"IL
RAPPORTO TRA AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI E
GLOBALIZZAZIONE NELLA POLITICA
E NELL'ECONOMIA IN
RELAZIONE AL DIRITTO
ALLO
SVILUPPO NELLE RELAZIONI NORD-SUD "
Capitolo
I
LO
STATO NAZIONE
1.1.
La sovranità nazionale
1.2.
I caratteri dello Stato-nazione
Capitolo
2
AUTODETERMINAZIONE
E SVILUPPO
2.1.
L'autodeterminazione dei popoli
2.2.
Dal colonialismo all'autodeterminazione dei popoli
2.3.
L'autodeterminazione nello svilippo storico e nelle dichiarazioni
internazionali
Capitolo
3
IL
DIRITTO AD UNO SVILUPPO UMANO AL TRAMONTO DEL XX SECOLO
3.1
Rapporto UNDP: numeri drammatici, fine del concetto di sviluppo
legato alla crescita economica?
3.2
Crisi del concetto di Stato-nazione
3.3.
Il diritto dei popoli e le "forme" dello sviluppo nelle
nuove dichiarazioni
Capitolo
4
L'ONU
DEI POPOLI
4.1.
Ipotesi di possibili soluzioni
BIBLIOGRAFIA
Capitolo
I
LO
STATO NAZIONE
1.1.
La sovranità nazionale
Il
termine "nazione", in forma moderna, comincia a comparire
nel discorso politico nel corso della Rivoluzione Francese: "Il
principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione;
nessun organo, né alcun individuo può svolgere il proprio potere
senza espressa delega". (Art.3 della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino).
A fondamento di tale teoria c'è la
nozione fondamentale del contratto sociale di Rousseau. Il contratto
sociale sembra assicurare a ogni individuo l'indipendenza cui
ha diritto. Esso sottolinea così l'impegno reciproco e legale
fra i cittadini e quello della volontà della nazione concepita
come la legge suprema, cioè la nazione sovrana. Contratto sociale
come sovranità della volontà generale, mandato della nazione a
chi è incaricato di esercitare i suoi poteri. [Groeuthysen, 1967]
E' per propria scelta e non per costrizione
che ogni individuo fa parte del tutto; la comunità nella quale
entra, fondata sul diritto, gli garantisce i suoi diritti. E'
il libero cittadino di una libera nazione. In tal modo la coscienza
dell'individuo di appartenere legittimamente alla nazione, senza
attentati alla sua libertà, soddisfa il sentimento della sua dignità
umana, e nello stesso tempo determina il suo rapporto con la comunità
dei cittadini, l'unisce ai compatrioti. La nazione è un tutto
legale, composto di individui, liberi per diritto e uniti tra
loro allo stesso modo, attraverso un contratto.
Il popolo, dice Rousseau, non può separarsi dalla sua sovranità,
non può alienare la sua libertà. La sovranità del popolo è indefettibile,
non può essere trasferita su nessuno. Il popolo, come l'individuo,
non potrebbe alienare la sua libertà e cedere i propri diritti
a un'altra persona senza diventare uno schiavo. Il popolo è e
resta sovrano. [Groeuthysen, 1967]
La volontà generale è il potere supremo.
Tutte le funzioni vengono da essa distribuite e da essa continuano
a dipendere. Essa realizza il diritto perseguendo il proprio scopo
che non è altro che quello di assicurare all'individuo il libero
esercizio di tutti i suoi diritti. Essa ha per fondamento e per
fine il diritto.
Comunque, obietta Rousseau, l'istituzione
di un governo da parte del popolo non può esser nata da un contratto.
Non possono esservi contratti tra un popolo e i capi che esso
si dà. Non può esservi che un impegno reciproco di cittadini fra
loro: il contratto sociale. [Groeuthysen, 1967]
1.2.
I caratteri dello Stato-nazione
In
chiave di una visione politica nazionale, che faceva coincidere
lo Stato con la nazione, rivalutando tutte le componenti della
nazione stessa, si cominciò a considerare il "popolo"
come possibile soggetto di vita politica.
