce indubbiamente un imbarazzo: come spiegare la furia omicida che travolge i Balcani? Lo sguardo di Ulisse è la ricerca di uno sguardo "innocente" su quel mondo, attraverso la ricerca di alcuni rulli di pellicola girata all'inizio del secolo che potrebbero contenere, appunto, il primo sguardo che il cinema ha posto sui Balcani. Il lungo viaggio alla ricerca di quello sguardo, di quella pellicola, porterà, inevitabilmente, a Saraievo: solo andando nel luogo più dilaniato può avere senso la riscoperta di quella innocenza. Il film, girato in Grecia, Macedonia, Romania e Bosnia (le scene ambientate a Saraievo, girate a Mostar e Vukovar ci mostrano due città anche più dilaniate della stessa capitale), può benissimo essere considerato un fallimento, una sconfitta: quella realtà sfugge al sistema di pensiero che ha alimentato il cinema. Nella nebbia di Saraievo il cinema è impotente, non riesce più a mostrare quello che avviene, può solo raccontare l'orrore e il dolore ed appellarsi all'uomo, alla Storia, al mito, per ritrovare il filo perduto.

In una intervista su Lo sguardo di Ulisse Angelopulos spiegava: «I Balcani sono una metafora non solo di tutta l'Europa, ma di tutto il mondo. Basta vedere quello che succede nell'ex URSS, in Africa Orientale e altrove. In questo senso, Saraievo è effettivamente un simbolo. Ecco perché non mi disturba il fatto di non avervi potuto girare le scene previste: il nostro aereo non ha potuto atterrare perché quello precedente era stato mitragliato. Le abbiamo girate a Mostar e a Vukovar, che sono ancora più distrutte di Saraievo e dove si vedeva meglio quello che volevo dimostrare: che ogni semplificazione è menzognera. Non c'è ideologia nella guerra civile che si combatte nella ex Juogoslavia; è una guerra cinica, dove le popolazioni sono ostaggio delle grandi potenze. La storia dell'inizio del secolo permetteva di prevedere la tragedia attuale, ma nessuno ne ha tenuto conto. Ho solo cercato di ricordarlo. (...) Ho cercato di viaggiare come facevano i fratelli Manakis all'epoca dell'impero ottomano. Allora non c'erano frontiere, e a mia volta ho voluto fare come se i Balcani fossero un unico paese. (...) Sotto l'impero ottomano, le influenze circolavano fra le diverse comunità»

 

Lotte in Italia

di J.L.Godard (ITA, 1969 - 55')

Il film fu commissionato dalla Rai e in seguito rifiutato e portato a termine con un produttore privato.In esso Godard, dopo le ultime esperienze, la nozione di racconto e di personaggio : riguarda , infatti, il processo di trasformazione di una  ragazza borghese, militante di un gruppo extraparlamentare ma ancora legata all'ideologia della sua classe d'origine. Eppure è soprattutto un film teorico, che si interroga sui rapporti fra film, rappresentazione, ideologia.

Il film è diviso in tre parti: la prima mostra varie fasi della vita di Paola, fra una sequenza e l'altra vi sono tratti abbastanza lunghi di schermo completamente nero.  Nella seconda parte gli spazi neri (che sono l'ideologia - nel senso marxiano e negativo del termine  - e cioè un rapporto immaginario con la realtà) saranno sostituiti per considerare la propria esistenza come un tutto e non nella forma parcellizzata delle varie fasi della propria giornata. Nella terza parte, infine, ricomincia da capo riprendendo le immagini già utilizzate inserendole in nuove catene, non più interrotte da spazi neri, ma intervallate da inquadrature di fabbriche, lavoro, operai, cioè inquadrature di rapporti di produzione. Nessun discorso si può fare insomma prescindendo dalla realtà dell'organizzazione del lavoro, dei rapporti di produzione.  Così uno dei film più teorici di tutta la Storia del cinema è anche uno dei film più militanti. Il film, che conclude la più che decennale ricerca di G. tesa all'esibizione del lavoro cinematografico, nel momento in cui raggiunge il suo risultato più geniale ed esemplare (poiché si presenta come produttività ininterrotta al di fuori dalle leggi della rappresentazione e dello scambio significante), scopre anche il relativo disinteresse di questa operazione, chiede di essere giudicato secondo altri parametri: "Noi non cerchiamo forme nuove, cerchiamo rapporti nuovi. Ciò consiste innanzitutto nel distruggere i vecchi rapporti, anche solo sul piano formale, poi nel rendersi conto che se li si è distrutti sul piano formale è perché questa forma veniva da certe condizioni sociali di esistenza e di lavoro comune che implicano lotte di contrari, dunque un lavoro politico"

 

Malcom X

di Spike Lee

A Spike Lee riesce l'impresa - con non poche difficoltà di ordine economico - che per anni era stata progettata nelle comunità nere americane: la realizzazione di un film sul grande leader nero. Rispetto ad altri progetti analoghi, che erano giunti fino alla stesura delle sceneggiature, si notano immediatamente una serie di differenze: il massiccio investimento di risorse finanziarie (40 milioni di dollari!) e una campagna pubblicitaria imponente (con la vendita dei gadget con la X in tutto il mondo). Ed inoltre una serie di "trasposizioni" delle frasi di Malcom X, preferite alle citazioni letterali. Da queste premesse il rischio di una manipolazione era grande e non sembra affatto fugato dopo la visione del film.

Infatti l'ultimo Malcom X, dopo l'abbandono della Nation of Islam rappresenta una novità assoluta nella comunità afro-americana. I temi principali diventano per il leader nero quelli della prospettiva antimperialista, dell'identificazione degli oppressori, ovvero delle "strutture del potere" a livello internazionale (siamo nel momento della crisi del colonialismo), e tornano sorprendentemante attuali anche i temi delle nuove migrazioni internazionali dall'Africa e dall'Asia verso i paesi industrializzati, la preoccupazione delle nascenti alleanze del neocolonialismo bianco con le élites dirigenti dei paesi africani di nuova indipendenza.

Altra novità, inoltre, consiste nell'avvicinamento ad alcuni tratti della tradizione socialista, con lo spostamento di accento dalla militanza in nome del colore della pelle al radicalismo politico contro ogni forma di sfruttamento e discriminazione (anni dopo saranno le Black Panthers a gridare "Fidel Castro è nero!, Mao è nero!, i Vietcong sono neri!"). L'agitazione simultanea di questi due obiettivi è un'impresa quasi impossibile nei ghetti statunitensi negli anni sessanta- ma a vedere il film di Lee questo sembra inconcepibile anche oggi: la solidarietà tra le vittime del razzismo cancella le differenze sociali e respinge la lotta di classe titpica del movimento operaio perché questa allenta la coesione etnica; e a sua volta la lotta di classe del movimento operaio ignora solitamente la discriminazione razziale. Malcom X riesce ad individuare un programma politico che riduce ad un minimo storico, almeno in questo secolo, il conflitto tra solidarietà dei discriminati e solidarietà degli sfruttati. Queste linee direttrici del pensiero di Malcom X, che ne costituiscono una parte importantissima, nel film non esistono. Malcom X riteneva il razzismo un prodotto della società capitalistica: "E' impossibile per una persona bianca credere nel capitalismo e non credere al razzismo. Non si può avere il capitalismo senza il razzismo. E se ti metti a discutere con una persona e scopri che la sua filosofia è sicuramente non razzista, di solito si tratta di un socialista, ovvero la sua filosofia politica è il socialismo"(cfr. Malcom X speaks, edited and with a Prefatory Note by George Breitman, Grove Press 1965).

Il film di Spike Lee, da questo punto di vista, nella preoccupazione didascalica o commerciale di arrivare a tutti, annacqua buona parte di quelle novità, molto probabilmente perché non le condivide. E' il suo Malcom X, più conciliabile con i bilanci miliardari delle élites nere o con il lavarsi la coscienza per i propri guadagni del Michael Jordan di turno.

 

Milou a maggio

di Louis Malle

"Chi ha avuto un ruolo assolutamente determinante negli avvenimenti del Maggio francese è lo sciopero generale di 9 milioni di lavoratori. La partecipazione in massa di universitari, liceali e giovani lavoratori intellettuali agli avvenimenti del Maggio, è stato un fenomeno importantissimo, ma subordinato al movimento di lotta economica di classe di 9 milioni di lavoratori. Ora noi constatiamo il seguente fatto: nella presentazione e nei commenti che vengono attualmente diffusi sul mercato dei nostri paesi capitalistici, l'ordine di importanza relativa di questi due fenomeni (il movimento di sciopero generale e le azioni studentesche) viene completamente rovesciato.

L'incontro operai/salariati - studenti, liceali, giovani lavoratori, intellettuali, è stato un breve incontro che non è sfociato in una fusione. La cosa più straordinaria, in questo straordinario incontro della sfilata di centinaia di migliaia di lavoratori, studenti, intellettuali, era la discordanza fra le parole d'ordine predominanti presso i lavoratori e le parole d'ordine predominante presso gli studenti e gli intellettuali. Gli studenti e gli intellettuali chiedevano non un cambiamento di governo, ma la rivoluzione semplicemente. Ma l'immensa massa dei lavoratori aveva tutt'altre parole d'ordine, quelle tipiche della lotta di classe economica. Palesemente vi era una discordanza e un malinteso fra le speranze utopistiche (ideologico-politiche) degli studenti e le rivendicazioni operaie". (L. Althusser, in M.A. Macciocchi, Lettere dall'interno del P.C.I a L. Althusser).

Il film Milou a maggio è ambientato proprio nel periodo delle lotte operaie e studentesche che attraversarono l'intera Francia nel maggio del 1968. Per giorni il paese rimase paralizzato a causa dello sciopero generale degli operai. L'eco di questi avvenimenti arriva in una casa di campagna dove una famiglia borghese si è riunita in occasione della morte della vecchia madre di Milou. Gli avvenimenti di Parigi, seppur così lontani, condizionano fortemente la vita del piccolo gruppo: a causa dello sciopero generale, infatti, il funerale della nonna dovrà essere rimandato e i parenti saranno costretti a prolungare la loro permanenza. Da Parigi arrivano i racconti delle manifestazioni: ad un certo punto l'euforia rivoluzionaria sembra contagiare anche il gruppo, a cui sfugge però completamente il senso delle rivendicazioni studentesche e operaie. E' per questo che la breve esperienza collettiva vissuta nella casa di campagna non lascia alcuna traccia nei protagonisti, che accolgono con gioia la notizia della fine dello sciopero e che, dopo la formalità del funerale, non vedono l'ora di partire per tornare alla vita di sempre. Il malinteso, che secondo Althusser è alla base del Maggio francese, è anche alla base di questo film: delle lotte rivoluzionarie arrivano infatti solo immagini distorte, che riducono l'esperienza del Maggio ad una generica rivendicazione di libertà, intesa per lo più nel senso borghese-edonistico di libertà sessuale e dei costumi.

 

Naked

M.Leigh

Leigh è un regista inglese ormai non più giovane che ha raggiunto una certa popolarità negli ultimi anni, nel dopo Tatcher, ed appartiene, non solo anagraficamente, alla generazione di Loach. Il film Naked gli valse il premio per la miglior regia a Cannes, dove pochi giorni fa ha vinto la Palma d'oro per il miglior film con il nuovo Secrets and lies.