Così le élite borghesi ottocentesche,
che percepiscono sé stesse come "popolo", si sforzano
di perimetrare identità e confini sulla base di lingue e storie
nazionali funzionali all'obiettivo che definiscono prima il nazionalismo
poi la nazione; prima la creazione dello Stato poi la legittimazione
in chiave nazionale dello stato [Hobsbawn, 1991].
Secondo Hobsbawn quattro sono i criteri
individuabili che nel corso dell'800 distinguono la volontà riuscita
di un "popolo" di porsi come nazione, con il diritto
attraverso l'apparato dello Stato-nazionale: "il tacito principio
della 'taglia minima'"; poi "il suo essere storicamente
associato a uno Stato esistente oppure di possedere un notevole
passato"; una élite culturale, una letteratura nazionale,
un gergo amministrativo; "la provata capacità di conquista"
[Hobsbawn, 1991].
Anche per Albertini M. per giungere
a una definizione positiva di nazione, si accerta il modo in cui
la presenza dell'identità nazione si manifesta nel comportamento
osservabile degli individui, cioè nell'identificare un "comportamento
nazionale". In pratica è l'organizazzione politica della
società che si identifica con l'organizzazione della cultura attraverso
l'ideologia. L'individuo reale a questo punto è spazzato via.
Diventa elemento di una volontà collettiva organica, di un 'tutto'
sociale: una razza, una religione, uno Stato. Nel caso della nazione
l'individuo si identifica con essa, "porta con sé la nazione",
è ridotta a esclusivo "essere nazionale". E poiché la
nazione si esprime nello Stato, ogni individuo si identifica con
esso e il cerchio si chiude [Ilardi,
].
Storicamente il sentimento nazionale
è stato creato, dunque, mediante l'estensione forzata a tutti
i cittadini dello Stato di alcuni tipici contenuti della nazionalità
spontanea (per esempio la lingua) o quantomeno, quando questa
estensione si è rivelata inattuabile, mediante l'imposizione dell'idea
falsa che alcuni contenuti tipici della nazionalità spontanea
fossero comuni a tutti i cittadini (per esempio i costumi). Questo
processo si è attuato, negli Stati che l'hanno portato avanti
fino in fondo, con l'imposizione dei contenuti caratteristici
della nazionalità spontanea prevalente e con la soppressione delle
nazionalità spontanee minori (a questo proposito è paradigmatico
il caso della Francia).
In Francia, ritiene Balibar, "come,
mutatis mutandis, nelle altre vecchie formazioni borghesi, ciò
che ha permesso di risolvere le contraddizioni prodotte dal capitalismo
e di iniziare a rifare la forma nazione, benché non ancora compiuta,
è l'istituzione dello stato-nazionale-sociale, cioè di uno stato
che 'interviene' nella riproduzione stessa dell'economia e soprattutto
nella formazione degli individui, nelle strutture della famiglia,
della sanità pubblica e più in generale di tutto lo spazio 'privato'"
[Balibar, 1992].
Ecco che lo sviluppo del "comportamento
nazionale" si è evoluto in concreto insieme ai grandi processi
di trasformazione economico-sociale aperti dalla Rivoluzione Industriale
inglese, e, quindi, dalla conseguente formazione di grandi partiti
politici popolari.
Il concetto di Stato-nazione, che
è determinato maggiormente dall'organizzazione economica internazionale
piuttosto che dai concetti che storicamente avevano determinato
o rappresentato il concetto di nazione, coincide con vasti interessi
comuni di più classi sociali, che vi aderiscono più o meno coscientemente,
soprattutto gli Stati europei traggono un vantaggio economico
non indifferente dalla stipulazione di un "contratto sociale".
La scala dei lealismi si rovescia, e il sentimento "economico"
di appartenenza alla propria nazione, al proprio Stato nazionale,
acquisisce una posizione di assoluta preminenza su qualsiasi altro
sentimento di appartenenza territoriale, religiosa o ideologica,
proprio con il formarsi di uno Stato-nazione organizzato, burocratizzato
e accentrato amministrativamente, coinvolto in prima persona per
favorire le élite borghesi che sullo scambio economico transnazionale
basano oramai tanta della loro forza.
Con il passare degli anni risulta
sempre di più che la nazione è l'ideologia di un certo tipo di
Stato, poiché è proprio lo Stato l'entità alla quale concretamente
si dirige il sentimento di fedeltà che l'idea di nazione suscita
e mantiene.
Capitolo
2
AUTODETERMINAZIONE
E SVILUPPO
2.1.
L'autodeterminazione dei popoli
Nel
corso del XX secolo il concetto di sovranità nazionale è stato
ribadito sul piano storico e politico attraverso quella che viene
chiamata "autodeterminazione
dei popoli", con la quale, sul piano sociologico,
si intende la capacità che popolazioni sufficientemente definite
etnicamente e culturalmente hanno di disporre di sé stesse e il
diritto che un popolo ha di scegliersi l'organizzazione dello
stato e la forma di governo. L'autodeterminazione, concepita come
un diritto universale, nella sua duplice accezione di diritto
interno e internazionale, deve assicurare ad ogni popolo la propria
sovranità interna, le fondamentali libertà costituzionali, senza
le quali la sovranità internazionale dello Stato è poca cosa.
E' un diritto che non si esurisce con l'acquisizione dell'indipendenza,
ma che accompagna la vita di ogni popolo. L' autodeterminazione
dei popoli è strettamente legata ai diritti degli individui, dei
quali costituisce un corollario; sarebbe una palese contraddizione
lottare per l'autodeterminazione calpestando i diritti fondamentali
della persona umana.
Ma nel secolo XX questo concetto
ha assunto un significato maggiormente storico, essendo comunemente
associato alle forme di emancipazione politica ed economica del
fenomeno dell'imperialismo capitalistico.
L'imperialismo è da intendersi come
estensione da parte degli Stati o di sistemi politici analoghi,
dell'ambito territoriale della loro influenza o del loro potere
diretto e come forma di sfruttamento economico a danno degli Stati
o popoli soggiogati.
Una delle forme che l'imperialismo
ha assunto nella storia è stato il colonialismo, cioè la colonizzazione
dei paesi extraeuropei da parte soprattutto dei paesi europei.
La colonizzazione è un processo di espansione militare, politico
ed economico di conquista delle colonie. Il colonialismo, a differenza
di colonizzazione, definisce più propriamente l'organizzazione
dei sistemi di dominio.
Il colonialismo stesso ha avuto più fasi e più modi di
manifestarsi, anche se il concetto di fondo ha avuto ed ha un
unico significato. Un primo periodo è stato quello in cui il colonialismo
è determinato dalla espansione del commercio nel mondo, la costituzione
di basi sulle coste dei continenti extraeuropei, lo sfruttamento
delle miniere d'oro e di argento, il commercio dei tessuti indiani
o delle spezie orientali.
Questo tipo di colonialismo veniva
portato avanti dalle maggiori potenze europee con due ideologie
diverse: l'ideologia coloniale inglese con un sistema, definito
indiretto, interviene sulle società tribali, mutandone i confini,
definendoli e adattandoli alle esigenze di ristrutturazione
e controllo della produzione e dei flussi della forza-lavoro,
così che i capi tribali, strumenti essenziali per il controllo
politico territoriale, vengono creati dove non esistono e quelli
restii a lavorare vengono sostituiti; quella francese è caratterizzato
da sistemi fortemente centralizzati. Il sistema coloniale francese
in teoria si presenta come portatore della "mision
civilisatrice" che dovrebbe cancellare qualsiasi struttura
di potere tradizionale, livellando ogni società in uno sviluppo
lineare definito da una amministrazione centralizzata e uniforme
col supporto di un sistema educativo del tutto simile a quello
della madrepatria.