Naked ci fa immergere in una realtà, quella ai confini tra la parte bassa della classe media londinese ed i margini della strada, in cui i personaggi stancamente vivono le loro vite, subendo eventi che per la loro gravità dovrebbero determinare degli scossoni, sono continuamente provocati a delle reazioni forti, reazioni che però poi non si verificano mai. Tutto riprenderà come prima. Si potrà forse decidere di "tornare a casa", nella cittadina d'origine, ma Leigh non ne sembra entusiasta, preferendo in fondo la continuazione del vagabondaggio del protagonista a risoluzioni sulla propria vita che non siano solidamente fondate su una presa di coscienza profonda. L'unico personaggio che sembra agire secondo un'idea chiara su quel che vuole dalla vita è il ricco e sadico violentatore che afferma di  voler vivere solo fino a quarant'anni, età in cui - afferma -si suiciderà. Le donne che  se lo ritrovano in casa, dopo averne ricevuto violenza convivono con la sua presenza, vi si adattano, sono in attesa che la situazione si sblocchi in qualche modo. E' questo il modo di affrontare la vita dei personaggi.

La violenza del "cattivo" - personaggio espressamente metaforico - è continuamente comparata con quella di cui è protagonista il personaggio principale del film - Johnny - l'anarchico rompiscatole, che si pone e pone agli altri continui interrogativi, che sgretola, a volte con la sola presenza, le piccole e fragili certezze di vite miseramente vissute. Egli esprime il suo disagio in modo aggressivo, cercando comunque - a modo suo, secondo regole sue - una comunicazione reale.

Uno degli episodi centrali del film è l'incontro con il guardiano notturno che si interessa di letteratura e sogna sul futuro. I due personaggi non potrebbero essere più lontani, ed emblematicamente il guardiano - che pure ha voglia di parlare con il vagabondo - deve fingere di continuare a leggere e di essere solo affinché i due possano dialogare. Eppure la comunicazione avviene. La simpatia che si crea tra i due, però,  nasce soprattutto dal comune senso di solitudine. Il guardiano-sognatore difende disperatamente le sue illusioni, quelle più lontane sulla casetta isolata in un futuro remoto, e quelle più prossime - sulla donna che balla per lui, di notte, dietro una finestra senza tendine. Entrambi i sogni saranno messi in crisi dal vagabondo che svela la realtà per quello che è.

Alla fine Leigh ci lascia spoerare per un attimo in una possibile redenzione, nella possibilità di un  reinserimento, nella possibilità che per Johnny sia superata una fase pur necessaria - quella della provocazione - a cui segua una prospettiva nuova. Ma il finale consolatorio che il film sembra prospettare per qualche attimo - l'amore che tutto risolve, infine - è subito smentito dal protagonista che, leccandosi le ferite, continua per la sua strada.

 

Nel nome del padre

di J. Sheridan

Tratto da un avvenimento realmente accaduto, Nel Nome del Padre di Jim Sheridan si inserisce in quel  cinema di impegno civile che ha i suoi modelli in Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo o in Daniel di Sidney Lumet o nel più recente JFK di Oliver Stone.Un cinema che tende al risarcimento morale e politico di coloro che hanno subito inconcepibili ingiustizie in nome di un'ipocrita e assurda idea di "ragion di stato", ed è esortazione a considerare sempre e comunque, come assoluti e irrenunciabili i valori della verità e della dignità umana.

Il film, vincitore dell'Orso d'Oro al festival di Berlino, narra la storia di Gerard Conlon (Daniel Day-Lewis ) e suo padre Giuseppe (l'attore Pete Postle White), irlandesi e cattolici, che ritenuti ingiustamente colpevoli di atti di terrorismo, insieme ad altri giovani amici di Gerard, sconteranno 15 anni di duro carcere (usciranno nel 1989) segnati dalle insensate torture fisiche e psicologiche inflitte dai loro carcerieri e dalla tragica morte di Giuseppe, che dapprima metterà dura prova la sanità mentale di Gerard, poi contribuirà ad una sua nuova maturità esistenziale e politica.

Uscito di prigione Gerard troverà la forza di affrontare un secondo processo che finalmente riconoscerà la sua innocenza e quella dei suoi amici.

In un'atmosfera di grande tensione avverrà lo "smascheramento" dei vari colpevoli, di coloro che, ai vertici dello Stato e della Magistratura, avevano occultato le prove della difesa, determinando uno dei casi processuali più clamorosi della tanto stimata giustizia inglese.

La struttura narrativa del film si compone di due livelli, uno politico ed un'altro più "personale" che riguarsa il rapporto conflittuale  tra padre e figlio.

Se l'analisi politica della vicenda costituisce la parte più debole del film, troppo enfatizzata è infatti la rappresentazione dei "cattivi" e non fa emergere compiutamente il disegno ideologico che è sotteso alla volontà di trovare in ogni caso dei "colpevoli" per atti di terrorismo, risulta invece ben trattegiata e "toccante" la storia del rapporto psicologico conflittuale esistente tra Gerard e Giuseppe.  

 

NEOREALISMO

Spunti per una riflessione

Il giovane parlamentare democristiano Giulio Andreotti, vicino a De Gasperi, si espresse a proposito dei film del neorealismo dell'immediato dopoguerra con le parole "I panni sporchi si lavano in famiglia".

Questo atteggiamento con vocazioni censorie verso opere che rappresentavano frontalmente la realtà, scegliendo il protagonismo delle fascie più povere della popolazione nella loro quotidianità, era in effetti molto diffuso. "Questi stracci e questi cessi" (da C'eravamo tanto amati di Ettore Scola) davano un'immagine dell'Italia, anche all'estero, che infastidiva il ricompattato potere centrale forte e duro degli anni del dopoguerra.

Eppure quel cinema, così malsopportato dal perbenismo di allora (che faceva sospettare un nostalgico rimpianto per i fasti volgari e consolatori del cinema del regime fascista), ebbe un ruolo importante nel restituire simpatia all'Italia nel mondo dei vincitori della guerra.

Pur accreditando in alcuni casi una lettura storica incompleta (che però fa trasparire la "scelta" di cosa rappresentare e "come", quindi smentendo la presunta asetticità di questo cinema), i film neorealisti effettivamente furono amati negli Stati Uniti ed ebbero maggiori successi che non in Italia.

Lasciando da parte le polemiche di scarsa statura culturale di cui si è accennato, occorre tuttavia ricordare che il neorealismo non fu un movimento monolitico ed omogeneo: anche prima che i successi ne catalogassero e definissero i cliché, le "regole", che così diedero luogo a imitazioni e camuffamenti, le differenze che si potevano cogliere nelle opere dei diversi autori erano marcate. Un film come "La terra trema" (1948) di Luchino Visconti, che da molti fu considerato l'esempio più tipico del cinema neorealista (attori non professionisti, uso del dialetto siciliano, protagonismo del popolo ecc.), era per molti aspetti un'opera diversa: l'ispirazione era letteraria ("I Malavoglia" di Verga, molto "trattato") e l'intento poetico prevaleva su quello rappresentativo; la mediazione culturale dell'autore era insomma piuttosto forte e distante dall'idea che la realtà sia già lì pronta per essere riportata così com'è (idea peraltro che brutalmente banalizza l'intento, comunque non sempre formulato o "concepito" dai neorealisti).

Sarà dunque necessario affrontare l'opera dei singoli autori affinché il discorso risulti più completo e non solo sul neorealismo, che durò, in fondo, pochi anni. Per brevità saranno scelti autori emblematici; in ogni caso il consiglio che diamo ad ognuno è scontato e preliminare a qualsiasi serio approfondimento: bisogna prima vedere i film e poi tentare di analizzarli; e non solo quelli proposti in questa sede.

 

"Se il neorealismo si è rivelato in modo più impressionante al mondo attraverso Roma città aperta (1945), sta agli altri giudicare... Il neorealismo nasce, incosciamente, come film dialettale; poi acquista coscienza nel vivo dei problemi umani e sociali della guerra e del dopoguerra...Un bisogno, che è proprio dell'uomo moderno, di dire le cose come sono, di rendersi conto della realtà direi in modo spietatamente concreto... Il neorealismo è una sincera necessità, anche, di vedere gli uomini quali sono senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario". Così Roberto Rossellini racconta la sua opera.

In questo regista c'è un dato che emerge, quello della immediatezza, di una capacità - che non fu solo sua - di un impatto diretto col reale, che si contrapponeva in questo senso al cinema precedente.

I principi generali lasciano il posto alle indagini sul concreto , il cinema collocato nella sua fisica  (il retroterra storico) e nella sua "materialità" (il suo linguaggio).

Quando si parla dell'"occhio" di Rossellini si allude proprio a questo; la sua scoperta della macchina da presa è soprattutto disponibilità a cogliere il rapporto tra personaggi e ambiente, un cinema di cose, un paesaggio mentale, dei comportamenti, il tempo come fattore significativo primo (un "cinema della durata"). L'oggettività allora (e non sempre se ne è parlato a proposito) è una diversa attitudine verso le cose, la possibilità di ridurre, per lo spettatore, il margine tra presenza dei fenomeni e intervento dell'autore. Ma la riduzione è sempre l'esito un'operazione, non di una registrazione.

In questo senso si può intendere l'espressione di cinema di improvvisazione per il neorealismo. In parte può essere anche vera, se si intende la mancanza di alcuni elementi tecnici (per esempio, di una sceneggiatura articolata), a favore di una capacità autonoma di scoperta del linguaggio cinematografico, la disponibilità della macchina da presa; non quindi, in linea di principio, facile impressionismo, o rapsodicità, mancanza di un legame. Lo stesso Paisà (1946), che è il film girato più a caldo più a contatto con una realtà frammentaria, è tutt'altro che un opera a cui manchi un progetto unitario, una "costruzione". Ancora l'intervento, dunque, o - in altre parole - l'intento stilistico in un senso tutto particolare: "Bisognava evitare - disse Rossellini - di essere poeti"; questa credo sia un po' la lezione principale, la mancanza di un coefficiente estetico che fosse aprioristico, o in qualche modo programmatico o giustapposto.

Per queste ragioni il Rossellini del primo dopoguerra è quello che più riesce a dare il quadro di una determinata situazione storica (per esempio, l'Italia degli anni '45-'50, ma anche altri paesi sconvolti dalla guerra, si pensi a Germania anno zero del 1947).

Prendiamo Paisà: notiamo la capacità di renderci, man mano che cresce, cioè man mano che geograficamente sale, la crescita di una coralità politica. Il film continuamente si apre da episodi legati a "storie" di carattere individuale verso il grande affresco finale; contemporaneamente scopre la realtà regionale, le diversificazioni che avevamo ignorato, quei dati emergenti che occorreva raccogliere, come il dialetto, che diventa materiale stilistico indice della volontà di star dentro le cose.

L'"occhio" di Rossellini, è la sua capacità, per esempio, di recuperare ai significati anche gli aspetti apparentemente marginali della realtà, facendo cadere la distinzione tra momenti primari della narrazione e contingenti; quanto cinema moderno è debitore di questa capacità di produrre significati dando uguale spessore alle cose! Raramente il cinema è riuscito a fare così film di cose, di ambienti, in cui i personaggi sono "segni". La narrazione "forte" viene meno, quella sorta di condanna a raccontare che il cinema si porta addosso, lascia il posto alle dilatazioni, alla perdita di nesso causale, di intreccio forzato: "Bisogna privare le cose del nesso logico", cioè liberarsi dai collegamenti narrativi, dei tempi pieni. Ecco perché è sbagliato considerare il suo cinema posteriore (Francesco giullare di Dio del 1950 e Viaggio in Italia del 1953) come un "abbandono delle ragioni del neorealismo", perché dietro c'è lo spettro delle codificazioni e dei cartelli indicatori; e Rossellini avvertiva, intuitivamente più che razionalmente, il bisogno di un aggiornamento che non poteva non essere anche stilistico.

Resta da osservare quanto Rossellini abbia tentato, rischiosamente, un aggiornamento del neorealismo. Così come, più avanti, affronterà, altrettanto difficilmente, la crisi del cinema, proponendosi, con Luigi XIV (1966), un obiettivo che rimettesse in causa la funzione delle sue operazioni. In fondo, una delle doti principali di questo autore, era proprio questa capacità di mettersi in discussione.

Vittorio De Sica, nato a Sora nel 1901, ma vissuto prevelentamente a Napoli, fu accompagnato nei suoi film "neorealisti", I bambini ci guardano (1945), Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1950), Umberto D. (1951), da Cesare Zavattini, soggettista e sceneggiatore ma soprattutto anima di quei film, le cui seguenti enunciazioni (ci riferiamo a interventi, dichiarazioni, interviste, comprese tra il '45 e il '54) ruotano innanzitutto attorno alla nozione di attualità. "Vediamo allora dove risiede la prospettiva del neorealismo: nella scoperta dell'attualità. Fino a ieri la cinematografia si basava sul soggetto, frutto dell'immaginazione. Tutto nasceva come se l'attualità, il fatto non tagliato da romanzo, non esistesse. Per il cinema esistevano solo i fatti "grandi". La guerra invece ci ha fatto scoprire a vita nei suoi valori continui".

Ma l'attualità in Zavattini è intesa anche come contemporaneità, e dunque utilizzata come esplicitazione cronologica. "Il cinema - continua Zavattini - non dovrebbe mai voltarsi indietro. Dovrebbe accettare come conditio sine qua non la conteporaneità. Ecco perché il mio impegno morale è tutto rivolto all'attuale, anche se sono nutrito di passato: credo, infatti, che per rendere efficiente un'azione bisogna porla nei limiti, bisogna, come fa il chirurgo, circoscrivere il campo operativo. E' nocivo allo sviluppo del neorealismo che questo imperativo dell'attuale non sia abbastanza diffuso"..."Pensiamo al nostro bisogno di verità, all'urgenza che è in noi di vedere tutto quello che non ci facevano vedere prima, e il cinema ci apparirà come il mezzo fatale, provvidenziale alla nostra urgenza di attualità. Il cinema è infatti, l'unico mezzo capace di prendere la cosa come l'hai scelta: lo spazio tra la intuizione e la realizzazione è il minimo. La suggestione della parola il cinema te la dà in maniera più immediata e più persuasiva. In un tempo in cui c'è una gara di secondi, il cinema è destinato a guadagnare il massimo"..."Mettiamo un disoccupato fermo davanti alla macchina da presa, e poi inchiodiamo il pubblico per cinque minuti davanti a quell'immagine proiettata sullo schermo. Questo non si vuole. Si grida: Montaggio!, perché le immagini scorrano veloci e la conoscenza del pubblico resti superficiale, e la verità non venga approfondita. Dico disoccupato ma potrei dire qualunque cosa che richieda urgenti interventi e per la quale la nostra durata di attenzione è sempre inferiore alla necessità di conoscerla veramente"..."Una volta, sempre per le malintese ragioni di ritmo, suspence, movimento, ecc., una lite non poteva durare più di due minuti perché -si diceva- il pubblico si sarebbe stancato e bisognava passare oltre. Oggi siamo riusciti a farla durare un po' di più: diciamo sette minuti. Il neo-realismo deve farla durare il tempo necessario e sufficiente (che può coincidere con l'intera durata del film) perché la lite possa essere analizzata in tutti i suoi elementi, in tutti i suoi echi, in tutta la sua essenza. Questo avverrà solo il giorno in cui si arriverà a convincersi che una lite (naturalmente parlo di una lite qualunque, fra uomini qualunque, in un luogo qualunque) fatta vedere nel più analitico dei modi, ha in sé dei momenti di dolore, di stupore, di tensione, come la più costruita delle "storie".

La duplicità sembra attraversare la personalità viscontiana senza risparmiare versante alcuno; si tratta di una duplicità che ne percorre tutti i momenti e gli aspetti possibili: biografico, culturale, politico, creativo.

Luchino Visconti fu infatti intellettuale di estrazione aristocratica ma, fin dagli anni del'adolescenza e della prima giovinezza, di formanzione, di orientamento, di scelte, diciamo, progressisti. Un progressismo che si esprime dapprima sul fronte delle scelte e delle determinazioni antifasciste - vissute, tra l'altro in quella fase, con molta coerenza e con molto coraggio - e che nel dopoguerra lo porterà, sostanzialmente, a schierarsi a sinistra, soprattutto a fare proprie le posizioni generali del partito comunista, senza tentennamenti, esitazioni, incertezze, anche nei momenti in cui altri, invece, denunciano crisi più o meno profonde, più o meno attendibili.

Profeta e anticipatore del neorealismo secondo una certa tradizione o, se si preferisce, secondo una certa leggenda. Profeta e anticipatore, con Ossessione (   ), e autore poi dell'opera più esemplare e più alta del cinema neorealista La terra trema, ma negli stessi anni, impegnato in campo teatrale in una azione che, se non andava nella direzione opposta, certamente introduceva in questo quadro parecchi elementi di dubbio, di contraddizione, quantomeno di discussione. Mentre girava La terra trema (1948) o Bellissima (1951), Visconti svolgeva infatti un'azione senza dubbio salutare di aggiornamento e di rinnovamento delle scene italiane, troppo a lungo imprigionate in una improduttiva autarchia, seppure gli autori ai quali egli si rifaceva, i testi che proponeva erano i più disperati ed eterogenei possibili.

Il più intransigente, il più puro dei neorealisti, si dirà in un film come La terra trema, e tuttavia per formazione, per riferimenti culturali, molto diverso dalla figura canonica dal regista neorealista, con un backgroung di gran lunga più ricco, più articolato, complesso, e che gli altri, anche i maggiori, come Rossellini e Zavattini, conoscevano indirettamente, "orecchiavano" in un certo senso dall'esterno. E ancora, a proposito della duplicità che dicevamo, a teatro fu un grande anzi beffardo dissacratore di classici: si ricorda una sua edizione di una tragedia di Alfieri, con fanfare e penacchi in cui si rivisitava allegramente certi moduli e stilemi della tradizione con una disinvoltura e un'arditezza che restano un episodio abbastanza circoscritto nella storia, poi fondamentalmente molto tranquilla, del teatro italiano. Sempre a teatro, però non nascondeva la sua avversione e la sua sordità nei confronti, non solo delle maggiori esperienze del teatro contemporaneo, ma anche di quelle con le quali il suo marxismo avrebbe dovuto comunque entrare in un rapporto di attrito di confronto, se non necessariamente di adesione.Si pensi a Brecht e alle avanguardie che restano sempre fuori, direi proprio organicamente, costitutivamente, dall'arco delle letture e delle scelte viscontiane.

La fonte di molti equivoci consiste nell'aver voluto a ogni costo stabilire una coincidenza puntuale, anzi una coincidenza esemplare tra il lavoro di Visconti e alcuni nodi e luoghi fondanti della cultura antifascista e progressista: nell'aver cioè voluto istituire un rapporto stretto, meccanico, conseguente tra certi momenti contraddittori ma comunque alti di sviluppo, di tensione di una certa cultura, e una esperienza, un lavoro, una posizione un approccio, come quelli di Visconti, che avrebbero in un cero senso dovuto riassumere tutti questi momenti portandoli a una grado di esemplarità e di perfezione quasi paragdimatiche.

Non possiamo certo dimenticare che Visconti, pur con interventi abbastanza episodici e parsimoniosi, è però stato per tutta una fase organicamente legato a una certa storia della cultura italiana antifascista e progressista, e quindi ha contribuito direttamente alla costruzione dell'immagine critica che abbiamo ricordato. Ma si tratta di un abito stretto, un abito stretto che lascia fuori troppe cose ovvero le conduce a contraddizioni talvolta lancinanti, non componibili; un abito che offre di un opera e di una personalità così complessa una immagine riduttiva, che finisce coll'impoverirle anziché arricchirle e precisarle.

Comincia il lungo viaggio di Visconti a ritroso nella memoria e nella cultura, il ritrovamento delle radici, la rivisitazione delle fonti, attraverso le strutture del melodramma e del romanzo ottocentesco, sino alle sue propaggini e variazioni manierali. Rocco e i suoi fratelli (1960) non rappresenta affatto un'eccezione, perché ancora una volta e soprattutto qui il luogo dell'autenticità non sarà la fabbrica, le schiere operaie, delle ultime immagini, ma il conflitto-contrasto viscerale tra un gruppo di personaggi e soprattutto tra la città e l'industria sentite come foresta e violenza e la natura, il paese, le radici come luogo di un'autenticità che può essere soltanto ormai di elegia e di rimpianto.

La natura dei materiali, dei registri letterari, figurativi, musicali (il loro uso mai meramente scenografico) e lo straordinario grado di fusione al quale Visconti li reca, non sono dati esterni di sensibilità e di gusto, sono l'habitat culturale di questi personaggi, l'aria stessa che respirano, i loro comportamenti divengono la proiezione critica della visione e della cultura dell'autore, che in essi si rappresenta, si obiettiva e si giudica.

Per questo in Senso (1953) e negli altri film che verranno, la volontà e il gusto dello smascheramento sono così acri e impietosi. L'autore ripercorre criticamente dall'interno la propria storia con una capacità di corrosione, di dilatazione che si farà sempre più fievole, ma non senza colpi di coda, assalti e tentativi di sortita, per quanto anch'essi via via più vaghi.

Roma e la natia Romagna sono i due poli del cinema di Federico Fellini (1920-1994), anche per ragioni ancestrali. Federico è romagnolo soltanto a metà: romagnolo verace era il padre Urbano, viaggiatore di commercio in dolciumi e marmellate, e romana la madre, Uda Barbiani. I vitelloni  del 1953, direttamente autobiografico, è una galleria di giovani disoccupati, irresponsabili e velleitari figli di mamma (e il termine entrò nella lingua italiana), tra i quali campeggia il personaggio di Sordi (Alberto), punto di fusione di violenza satirica, grottesco e patetismo.

Dopo La strada (1954), favola drammatica, parabola crisitana sul peccato e la redenzione, apologo sulla condizione umana in generale (la solitudine dell'individuo e il suo bisogno di comunicazione) e della donna in particolare, che è anche una picaresca e magica escursione attraverso i paesaggi dell'Appennino centrale nel trapasso delle stagioni estranee alle pene dell'uomo, Roma e i suoi dintorni (Marino, Cerveteri) sono lo sfondo di Il Bidone (1955): piazza del Popolo, il cinema Flaminio, il villaggio dei baraccati addossato agli archi in rovina dell'acquedotto Felice e quella sequenza d'antologia che è la festa in casa del "bidonista" ricco. Roma e la campagna romana sono stalvolta uno sfondo neutro, non caratterizzato in modi specifici come, forse, era inevitabile in un'opera stanca dove ritornano, tritati senza invenzione innovatrice, molti motivi dei film precedenti: le passeggiate notturne, la prostituta all'alba, le giostre di periferia, le vie deserte della cittadina di provincia.