Queste ideologie europee lasciano
spazio a quella "più moderna", quella americana attraverso
la dottrina Monroe, la cui conseguente opera di colonialismo ebbe
inizio ai primi del '900. Essa si risparmiava un proprio apparato
coloniale e proprie truppe coloniali, in quanto trovava più economico
comprare governi locali, che grazie al mantenimento di un'indipendenza
apparente gettavano polvere negli occhi della resistenza anticolonialistica
delle masse popolari, mascherando la realtà della dominazione
straniera [Markov, 1972].
Nel 1878 il 67% delle terre emerse
era stato colonizzato, mentre intorno al 1914 il mondo appariva
praticamente ripartito, tanto economicamente quanto territorialmente
(84,4%) e l'organizzazione capitalistica permetteva un sempre
più efficiente sfruttamento delle risorse dei paesi e delle popolazioni
dominate.
Per i paesi colonizzati dal dominio
economico occidentale la conseguenza principale fu quella di non
favorire un processo di sviluppo autonomo e globale che coinvolgesse
tutti i comparti economici. La struttura dell'economia dei paesi
arretrati rimase "dualista", un settore dinamico e moderno
orientato verso l'esportazione e basato sull'organizzazione capitalistica,
un altro sostanzialmente basato su strutture pre-capitalistiche
con un'agricoltura di sussistenza.
Nel secondo dopoguerra le principali potenze coloniali
tentano in primis non già di decolonizzare, ma di ricomporre e
ricostituire i sistemi coloniali al fine di ristrutturare l'economia
di esportazione perché contribuisca alla ricostruzione europea,
salvaguardando i mercati monopolistici della competizione delle
multinazionali. E' in questo periodo che iniziano le riforme dello
Stato coloniale tese a favorire il formarsi e il consolidarsi
di classi medie locali alleate al disegno di mantenimento dello
status quo coloniale. Molti intellettuali africani parlano a proposito
di autocolonialismo per definire quel processo di subordinazione
alla cultura occidentale che forma in buona parte la presa di
coscienza nazionalista delle classi medie nei paesi ex-coloniali.
La qualità diversa del colonialismo
contemporaneo o neocolonialismo è da analizzare nella necessità
di creare strutture di dominio totali per organizzare lo sfruttamento
sistematico delle risorse in una fase di formale indipendenza
delle vecchie colonie. Il neocolonialismo nelle parole di Kwame
Nkrumah, uno dei capi del nazionalismo africano, consiste nel
fatto "che lo Stato
assoggettato conserva una indipendenza formale, con tutti gli
ornamenti esterni della sovranità, mentre il suo sistema economico
e quindi la sua politica vengono diretti dall'esterno" [Nkrumah,
1965].
2.2.
Dal colonialismo all'autodeterminazione
dei popoli
I
due termini "sviluppo" e "colonialismo" (almeno
nella sua ultima fase, dopo il 1870) indicano un solo ed unico
fenomeno e quindi un solo obiettivo da perseguire [Goldsmith,
4/96].
Nella società occidentale per tutto
l'ottocento il termine "sviluppo" era stato utilizzato,
come in molte altre culture, per indicare il "completamento
naturale" del normale ciclo di vita di un essere vivente
(pianta, animale, uomo), il movimento che portava un vivente alla
sua forma appropriata e definitiva, conoscibile a priori sulla
base dell'analisi comparativa tra le forme viventi. Il ciclo di
"sviluppo" di un vivente non era altro che la serie
degli stadi "naturali" quasi immodificabili che egli
attraversava.