Al suo apparire La dolce vita nel 1960 fu giudicato dai più il film meno privato di un autore che, nel bene e nel male, era stato negli anni cinquanta, con Antonioni, colui che s'era più scoperto e confessato, mettendo a nudo il proprio cuore. Sembrò, il suo, un film sul disordine: un solo, enorme "flash" sulla realtà di una metropoli mondana e caotica, febbrile e corrotta, sulla Roma pagana e improduttiva di via Veneto, del divismo cinematografico, della cafè-society, della aristocrazia nera, che agli occhi dell'autore, e del suo "alter ego" e vicario Marcello appare affascinante e turpe. Un viaggio attraverso il disgusto, lo definì Fellini.

La dolce vita era, o doveva essere, una storia di cinegiornale di quel mondo romano (gli scandali del Rugantino, le orgie di Capocotta, via Veneto, gli alberghi internazionali, Cinecittà) dove razzolava un certo giornalismo in rotocalco.

Visto a distanza, col senno del poi, La dolce vita fa figura di spartiacque nel panorama del cinema italiano del dopoguerra. In un certo senso, anzi, ne segna la fine e l'inizio di una nuova epoca. La sua importanza e il suo significato possono essere riassunti in questi punti: 1) rappresentò nella carriera del suo attore, l'approdo alla maturità espressiva; 2) contribuì a quel rinnovamento dei modi narrativi che fu il fenomeno più vistoso nel cinema degli anni sessanta; 3) ripropose come già avevano fatto Rossellini prima e Antonioni poi quel problema del neorealismo e del suo superamento che in quegli anni costituì la cattiva coscienza - e, in qualche caso, il tormento - della critica cinematografica italiana; 4) segnò una svolta fondamentale nella storia della libertà d'espressione in campo cinematografico.

Con 8 e mezzo Felllini va ancora più avanti nella rottura degli schemi della drammatugia tradizionale. E' un film di un film (il sogno di un sogno?), la storia di un regista che non riesce a fare un film. Il suo vero contenuto è la fitta trama dei rapporti e dei legami del protagonista: con la moglie, l'amante, l'ambiente di lavoro, gli estranei. Dopo aver raccontato lo smarrimento del suo personaggio, la nausea, la pena, l'angoscia con cui sente quei rapporti, lo sforzo per mettervi ordine e scoprirvi un senso, dove lo fa approdare? La vita sono gli altri, i vivi e i morti, gli esseri reali e le creature della fantasia; bisogna accettarli tutti, con amore, gratitudine e solidarietà. La sua è la conclusione di un artista, di uno showman che si è costantemente difeso dall'intellettualismo con la natura sanguigna del suo istinto spettacolare, ma pure con una profonda partecipazione all'umanità dei suoi personaggi, anche dei più abietti, testimone e complice.

Antonioni comincia a far cinema negli anni cinquanta avendo di fronte una società italiana in cui erano in atto tutti i movimenti restaurativi, di riconsolidamento di classe, dopo una stagione - anche cinematograficamente - di utopie, con il disagio quindi di un "prima" che si ha addosso e un "dopo" che tradisce, oltre a non garantire.

Michelangelo Antonioni, pur avendo partecipato, più o meno indirettamente, alla fase di espansione del neorealismo, cioè tra gli anni '44-45 e il '50 (ricordiamo l'importante attività di documentarista, Gente del Po soprattutto, ma anche quello di critico), realizza i primi film negli anni della "crisi"; per un verso allora sembra recepire la nota emergente di quanto era avvenuto (l'attitudine al sociale, la recettività ecc.), ma per l'altro si rende conto di alcuni elementi drenanti. E' questa consapevolezza il dato più importante degli esordi. Che cosa rimette in discussione? Soprattutto due fattori: primo, che il neorealismo era rimasto un fenomeno culturale borghese, nei suoi aspetti magari più radicali, la cui "rottura" andava quindi circoscritta; e allora, anziché tentare fughe in avanti, accetta fino in fondo questa matrice facendola diventare riflessione in sé; non è a caso, si potrebbe notare non poi tanto di sfuggita, che personaggio centrale di tanto cinema antonioniano sia un intellettuale, che agisce e sente il peso di un condizionamento (si pensi in particolare alla trilogia dell'Avventura (1960), La notte (1960), L'eclisse del 1961-62). Il secondo fatto riguarda il linguaggio, problema che da un punto di vista teorico, ma anche pratico (con eccezioni, Rossellini per primo) era stato in qualche modo messo da parte, perché veniva dopo l'urgenza di alcuni dati (il cosa, insomma); e Antonioni sin dall'inizio si pone il problema del come, della forma, che resterà uno degli assi portanti della sua opera (e sotto questo profilo il film cruciale è Blow-up (1966), il cui "oggetto" è proprio la discussione del mezzo, del proprio strumento di comunicazione.

Dice Antonioni: "Una delle mie preoccupazioni, girando, è quella di seguire il personaggio finché non sento la necessità di staccare. Seguirlo non per partito preso, ma perché mi sembra importante stabilire, cogliere di questo personaggio i momenti che appaiono meno importanti". L'evento, perno centrale, viene sezionato, quasi diluito, analizzato e perciò disteso, ampliato, recuperando quelli che si dicevano i "tempi morti", le apparenti digressioni. Si parte da un fatto, per "svilupparlo" (come il protegonista di Blow-up), per andare all'interno più che vedere ciò che da esso può nascere.

Le maglie del racconto vengono dilatate: come si potrebbe vedere dall'analisi delle singole opere, l'"arco" narrativo (inizio, sviuppo, conclusione, ecc.) a poco a poco si allenta, fino a sostituire la costruzione con l'osservazione e l'analisi. Il punto d'arrivo è una sorta di oggettualità nata dalla scomposizione dell'ambiente: come un nuovo vedere dove il massimo di obiettività (la tanto sottolineata freddezza di Antonioni), lo sguardo da spettatore disinteressato scoprono le ambivalenze, la non univocità del significato.

Consegue che l'altro perno della narrazione tradizionale, il personaggio, ne esce redicalmente ridimensionato; il suo essere portatore di uno "sviluppo psicologico" - asse del racconto - viene messo in discussione. Il legame col suo "interno" si slabbra; dalle psicologie come luogo primo da esplorare l'autore passa all'analisi del comportamento come rivelazione di un determinato atteggiamento; fino a che tronca questo cordone ombelicale, e il comportamento diventa un dato oggettivo da analizzare, senza un necessario punto di riferimento del personaggio. Già nei primi film c'è questa attenzione al comportamento, penso ai tallonamenti, allo stare addosso ai personaggi in Cronaca di un amore, anche quando non ci sono momenti rivelatori; il punto estremo di questa ricerca è l'Avventura, o L'eclisse.

L'errore potrebbe essere di pensare che quanto si è andato dicendo avvenga in Antonioni in modo lineare, quasi preordinato; e, invece, coerentemente (cioè rischiosamente) ci sono ambivalenze e ritorni.

* La relazione è tratta principalmente, come la precedente, dalla Storia del cinema a cura di Adelio Ferrero, della Marsilio Editori, del 1978.

 

Orizzonti di gloria

(Paths of glory USA,1957)

di Stanley Kubrick

Orizzonti di gloria è la costruzione della guerra e del suo funzionare. Lo è perché ne ripete i riti glaciali, non perché mostri il nascere e lo svilupparsi del fenomeno. Esso è già dato nella scritta iniziale ("1916", la guerra è in corso) e nella voce fuoricampo che brevemente puntualizza la situazione del conflitto, e le cui ultime parole sottolineano la posizione di stallo nella guerra di trincea, nella quale "gli attacchi riusciti si misuravano in guadagni di qualche centinaio di metri, pagati con centinaia di migliaia di vite". In seguito la voce tace, e resta solo la situazione di guerra, una guerra storicamente determinata e con tutti i particolari al posto giusto (Churchill lodò la verosimiglianza storicadel film), eppure guerra che pare astratta, guerra in cui non si vede neanche un nemico, in cui il riferimento sorico preciso crea solo l'incubo.

L'ironia di K. sta nel prendere a esempio una guerra storicamente vera che, resa esattamente e "realisticamente", si rivela come un puro assurdo. Sarà questo il "meccanismo" essenziale del cinema di K.: la fascinazione nei confronti di una ragione il cui "funzionamento" logico, preciso e puntuale conduce all'assurdo, al ridicolo al pazzesco (si pensi al Dottor Sranamore, a Shining, e più di ogni altro al computer Hal di 2001 Odissea nello spazio che, massima espressione delle vette raggiunte dalla scienza, per "istinto di conservazione" tenterà il sabotaggio della missione spaziale).

K., in Orizzonti di gloria non ha bisogno di sconvolfere apertamente il genere bellico coll'invenzione fantastica o coll'evidenza della condanna o ancora mediante l'irrisione distorcente. Si capisce perché sia rimasto colpito dalla situazione proposta dal romanzo: il processo (che si svolge in un ambiente settecentesco che richiama l'età dei lumi, su un pavimento a scacchiera - ancora un "gioco" razionale) e la condanna per codardia, sono la riproposta dell'assurdo meccanismo di previsione e pianificazione della morte all'interno di una sola delle parti in guerra. Non c'è scampo: poiché il rito della presa o del tentativo di presa del Formicaio col suo olocausto non si è svolto fino in fondo (rito perché in ogni caso non c'è un fine bellico dichiarato: l'azione serve a calmare il Comando e a saziare una sete di carriera, così come le fucilazioni a soddisfare l'opinione pubblica), a ciò si rimedia con un rito più sicuro,  più facilmente controllabile, ma che ha la stessa struttura: decimazione o estrazione a sorte si ha comunque casualità nello sfoltimento.

Il film sembra chiudersi, dopo l'inesorabile svolgimento di quanto stabilito dal "meccanismo" bellico, con una speranza: gli uomini che cantano in coro una avvolgente ballata. In realtà l'ambiguità è forte: prima di tutto perché i soldati sono lì a divertirsi dopo aver assistito all'esecuzione; inoltre il momento di serenità malinconica del canto in coro ha in qualche modo la funzione di ricaricare i soldati prima del loro ritorno al funzionamento della macchina-guerra. L'ambiguità che percorre tutto il film si ripropone immutata: la definizione di uomo è sempre doppia: il luogotenente di Mireau osserva la stupidità dei soldati che quando scoppia una bomba si ammassano come bestie stringendosi tra loro, invece di sparpagliarsi, Dax ribatte che proprio quesrto li qualifica come esseri umani e nessuna delle due frasi sembra completamente vera o falsa.

Nostra sintesi da S.Kubrick di E.Ghezzi, Il castoro cinema

 

Otto e mezzo

di Federico Fellini

(Ita, 1963)

I fatti, che si svolgono su piani narrativi simultanei, e cioè della realtà, del ricordo e della immaginazione, fino a confondersi  nel finale, si svolgono in una stazione termale , mezza Montecatini e mezza Chianciano, tra lo stile liberty e il moderno. Guido, regista di un film, non riesce a progredire  col suo lavoro. Invano è sollecitato dal produttore, interrogato dagli assistenti dagli attori. Qual è la trama del suo nuovo film? Nessuno la conosce, ma quel che è più grave, neppure lui. I suoi collaboratori si fanno impazienti. Anche la moglie è stanco del suo vuoto, della sua indecisione, della sua infedeltà. Guido cerca: un po’ di chiarezza in se stesso, idee per il film da fare, attori da impegnare, la donna del sogno, del suo film e della sua stessa vita, da fermare come un ideale irraggiungibile. Scruta anche nel proprio passato - l’infanzia, l’educazione cattolica - e nell’avvenire. Si accompagna con un critico fino a che non è tentato di impiccarlo. La visione di donna continua a inseguirlo, senza che riesca mai a raggiungerla. La moglie diventa la testimone, ora paziente, ora meno, delle sue stramberie e delle sue menzogne.

Intanto il produttore va avanti, visiona provini, costruisce un gran scenario da stazione astronautica, invita i giornalisti a una conferenza stampa, impone a Guido di cominciare. Ma che cosa? Il regista non ha idea di quello che farà e che può fare. E’ soltanto cosciente del suo crollo immediato, della sua fine artistica. Sa che non ha più niente da dire, che non riuscirà più ad esprimersi.

Ormai il suo smacco è sicuro. Non c’è più niente da fare. Guido è finito ignominiosamente sotto il tavolo del colossale rinfresco servito agli invitati e agli inviati stampa di tutto il mondo. Ma a questo punto - ora che la sua impotenza è sicura e la sua fine decretata - al rivedere tutti quei personaggi, veri e falsi, del suo passato e della sua immaginazione, coi quali dovrebbe ricominciare - e che sono le creature dei suoi film, come i fantasmi della sua infanzia, le tappe stesse del suo passato - Guido sente una emozione interiore: tutto si muove nel suo spirito.

Sì, era tutto vero: la sua impotenza, la sua incapacità, la sua fumisteria, il suo crollo; ma a questo punto, ora che ha constatato la verità, egli se ne è liberato. La tenerezza per gli uomini lo riprende, l’amore della vita come letizia, come comprensione del tutto. E può riguadagnare festosamente, fiduciosamente, il suo cammino, con lo stesso spirito dei suoi anni migliori, ascoltando la stessa marcia da circo. Il film si farà. Non ci sarà un crollo, ma un nuovo principio. Non nella crisi, ma nella felicità creativa.

 

Palombella rossa

di N. Moretti (1989)

All'uscita di Palombella Rossa il settimanale cattolico (sic!) Il Sabato, diretto da Liguori, titolava: "Compagni, the end". A Formigoni & C. Moretti si limita a rispondere che "CL è solo la punta più infantile dell'iceberg. Del resto io, nel film, più che spintonare continuamente uno di loro non potevo fare", rifiutando dunque le interpretazioni del film che tendevano a considerarlo una sorta di dichiarazione di resa. D'altra parte basta vedere il film per accorgersi come sia l'accusa a dominare, pur nel succedersi degli interrogativi e dei dubbi, sulla rassegnazione "il mio è un film sulla difficoltà di essere comunisti, ma anche sulla necessità di esserli. (...) Qui si confonde la riflessione, il dubbio, la ricerca con la crisi".

Il protagonista Michele ha a che fare con i ricordi. Ma essi sono solo degli "shining" capaci solo di illuminare lo spazio-tempo della piscina. La piscina è il mondo-cinema-cervello da cui non si esce. Il tentativo di comunicare, dimensione che fonda il ricordo per attivare il circuito passato-presente, è cruciale nel film. Emblematica è la scena in cui Michele "vede" l'episodio al quale tutti rimandano e accennano: il dinale della tribuna politica televisiva con la canzone canatata "in diretta" e la successiva estensione della visione in vasca, con il pubblico che partecipa al canto. Sembra realizzarsi "questo sentimento popolare" - cui allude la canzone di Battiato - attraverso l'occhietto della telecamera televisiva. Ma è un'illusione, che si spezzerà al grido "Acireale Acireale!", rivelatore di una partecipazione della massa (il pubblico equivalente al popolo) che ha risposto ad uno stimolo, senza essere toccata in profondità. Si realizza quanto espresso in precedenza: "Se cerco di tradurre in una formula semplice quello che ho in testa, io lì fallisco".

Il sole che chiude il film è di cartapesta. "Ma questo non vuol dire - dice Moretti - che bisogna abbandonare l'idea di cambiare il mondo". Da qui la critica ad un PCI che "ha troppa paura di non sembrare moderno", ma anche la consapevolezza che sia necessario "trovare nuove parole di opposizione. Le vecchie si sono logorate. Oggi anche il dissenso viene incanalato, riassorbito, triturato dentro il Grande Spettacolo Nazionale. Bisogna trovare nuove parole, nuovi spazi, nuovi luoghi". Anche perché se una volta si "teorizzava su tutto - insiste Moretti - anche su quale gelateria scegliere la sera, adesso si va tutti al Maurizio Costanzo Show".

 

Paris, Texas

(USA,1984)

di Wim Wenders

Questo film rappresenta per Wenders il coronamento di un vecchio sogno, quello di girare un film negli Stati Uniti, in quel paesaggio mitico dove le più belle storie cinematografiche - su tutte quelle degli amati western - sono state ambientate. L'occasione gliela offre l'incontro  con lo scrittore-attore Sam Shepard; la collaborazione con Shepard si risolve, più che nell'effetiva vicinanza fisica, in una lenta e parallela progressione sulla stessa lunghezza d'onda. I due autori, mossi dalle suggestioni contenute in un'immagine shepardiana - quella di un uomo che attraversa come un automa il deserto in prossimità del confine messicano - accumulano progressivamente gli elementi di una storia possibile, quella di due fratelli, per poi arrivare, dopo un'instancabile processo di sottrazione e la graduale crescita del personaggio femminile, alla vicenda, lineare e nettissima, di Paris, Texas.

Premiato a Cannes con la Palma d'oro, Paris, Texas consacra la fama internazionale del suo autore, trasformandolo in un oggetto di "culto" e sancendo, in coincidenza con la nuova identità commerciale rivelata dal cinema d'autore, la capacità di penetrazione al box office del marchio "Wim Wenders". Ma non è solo questa la svolta indicata dal film. Afferma infatti il regista: "Tutti i miei film precedenti, in realtà, non credevano nella storia, nella trama: si basavano esclusivamente sui personaggi e sulle varie situazioni in cui essi si venivano a trovare. Stavolta, nonostante il fil sia completamente "aperto", la trama ha una direzione molto precisa sin dal primo momento: sappiamo perché Travis sta facendo determinate cose e dove sta andando il film".

Il perseguimento di questa che è lecito individuare come una svolta drammaturgica, non impedisce comunque a Wenders di soffermarsi sui temi per così dire "classici" del suo cinema. In primo luogo quella della comunicazione, punto nevralgico di qualsiasi rapporto interpersonale, momento fondamentale dell'essere nel mondo di cui occorre recuperare, straniandola, l'effettiva funzione. Non è un caso allora se Travis, che proprio sull'azzeramento della parola ha fondato la separazione dal reale, recuperi il legame con le persone amate attraverso una forma comunicativa dapprima istintiva, quasi animalesca, e poi mediata da strumenti tecnologici. Il personaggio di Alex, figlio di Travis, ribadisce poi lattenzione di Wenders per la realtà infantile, universo non idealizzato del quale è impossibile ignorare le lacerazoini prodotte dalle colpe degli adulti, ma il cui sguardo innocente e diretto può sempre garantire l'acquisizione di un'identità. E infine, come anticipato nell'emblematico titolo che allude al luogo mitico di un'impossibile sintesi, il film mette in scena, ancora una volta, il critico dissidio fra America ed Europa, non più risolto, però, a livello cinematografico, ma piuttosto evidenziato come un'alternativa fra due diversi modi di vivere, due diverse condizioni esistenziali. Tale alternativa  affiora nettissima nell'insistita dialettica tra spazi aperti, che restituiscono l'idea del vuoto e della solitudine ma suggeriscono anche la possibilità dello spostamento, del viaggio come momento liberatorio e conoscitivo, e luoghi chiusi, regno della serenità familiare e dell'affermazione dei sentimenti.

Paris, Texas è un film che, come affermato più volte dal regista, non solo segna il definitivo distacco da un' America intesa come approdo mitico, "mondo magico verso cui tendere", a riprova della disponibilità dell'autore all'indagine di nuove dinamiche narrative, ma registra anche l'ingresso nell'universo wendersiano di un personaggio, quello femminile fino ad ora rimosso o soltanto vanamente cercato dal suo cinema.

Nostra sintesi da W.Wenders di F. D'Angelo, Il castoro cinema

 

PIER PAOLO PASOLINI

Dove va l'umanita'? Boh!

Note sui film di Pier Paolo Pasolini

 

"I miei primi film, da 'Accattone' al 'Vangelo secondo Matteo' a 'La ricotta' a 'Edipo re', li ho fatti sotto il segno di Gramsci. Mi sono illuso di fare opere nazional-popolari nel senso gramsciano della parola e quindi da ciò consegue che pensavo di rivolgermi al popolo. Al popolo come classe sociale ben differenziata dalla borghesia, almeno in modo ideale naturalmente, così come l'aveva conosciuto Gramsci e come io stesso l'avevo conosciuto da giovane, almeno fino a tutti gli anni cinquanta. E' successa poi quella che si chiama la crisi, in un certo senso positiva, della società italiana e cioè il passaggio dell'Italia da un'epoca a carattere ancora in parte agrario, artigianale, e comunque paleocapitalistico, ad una nuova epoca: quella del benessere, il neocapitalismo, e quindi con la trasformazione in un certo senso radicale, per quanto fulminea, della società italiana; il trasformarsi cioè di questo popolo, idealizzato da Gramsci e da me giovane, in qualcos'altro, in quella che i sociologi chiamano massa. A questo punto io mi sono rifiutato, non programmaticamente, non aprioristicamente, ma in seguito alle prime esperienze, di fare dei prodotti che fossero consumabili da questa massa; quindi ho fatto dei film d'élite, cioè apparentemente antidemocratici, aristocratici; mentre, in realtà,  essendo film prodotti in polemica con la cultura di massa che è tirannica, che è antidemocratica per eccellenza, in realtà sono un atto, per quanto forse inutile, per quanto idealistico, di democrazia". (da un' intervista televisiva del 1969) .

ACCATTONE - 1961 - Il primo film di Pasolini, ACCATTONE, è del 1961, quando esisteva ancora il "popolo" nelle borgate romane che vivono all' ombra degli ultimi caseggiati di cemento della periferia .

"La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali... Il mondo psicologico del sottoproletario è preistorico, mentre il mondo borghese è evidentemente il mondo della storia ... i miei sottoproletari vivono ancora nell'antica preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria e la somiglianza fra le due preistorie è puramente casuale ".

E' questo lo schema di 'Accattone'. Un personaggio che è epico perché così lo rende la sua natura di emarginato, una carenza oggettiva di autocoscienza, una sterile purezza di atteggiamenti anche nell' inferno della borgata. Il mondo borghese si avverte soltanto per il suo profumo di morte e di tecnologia, comunque lontanamente, ma contrapposto al mondo di forme incerte, essenziali, con qualcosa di religioso come il sentimento vitale dei popoli primitivi, in cui vive Accattone. Tutto questo porterà alla morte sacrificale che riscatta e insieme suggella le colpe del protagonista, che però non muore come un consapevole martire di un' ideologia; semmai è costante l'irrisione di Accattone verso la morte, la fame, la solitudine .