Ma, con l'andar del tempo, questo
tipo di società che cominciava a presentarsi complessa e articolata,
stratificata, urbana, manifestava la tendenza a risolvere i problemi
dell'espansione demografica ed economica con una delle seguenti
strategie: aggredendo con armi adeguate gruppi vicini e sottomettendoli
fino al punto da sottrarre loro preziose ricchezze e finendo per
utilizzare questi stessi come risorse (attraverso forme di schiavitù),
oppure potenziando il loro sistema produttivo e gli scambi con
l'esterno. In quest'ultima direzione lo sforzo espansivo si realizzava
agendo sui mezzi tecnici per la trasformazione delle risorse naturali,
o sull'organizzazione sociale della produzione o sulla produttività
del lavoro umano, o infine favorendo la creazione di adeguate
reti di mercati [Colajanni, 1990].
Dall'antico
significato di sviluppo ne scaturisce adesso uno tutto nuovo.
"Sviluppo" comincia così a significare qualcosa come
un "superamento della condizione 'naturale' e attuale",
verso un miglioramento finalistico, un superamento, un perfezionamento,
i cui limiti non si possono identificare a priori e una volta
per tutte. In altri termini, mentre la natura si "sviluppa"
ritornando a percorrere cicli noti di variazioni, le società umane
possono "svilupparsi" superandosi e migliorando continuamente,
abbandonando tappe e livelli raggiunti in precedenza come traguardi
ormai "superati" e superabili. Una sorta di entusiastica
fiducia nelle illimitate possibilità dell'uomo di creare un futuro
radioso per tutti i suoi simili si impadronisce delle classi dirigenti
dei paesi ricchi.
Il carattere cumulativo e continuo
di questo processo porterà alla metà dell'ottocento l'Europa a
lanciare una grande campagna complessiva di espansione globale
(materiale e spirituale) in tutto il mondo. Questa campagna era
sostenuta da una forte impalcatura concettuale (il concetto di
progresso) che permetteva, all'interno e all'esterno dell'Europa,
di collocare ogni processo, ogni azione economica e sociale, nel
contesto di una dinamica planetaria caratterizzata da un costante
e inesorabile mutamento ascensionale [Colajanni, 1990].
Questi processi di sviluppo e le
azioni volte a realizzarli presso la propria o altre società hanno
caratterizzato in maniera massiccia anche il mondo contemporaneo,
almeno da una quarantina d'anni. All'interno della forma-stato,
la programmazione e la collocazione in successione temporale,
secondo strategie composite, di investimenti atti ad assicurare
una sempre maggior produzione di beni in grado di soddisfare i
bisogni mutevoli di una popolazione crescente, ha dominato le
strategie politiche ed ha primeggiato tra le preoccupazioni dei
paesi avanzati.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
i fili storici sommariamente indicati si fondono in una concezione
sistematica globale, che eredita dal concetto ottocentesco di
"progresso" la sua linfa vitale. L'idea di un cammino
ascensionale che può riguardare tutta l'umanità, purché si rispettino
certe condizioni, si impone sempre più imperiosamente. Questo
cammino ascensionale, sul quale gli europei e gli americani vittoriosi
esprimevano un entusiastico giudizio positivo, si basa sulla fiducia
nell'incessante perfezionamento della scienza e della tecnica,
sulla specializzazione del lavoro, sulla variazione continua dei
bisogni e sull'aumento vertiginoso della produzione di beni, sullo
sfruttamento intensivo e sistematico di tutte le possibilità che
offrono le risorse naturali esistenti (viste come se fossero "infinite")
[Colajanni, 1990].
L'umanità viene vista adesso come
una cordata di società, alla guida della quale sta un gruppo ristretto
di paesi che stanno ad indicare la strada agli altri. I rapporti
tra i centri del mondo (Europa e America) e le periferie cambiano
di natura. Il mondo non è più uno spazio di controllo politico
e militare diretto (com'era stato durante l'età coloniale), ma
diventa progressivamente un'area di scambio e di controllo economico.
Gli aiuti economici cominciano a diventare gli strumenti principali
di rapporto tra paesi di diversa potenzialità produttiva, allo
scopo di ottenere forme, il più delle volte illusorie, di "livellamento".