L' amore e la sconsolata concezione metastorica di Pasolini rifiutano ogni dialettica, assegnano ad ogni personaggio un ruolo da recitare fino in fondo, senza porte né finestre. Ognuno si macera in solitudine, con voce che non invoca e non piange, non ricorda e non prevede: Accattone è un punto in cui tutta l' angoscia di Pasolini si raccoglie, prima di distendersi in una più facile narrazione, come sarà in "Mamma Roma" e "La ricotta".

UCCELLACCI E UCCELLINI - 1966 -

" Per chi è crocifisso alla sua razionalità straziante,

macerato dal puritanesimo, non ha più senso

che un' aristocratica, e ahi, impopolare opposizione.

La rivoluzione non è più che un sentimento... "

Il film è una favola ("ideocomica"). Ma anche una nuova e generosa autocrocifissione (con tutto quel che comporta di narcisistico, ma anche di eroico). Pasolini prende la propria crisi e la mostra di fronte a tutti. E' la nota dolente e a tratti disperata di quanto si è perduto che rappresenta l'autentica forza della nuova poetica.

Il cinema di Pasolini ha chiuso la sua partita con il mondo sottoproletario di Accattone e dei suoi primi film. L' ultima immagine dei ragazzi di vita è nostalgica e memorabile. Davanti a un piccolo bar periferico, quattro o cinque tra quelli che furono  gli interpreti di una stagione ballano con la furbizia dritta di un tempo. Ma hanno pronti da una parte gli involti di carta di giornale con il pranzo del giorno e smettono di ballare per inseguire un autobus (che non riescono a prendere ): sono diventati operai, meccanici, tipografi, in città che li ingoiano la mattina per risputarli la sera nei casermoni popolari.

Il tentativo di deviare la natura verso la storia è illusione di corvi che camminano dietro al sottoproletariato aspettando la morte. Certo il corvo-Pasolini non è solo questo; è anche uno spirito libero e dolce, un poeta anarchico.

Nel grigiore sgranato di un paesaggio irreale, accade che la storia finisca e (in modo un po' mitico) indichi un'altro orizzonte dove poter ricominciare a vivere. I cartelli segnaletici non lasciano dubbi: Cuba, Istanbul, il terzo mondo si preparano a farsi protagonisti, a premere sul mondo neocapitalista. L' istinto di vita delle nuove genti in marcia verso il nord aggredirà l'istinto mortuario e decadente dell' occidente.

E' dunque evidente come il film sia il punto fermo di un' esperienza ormai conclusa e risponda a una personale contraddizione ideologica ed umana.

"Fare un film significa (almeno per me) dire la verità sul proprio conto, su quello che realmente si è". Ed in queste parole non c' è solo la sincerità, ma anche la teorizzazione del passaggio dall' oggetto al soggetto, una discesa verticale in se stesso.

EDIPO RE - 1967 - Al presente storico delle marionette che vorrebbero esistere, ma non possono che per pochi attimi, ai memorabili interpreti (Totò e Ninetto) rozzi e straccioni con la loro impossibile speranza, Pasolini preferisce ora il mito e la rabbia autobiografica.

Siamo fuori della storia. Lungo questa strada Pasolini se ne va solitario, con intatto amore per la realtà. Ma è un amore che uccide invece che donare vita, una passione mistica che si ingigantisce e passa per il mito, la metafora, spesso con un' inquietudine che si fa poesia.

Il film è del ' 67 e Pasolini precisa di essere ormai lontano da ciò che la narrazione percorre e con ogni probabilità è vero. Tuttavia resta una vicinanza col senso di quella tragedia originale che Edipo personifica nel mondo.

Cinematograficamente (montaggio, realizzazione delle inquadrature, ritmo) è forse uno dei migliori film di Pasolini. Il prologo e l'epilogo sono tra le cose più riuscite, sequenze fondamentali per mettere a fuoco il giudizio complessivo sull' opera. E qui si scavalca il tragico rituale della tragedia. Mentre si dà la possibilità di cogliere riferimenti al contesto storico, nello stesso tempo si reintegra il mito nella sua atemporalità disumana.

L'epilogo mostra un brandello d' Italia moderna, giovani al bar, vetrine, fabbriche lontane, chiese di provincia. Sono i resti di passate descrizioni rabbiose e ora puro sfondo, lumi appannati. Solo Edipo esiste veramente, in un primo piano della disperazione che lo isola in una fissità secolare. Viaggia da secoli con la ragione e il dolore, il peccato e l'espiazione. Nello stesso bosco dove aveva sentito per la prima volta il sole, il verde dei prati, il suono dei rami al vento, si conclude un ciclo che sembrava immortale: "La vita finisce dove comincia ".

MEDEA - 1969 - Il cinema di Pasolini è spesso scomodo, sgradevole, fa pensare, mette sotto accusa la tranquillità borghese e pasciuta di chi non ha tormenti di alcun genere (di chi ha il lusso di non avere preoccupazioni), discute sulla religiosità vera o presunta delle nostre tradizioni e delle tradizioni della nostra civiltà, è fuori delle consuetudini quotidiane, perché è scabroso e non indiretto: scontenta spesso i conformisti della sostanza come quelli delle apparenze.

Medea ristabilisce per un momento la calma classica di un mondo che Pasolini sente e ama prima ancora come poeta e come scrittore che come regista: è una calma ovviamente più d'apparenza che di sostanza, perché il personaggio centrale non è certo di quelli che lasciano indifferenti; inoltre è utile a Pasolini per tutta una serie di riferimenti al modo in cui viviamo oggi. C'è il discorso sulla violenza, il discorso sui miti falsi e i miti veri (la religione vera e l'opportunismo esteriore), sul vuoto a-spirituale, l'adattamento e il disadattamento di popoli primitivi a circostanze falsamente ed apparentemente libere e in realtà - non di rado - ingannatrici; e c'è il tema del "terzo mondo", della  sua genuinità di atteggiamenti e riflessioni, vicino al contrasto con una "civilizzazione" che non è scevra di residui colonialistici. E c'è - forse ancor più in primo piano - un' impostazione stilistica eppure continuamente sovraccarica di timbri, stacchi, colori significanti.

Il clima è quello di una struttura arcaica localizzata come allo stato di analisi. Alla fine i contrasti scoppiano in fragori violenti eppure, ad esempio, la Callas resta molto misurata nella recitazione. E nello stesso tempo è significativo che la forza del brano finale, l'uccisione dei figli, non sia inferiore per intensità drammatica a quella dell' inizio apparentemente distaccato, oggettivo: destino e coscienza in qualche modo si riavvicinano, il mistero si scioglie nel dramma, cultura popolare e cultura nazionale si legano, nell' intellettuale, per rappresentare il continuo e complesso dilemma dell' uomo.

NOSTRA SINTESI  da: - "Pier Paolo Pasolini" di S. Petraglia, Il Castoro cinema,  La Nuova Italia - "Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea" di P.P.Pasolini, collana Gli elefanti, Garzanti - "Il cinema di Pasolini" di A. Ferrero, Mondadori - " Le ceneri di Pasolini" film di P. Misuraca, prodotto da Fuori Orario, Raitre   

 

Romanzo di un giovane povero

(1995) di E. Scola

La filmografia di Scola sembra avvertire e riflettere più di altre la crisi della commedia all’italiana, ipotizzandone e poi realizzandone la successiva trasformazione.

Dopo le prove registiche dei film Se permettete, parliamo di donne (1964), La congiuntura (1964), Il vittimista (1965), L’Arcidiavolo (1966), Riusciranno i nostri eroi ....? (1968), la sottrazione di comicità inizia con il Commissario pepe (1979): questo film segna il tramonto del modello classico della commedia all’italiana. E’ un  tramonto che avviene nella seconda metà degli anni  sessanta, in corrispondenza di precisi riscontri sociali.

Ridicolizzare i parvenu del boom economico e mettere alla berlina i vizi (soprattutto privati) del perbenismo borghese non basta più. La svolta di Scola ha luogo con un film  che per la prima volta avverte il bisogno di fare del protagonista, il “borghesissimo” Commissario Pepe, una sorta di eroe positivo, il tipo che paga di persona il torto di scoprire gli altarini del potere alla cui conservazione è preposto. Per far questo occorre naturalmente che Pepe abbia la giusta drammaticità, non sia pavido e macchiettistico.

Sempre più nei film di Scola il tono si fa amaro. Il lato abnorme della quotidianità di C’eravamo tanto amati (1974) e la “mostruosità” dei marginali di Brutti, sporchi e cattivi (1976) trovano ideale continuità nella commedia noir del Romanzo di un giovane povero (1995). Il tema centrale del film è quello del disagio della psiche: la morbosa nostalgia di un passato felice della madre, la condizione di disoccupato di Vincenzo, l’ansia patetica di opporsi strenuamente alla vecchiaia del pensionato Bartoloni. I personaggi del film sono bloccati, incapaci di contestualizzare la loro disperazione. Il giovane Vincenzo Persico è come pietrificato, solamente una sorta di automatismo sembra spingerlo nei suoi quasi sempre inutili tentativi di trovare lavoro. A prevalere non è la rabbia contestatrice (diversi da questa sono infatti i momenti del film in cui Vincenzo si abbandona allo sfogo infantile e alla folle e sterile rabbiosità), ma la rassegnazione fatalistica. Forse va interpretato in questo senso l’anticipazione della sorte del giovane posta all’inizio del film, che conferisce al racconto un tono di ineluttabilità, di tragicità senza catarsi finale.

Se nel primo film del ciclo La crisi di Serrau la crisi si manifesta come esplosione dinamica e dialettica delle conflittualità, in questo film il conflitto si pone come condizione statica, fissa, che attraversa i personaggi senza scuoterli: non c’è un orizzonte di fuga possibile e, paradossalmente, proprio la prigione rappresenterà per Vincenzo la liberazione finale. Come già sperimentato in altre prove registiche, anche qui Scola contamina il genere della commedia con atmosfere gialle e noir, intensificandole in alcune scene (incontri di Vincenzo nell’androne del palazzo con Bartoloni) con una resa espressionistica della fotografia. Si tratta tuttavia di un noir atipico dal momento che l’attenzione del regista non è concentrata sulla risoluzione dell’intrigo, ma sull’analisi dei meccanismi psicologici che ci illuminano sui comportamenti dei due indagati.

 

 

Schindler's list

di S.Spilberg (USA 1994)

A qualcuno forse suonò quasi offensivo e blasfemo che l'autore holliwoodiano più "compromesso", con un'idea ludica e infantilmente fantasiosa del cinema, appena reduce dal film-zoo sui dinosauri -imposto sul mercato con una campagna pubblicitaria senza precedenti- si fosse messo al lavoro su un tema come quello dell'Olocausto. S., di origine ebraico-polacca, accarezzava l'idea già da tempo.

Il film indubbiamente segna una rottura col cinema precedente dell'autore. La meraviglia della fantasia, che aveva sostanziato pressoché ogni sua pellicola (persino, in taluni momenti, opere di sofferenza come il Il colore viola e L'Impero del Sole) e che intendeva costruire il suo apogeo in Jurassik Park non ha alcuno spazio nel suo progetto di film razziale. Strana cosa che, dopo un quarto di secolo passato nel tentativo di accattivarsi la Motion Picture Academy, Hollywood gli abbia concesso attenzione ed onore alla cerimonia degli Oscar per una pellicola così poco rappresentativa di ciò che caratterizza l'intera sua opera. Ed è altrettanto strano che, al contrario, proprio la critica si sia trovata in impaccio davanti al film, non sapendo se affrontarlo come prodotto di immaginazione, documento di una tristissima pagina di storia contemporanea, studio (auto)biografico o altro ancora.

Spielberg si è documentato sulla vita di quel gruppo di ebrei schindleriani, ma ha ovviamente improvvisato sui particolari delle loro giornate. Non i fatti, s'intende, ma i dettagli. Come possiamo essere sicuri che Goeth compisse davvero quei movimenti, che quel giorno fosse davvero a letto con quella ragazza, che si rimirasse allo specchio soddisfatto della sua magnanimità dopo aver deciso di concedere il perdono? Il punto è tutto qui: se ci  si aspetta la verità da quello che il cinema non può fare altro che inventare, immaginare, allora siamo condannati ad esserne gli impietosi, ciechi giudici, incapaci di capire che nella sala buia la verità non  sta nell'aderenza al documento, ma nello spirito che il documento induce in noi e che è compito del film -di quel tipo di film- richiamare, suggerire, rievocare. E questo Spielberg lo fa benissimo, nonstante il confronto con il libro di Keneally non porti alcuna prova, non fornisca alcun aiuto in questo senso. In nessun luogo possiamo leggere con certezza una precisa, inequivocabile definizione della personalità e degli intenti di Schindler. Ed è bene che sia così: perché tutti, senza distinzione, siamo fatti in modo da non permettere una chiara lettura delle motivazioni delle nostre scelte, dei nostri atti. Schindler ha salvato 1100 ebrei: questo è quanto, ed è bene ricordare che è ampiamente bastato agli interessati per offrirgli in eterno la loro riconoscenza e il loro affetto. In questo incontro fra Capitale e Morale, la joint venture è paritetica, l'uno rischia quanto rischia l'altra, l'uno vince quando vince l'altra. Tranne naturalmente verso la fine della storia, quando ormai ciò che più conta ha preso la mano (e il cuore) a Schindler, che usa la fabbrica unicamente come copertura per gli operai.

Tutto questo va benissimo, è bello, è nobile, persino quando motivazioni e disegni non sono completamente distinguibili; fa parte della vita, del carattere umano, della sua psiche, delle sue stesse debolezze così come della sua forza. Ma Schindler non è la politica, non è la Germania, e, pur affiliato ad esso, non è il partito nazista. Il film ricorda una persona, un gruppo, un evento nel quadro di un sacrificio razziale senza precedenti per efferatezza e crudeltà, ma non fa di questo quadro il suo argomento globale.

Ma qui Thomas Keneally  e Spielberg rinunciano a creare un personaggio diviso tra luce e ombra e optano per un santino, in cui c'è l'ennesima pecora nera, che francescanamente si redime sino a privarsi di ogni ricchezza  per avere nella sua azienda, costino quel che costino in bustarelle, il maggior numero di ebrei da sottrarre a un destino peggiore. Abbiamo, più che il calvario dei ghettizzati, la redenzione, il ravvedimento di un tizio che agli inizi della vicenda il cuore lo metteva a tacere per far crescere il conto in banca. Rivien fuori una vecchia conoscenza che non è stata prerogativa unica del realismo socialista, l'eroe positivo, accarezzato da Hollywood soprattutto negli anni Trenta e anche più tardi. Il peccatore che si riscatta, l'individuo dalla scorza dura che si intenerisce più del Bogart di Casablanca e si conquista le onorificenze tributategli dallo Stato di Israele.

In conclusione un film diverso nell'universo spielberghiano,ma ancora legato ai meccanismi hollywoodiani, sincero nello spirito che lo anima, ma forse meno intenso di altri film sul tema dell'Olocausto.

Nostra sintesi da Steven Spielberg, Franco La Polla, Il castoro cinema (1995) e "Schindler's list", un film benemerito ma non memorabile, Mino Argentieri, Cinemasessanta n.1 (1995)

 

Sur

di Fernando Ezquiel Solanas, 1988

A metà degli anni '60, in una Argentina orfana del peronismo e combattuta tra rivoluzione e reazione, inizia l'attività cinematografica e "politica" di Fernando Solanas. Insieme ad altri registi argentini, quali Getino e Vallejo, fonda il gruppo Cine Liberation. L'intento è quello di utilizzare il cinema come strumento di documentazione sociale e di interpretazione storico-politica dell'Argentina e,  a più ampio respiro, come mezzo di lotta di liberazione in quei paesi allora etichettati come Terzo Mondo. Il risultato più significativo di questa esperienza è L'ora dei forni, un lungometraggio documentario a cui Solanas lavora insieme a Getino negli anni '66-68 per circa trenta mesi, in uno dei periodi più repressivi della storia dell'Argentina. Il film è una trilogia sulla società argentina che ripercorre i diversi conflitti (economici, sociali ecc.) che hanno portato prima al peronismo poi alla sua caduta e infine a quello che fu definito il "decennio della violenza"; gli autori identificano il sindacalismo peronista come forza trainante della rivoluzione sociale e trattano vicende nazionali storiche in termini aggressivi e stimolanti, tali da richiedere la discussione critica e la partecipazione diretta del pubblico.

A questo lungometraggio seguirà, in perfetta sintonia col precedente, Los hijos de Fierro, ispirato al poema epico nazionale Martin Fierro. Nel 1976, per ragioni politiche, Solanas si trasferisce in Francia, dove rimarrà fino al 1983 anno di ritorno alla democrazia dell'Argentina. Nella produzione relativa a questo periodo più recente figurano film come Tango-L'esilio di Gardel e Sur, film con forti connotati autobiografici.

Premiato nel 1988 al festival di Cannes per la miglior regia, Sur è l'ideale proseguimento del sofferto e appassionato Tangos-L'esilio di Gardel. Il film racconta la vicenda di un prigioniero politico, Floreal, uscito dal carcere nel 1983 all'indomani del ritorno alla democrazia della società argentina attraversata da cinque anni di dittatura militare che ha provocato 50.000 morti e 30.000 "desaparecidos".

Il film si divide in 4 parti che caratterizzano i temi trattati dal regista: il sogno, la politica, la morte, l'amore, che si intrecciano continuamente, portando alla luce l'impegno politico contro la dittatura e il "sistema" e la dinamica della vita quotidiana caratterizzata da amore, amicizia, sesso e tradimento.

Sur è il sogno che, dalla traduzione del titolo, è il "sud". Il sogno è la speranza di emanciparsi dal Nord del mondo, colonialista e imperialista. I richiami continui al peronismo, movimento politico populista, messo al bando per quasi tre decenni dalle varie dittature succedutesi al governo in Argentina, caratterizzano il progetto politico SUR. Questo progetto vuole cambiare totalmente il sistema politico sociale ed economico dell'Argentina.

Questa speranza è stata clamorosamente tradita dall'applicazione "reale" del peronismo del dopo dittatura (dall'83 ad oggi) con Alfonsin e Menem, che hanno applicato le ricette delle istituzioni economiche internazionali con tale solerzia da impoverire gran parte della popolazione. Speranza tradita anche per quanto riguarda la giustizia sui diritti umani violati durante i 7 anni di dittatura. I generali, responsabili di grandi nefandezze, non hanno ancora pagato i loro crimini.

L'atmosfera di Sur è surreale. Continui sovrapposizioni di più piani di racconto: quella surreale, quella possibile, quella passata, completano la storia del e l'idea del film e sono funzionali all'esplicazione dei temi sopra descritti, supportati anche dalle musiche di Astor Piazzolla.        

Con la fine del film il regista invita alla resistenza politica e sociale contro ogni dittatura e discriminazione, ribadendo che i problemi della vita quotidiana, i sentimenti, gli affetti, gli amori, la gelosia, non debbano essere pretesto per concentrare la propria riflessione esclusivamente su sé stessi.

 

Terra e libertà

di K. Loach (1995)

Il film di Loach sfugge innanzitutto al rischio del kolossal o del grande film di guerra, che il titolo potrebbe suggerire ed il tema affrontato (la guerra di Spagna) avrebbero certamente corso nelle mani di un altro regista. Il rischio è evitato evidentemente per ragioni di produzione, ma è abbastanza chiara una scelta precisa di Loach, quella di raccontare il grande evento storico attraveso le sorti di un piccolo gruppetto di rivoluzionari. In quest'ottica appare subito chiaro come il tema trattato e la visione politica del regista siano inscindibili dallo stile che caratterizza la sua opera. L'attenzione al particolare ed il rifiuto della visione "generale" quando questa si fa astratta si sviluppano attraverso un linguaggio che è lo stesso degli altri film di Loach: molta camera a mano, senza i grandi dolly o i lunghi carrelli che ritualizzano la guerra, con un taglio che spesso fa immergere lo spettatore nella vicenda. Non c'è mai uno sguardo distaccato della macchina da presa. Scena emblematica, da questo punto di vista, è quella della assemblea nella Casa del Popolo appena espropriata al latifondista di turno: la scena è girata allo stesso modo delle scene di Riff-Raff in cui i lavoratori, in un piccolo ufficio, discutono o scherzano nelle pause di lavoro del cantiere, e cioè in modo da far percepire - attraverso le varie inquadrature - l'idea di una soggettiva (il punto di vista di una persona presente nella scena, che la osserva dall'interno). Questo da un punto di vista formale. Il contenuto della scena, è d'altra parte assolutamente coerente. I contadini che collettivizzano la terra sulla base di riflessioni che sono sempre il frutto dell'esperienza quotidiana, del contatto diretto con la loro realtà, con la loro terra, devono affrontare il punto di vista "generale" degli stalinisti che ragionano in termini per loro astratti, statuali. Se i contadini percepiscono la collettivizzazione della terra come appropriazione di classe (il ché è emblematicamente rappresentato dalla terra che il giovane inglese riporterà in patria), non altrettanto si può dire degli stalinisti, che non esiteranno a sacrificare la collettivizzazione.

"Nel maggio del 1937, soprattutto a Barcellona, ma anche altrove in Catalogna, si verificarono scontri armati tra le milizie del Poum (Partito operaio di unificazione marxista), alleate con gli anarchici della CNT-Fai, ed il resto delle forze armate e politiche repubblicane che lottavano contro il generale Franco. Al fondo di questo scontro, che avrebbe indebolito le capacità di resistenza della Repubblica, c'era la preponderanza conquistata dalle forze repubblicane moderate e dal Partito Comunista (PSUC in Catalogna) sull'avanguardismo rivoluzionario del POUM e degli anarchici. Il Partito Comunista considerava prioritario vincere la guerra prima di fare la rivoluzione; la contrario, gli anarchici ed i membri del POUM volevano mantenere le milizie popolari e lanciare un processo di collettivizzazione che avrebbe impegnato i lavoratori nella difesa di una Repubblica dei lavoratori".

" E' puro anacronismo cercare ora di risolvere la questione se fosse prioritario vincere la guerra o fare la rivoluzione, ma è necessario che la memoria storica dei comunisti obbedienti alla Terza Internazionale assumano la mostruosità del caso dell'anarchico Nin Andreu (ucciso da agenti sovietici) e delle repressione contro il POUM". "I comunisti del PSUC avevano la loro logica rivoluzionaria, come l'avevano quelli del POUM, e in quella svolta della storia le due parti in conflitto convergevano sulla necessità della violenza e del terrore rivoluzionario. Non si può trattare una parte come intrinsecamente violenta e totalitaria e l'altra come inerme e innocente nelle mani della barbarie comunista. Una cosa è ora denunciare la sconfitta della ragione libertaria rappresentata dal caso Nin e l'alienazione della maggioranza dei seguaci dello stalinismo; altra cosa è demonizzare un settore comunista protagonista di buona parte della lotta contro il franchismo durante e dopo la guerra". 

(Tratto da Manuel Vasquez Montalban, Il manifesto 24/9/95)

"E quando sarà il momento giusto perché i comunisti facciano i conti con la loro storia?".             "E' un pezzo di storia nostra, e noi siamo speciali per non esaminarla quando siamo in guerra, e archiviarla quando la guerra è finita. Finita: ogni giorno siamo più stretti, ci hanno liquidato dalla politica, ci esorcizzano gli ex giovani che vorrebbero non averci mai incontrarti e non ci capiscono i giovanissimi che non hanno neanche avuto il tempo di incontrarci. Nulla mi leva dal capo che siamo deboli anche a causa dei nostri silenzi".

"Non credo a chi mi sussurra: meglio non pretendere di cambiare, perché solo il proporsi un intervento implica volontà di manipolazione e dominio, come se non fosse in atto un devastante processo di alienazione, del quale non occorre essere Lenin, basta essere Daharendorf per allarmarsi. Perché il nostro progetto è sconfitto?"

(Tratto da Rossana Rossanda, il manifesto 13/10/95)

La guerra civile spagnola si protrasse dal 1936 al 1939. Causò la morte 600.000 persone. Circa 400.000 morirono a causa delle squadre della morte di Franco durante e dopo la guerra. Altrettanti spagnoli vennero uccisi in esilio. Fra i morti vennero contati migliaia di volontari stranieri giunti in Spagna per combatter il fascismo. La sconfitta della democrazia spagnola lasciò per i successivi 40 anni nelle mani della dittatura fascista.

Con la caduta dei regimi comunisti la Rivoluzione Spagnola va anche ricordata come uno dei pochi tentativi rivoluzionari alternativi allo stalinismo. Il cinico abbandono da parte delle democrazie occidentali contrastò con la solidarietà di massa espressa dai lavoratori di tutto il mondo.

 

LUCHINO VISCONTI

            La duplicità sembra attraversare la personalità viscontiana senza risparmiare versante alcuno; si tratta di una duplicità che ne percorre tutti i momenti e gli aspetti possibili: biografico, culturale, politico, creativo.

            Luchino Visconti fu infatti intellettuale di estrazione aristocratica ma, fin dagli anni del'adolescenza e della prima giovinezza, di formanzione, di orientamento, di scelte, diciamo, progressisti. Un progressismo che si esprime dapprima sul fronte delle scelte e delle determinazioni antifasciste - vissute, tra l'altro in quella fase, con molta coerenza e con molto coraggio - e che nel dopoguerra lo porterà, sostanzialmente, a schierarsi a sinistra, soprattutto a fare proprie le posizioni generali del partito comunista, senza tentennamenti, esitazioni, incertezze, anche nei momenti in cui altri, invece, denunciano crisi più o meno profonde, più o meno attendibili.

            Profeta e anticipatore del neorealismo secondo una certa tradizione o, se si preferisce, secondo una certa leggenda. Profeta e anticipatore, con Ossessione (   ), e autore poi dell'opera più esemplare e più alta del cinema neorealista La terra trema, ma negli stessi anni, impegnato in campo teatrale in una azione che, se non andava nella direzione opposta, certamente introduceva in questo quadro parecchi elementi di dubbio, di contraddizione, quantomeno di discussione. Mentre girava La terra trema (1948) o Bellissima (1951), Visconti svolgeva infatti un'azione senza dubbio salutare di aggiornamento e di rinnovamento delle scene italiane, troppo a lungo imprigionate in una improduttiva autarchia, seppure gli autori ai quali egli si rifaceva, i testi che proponeva erano i più disperati ed eterogenei possibili.

            Il più intransigente, il più puro dei neorealisti, si dirà in un film come La terra trema, e tuttavia per formazione, per riferimenti culturali, molto diverso dalla figura canonica dal regista neorealista, con un backgroung di gran lunga più ricco, più articolato, complesso, e che gli altri, anche i maggiori, come Rossellini e Zavattini, conoscevano indirettamente, "orecchiavano" in un certo senso dall'esterno. E ancora, a proposito della duplicità che dicevamo, a teatro fu un grande anzi beffardo dissacratore di classici: si ricorda una sua edizione di una tragedia di Alfieri, con fanfare e penacchi in cui si rivisitava allegramente certi moduli e stilemi della tradizione con una disinvoltura e un'arditezza che restano un episodio abbastanza circoscritto nella storia, poi fondamentalmente molto tranquilla, del teatro italiano. Sempre a teatro, però non nascondeva la sua avversione e la sua sordità nei confronti, non solo delle maggiori esperienze del teatro contemporaneo, ma anche di quelle con le quali il suo marxismo avrebbe dovuto comunque entrare in un rapporto di attrito di confronto, se non necessariamente di adesione.Si pensi a Brecht e alle avanguardie che restano sempre fuori, direi proprio organicamente, costitutivamente, dall'arco delle letture e delle scelte viscontiane.

            La fonte di molti equivoci consiste nell'aver voluto a ogni costo stabilire una coincidenza puntuale, anzi una coincidenza esemplare tra il lavoro di Visconti e alcuni nodi e luoghi fondanti della cultura antifascista e progressista: nell'aver cioè voluto istituire un rapporto stretto, meccanico, conseguente tra certi momenti contraddittori ma comunque alti di sviluppo, di tensione di una certa cultura, e una esperienza, un lavoro, una posizione un approccio, come quelli di Visconti, che avrebbero in un cero senso dovuto riassumere tutti questi momenti portandoli a una grado di esemplarità e di perfezione quasi paragdimatiche.

            Non possiamo certo dimenticare che Visconti, pur con interventi abbastanza episodici e parsimoniosi, è però stato per tutta una fase organicamente legato a una certa storia della cultura italiana antifascista e progressista, e quindi ha contribuito direttamente alla costruzione dell'immagine critica che abbiamo ricordato. Ma si tratta di un abito stretto, un abito stretto che lascia fuori troppe cose ovvero le conduce a contraddizioni talvolta lancinanti, non componibili; un abito che offre di un opera e di una personalità così complessa una immagine riduttiva, che finisce coll'impoverirle anziché arricchirle e precisarle.

Comincia il lungo viaggio di Visconti a ritroso nella memoria. La natura dei materiali, dei registri letterari, figurativi, musicali (il loro uso mai meramente scenografico) e lo straordinario grado di fusione al quale Visconti li reca, non sono dati esterni di sensibilità e di gusto, sono l'habitat culturale di questi personaggi, l'aria stessa che respirano, i loro comportamenti divengono la proiezione critica della visione e della cultura dell'autore, che in essi si rappresenta, si obiettiva e si giudica.

            Per questo in Senso (1953) e negli altri film che verranno, la volontà e il gusto dello smascheramento sono così acri e impietosi. L'autore ripercorre criticamente dall'interno la propria storia con una capacità di corrosione, di dilatazione che si farà sempre più fievole, ma non senza colpi di coda, assalti e tentativi di sortita, per quanto anch'essi via via più vaghi.

           

 

Vito e gli altri

(1992 - A. Capuano)

L'opera prima di Capuano non parla solo di bambini. Il film parla innanzitutto di una cultura, quella cultura che ormai distrattamente noi ci lasciamo scivolare addosso senza soppesare il suo impatto, la cultura televisiva delle automobili luccicanti e delle belle gambe - o delle telenovelas. I personaggi del film - ed in particolare Vito - si integrano in maniera perversa - in quanto si legano in modo assolutamente naturale - con quelli osservati in carne ed ossa nei quartieri di Napoli, i modelli degli spacciatori, dei boss, di chi ce l'ha fatta ed è rispettato. In questo contesto Vito non può che essere fiero dell'esperienza del riformatorio, ostentata con un tatuaggio. Capuano ci suggerisce, insomma, che il modello di massa imposto è sempre metabolizzato e integrato con la propria cultura.

Un'altro aspetto molto interessante del film riguarda il rapporto con un cinema realista e la soluzione particolare con cui questo rapporto è risolto dall'autore. Il neorealismo era stato caratterizzato dalla convinzione che la realtà fosse lì pronta e si trattasse innanzitutto di imprimerla sulla pellicola (Zavattini). Ma il cinema neorealista era poi andato in crisi a causa delle sue carenze teoriche, per cui le sue opere - frutto di un affascinato moto istintivo di attrazione verso la realtà - hanno presto mostrato la corda. In Vito e gli altri Capuano non fa un'operazione neorealista. Infatti, se sceglie di usare attori non professionisti, che parlano un dialetto che spesso necessita di sottotitoli, tuttavia fa alcune scellte che caratterizzano in modo fortemente "ideologico" il film: il racconto è frammentato dalle interviste-lezioni di vita che gli stessi protagonisti rivolgono al pubblicco, seduti su sedie da bar in mezzo alla strada; prese da sole potrebbero costituire un documento televisivo, ma nel film sottolineano l'intento ideologico che nel documentare vuole innanzitutto accusare. In altre parole, mentre con le interviste Capuano vuole suggerirci che "nella realtà" quei bambini sono proprio così come nel film, d'altra parte le interviste interrompono il racconto della vicenda, imponendoci con questo distacco una riflessione, pretendendo quindi l'attenzione anziché la partecipazione emotiva del pubblico.

Analoga funzione hanno le lente panoramiche circolari sui bambini che si affacciano sulla città: non sono belli visti cos? Quei bambini così poeticamente rappresentati sono spacciatori, assassini, prostitute. Che ne pensate? In fondo l'operazione è molto cinematografica - e poco neorealista - proprio per questo: l'artificio del montaggio alternato non mostra semplicemente una realtà che è stata fotografata. Ci dice anche come guardarla e pretende una messa in discussione.

 

Z - L'orgia del potere

di Constantin Costa-Gavras (1969), durata 126'

Il film è tratto dal romanzo dello scrittore greco Vassilis Vassilikos che rievoca l'affare Lambrakis. Il film parafrasa la vicenda esplosa in Grecia nel 1963 quando Gregorio Lambrakis, professore di medicina all'Università di Atene e deputato di sinistra al parlamento, venne investito da un automezzo, riportando ferite gravissime che lo condussero in pochi giorni alla morte. Se ne originò un processo largamente manipolato, secondo la denuncia di Vassilikos, dalle autorità greche, che doveva poi sostanzialmente terminare con un nulla di fatto ed infine con la riabilitazione degli alti ufficiali colpevoli, affermandosi in Grecia il regime dei colonnelli. Il film si svolge in un immaginario paese mediterraneo (si tratta di una coproduzione franco-algerina), ma le intenzioni degli autori sono esplicite nel rifarsi, sia pure con altri nomi, all'affare Lambrakis. Z (iniziale del verbo greco zow che significa "è vivo") è ciò che veniva scritto sui muri all'epoca dell'omicidio di Gregorio Lambrakis.

Z, L'orgia del potere è costruito con grande abilità, ma anche con enfasi tesa a tracciare un quadro di immediata presa spettacolare. E' un film esplicitamente politico volto a interessare la più larga udienza possibile. Il film riscosse un grande successo di pubblico in Francia e all'estero conquistando addirittura nel 1970 l'Oscar quale miglior film straniero.