Appare chiaro, insomma, che in un
mondo che stava sempre più diventando "un solo paese"
le differenze di cultura, di modi di vita e di ricchezza, diventano
sempre più "scandalizzanti" al punto da giustificare
energiche azioni d'intervento. Lo scatenarsi delle imprese coloniali
nell'Ottocento si accompagnava certo alla ricerca esasperata di
nuove risorse materiali e umane da controllare, ma è evidente
che a queste componenti "materiali" se ne accompagnavo
altre di carattere concettuale, culturale, di interpretazione
della "globalità" della condizione umana nel mondo.
I territori e le genti delle colonie cominciarono così lentamente
ad apparire, agli occhi degli europei, il terreno di dimostrazione
di una grandiosa superiorità storica, e il banco di prova delle
responsabilità conseguenti [Colajanni, 1990].
La nozione di sviluppo nei suoi aspetti
logico-ideali, come prodotto concettuale
di un gruppo di società date, si articola, quindi, a partire
da alcuni presupposti precisi, che sono: il fatto indiscutibile
che lo sviluppo esiste, è positivo, desiderabile, universale,
necessario, conosciuto e conoscibile, e si basa sulla convinzione
ottimistica che i beni a questo mondo sono illimitati, come i
bisogni degli uomini. (38)
Da tale concetto di sviluppo, adeguato
alla ideologia della cultura capitalistico-occidentale, sorge
conseguentemente un concetto di sottosviluppo.
Si ritiene che ci sia un atto formale
di nascita per questa nuova concezione di sviluppo e per l'inizio
delle nuove pratiche di rapporti tra l'Occidente e le società
diverse. Si fa infatti risalire alla famosa dichiarazione del
presidente americano Truman, del gennaio 1949, la prima distinzione
formale e opposizione radicale tra "sviluppati" e "sottosviluppati",
che sarà poi alla base di tutte le forme di relazione economico-politica
con la società del Terzo Mondo. Da questo momento in poi le diverse
azioni, gli interessi delle nazioni ricche dell'Occidente, saranno
sistematicamente orientati, interpretati, canalizzati, attraverso
il nuovo concetto-base di "sviluppo", che finisce per
rappresentare il vero "dover essere" delle società umane.
Le società del Terzo Mondo non sono più definite, da questo momento
in poi, per loro caratteristiche proprie positive, ma per il fatto
di essere il contrario delle società dell'Europa e dell'America;
per essere - insomma - prive di quel carattere ormai fondamentale
per la storia dell'uomo, appunto lo "sviluppo": sono
da questo momento in poi "società sottosviluppate".
La macchina socio-economico-culturale
dello sviluppo è dunque un insieme di sistemi di azione e di idee
che consiste in: a) Un processo storico sui generis; b) Un corpus
concettuale riconoscibile e abbastanza ben definito; c) Un insieme
di dispositivi istituzionali e sociali all'uopo espressamente
destinati (Ministeri specializzati, istituzioni internazionali
come la FAO, il PNUD, ecc.).
2.3.
L'autodeterminazione nello
svilippo storico e nelle dichiarazioni internazionali
2.3.1.
Nel secondo dopoguerra era divenuto
chiaro ai paesi che si erano liberati dal dominio straniero che
l'indipendenza politica era ben poca cosa se non si accompagnava
a una piena autonomia sul piano economico. L'autodeterminazione
dei popoli non passava più soltanto attraverso l'indipendenza
politica dai regimi coloniali, ma anche in una economia che diventava
sempre più globale, attraverso l'indipendenza economica e le possibilità
di reale sfruttamento delle proprie risorse. La possibilità di
"sviluppo" economico-industriale, concetto ormai fagocitato
dai paesi del Sud, diveniva sempre più sinonimo di autodeterminazione
dei popoli, i quali si sentivano estraniati dalla condivisione
delle ricchezze mondiali.
Le condizioni dell'autodeterminazione
quindi passavano per la via dello sviluppo, come anche ribadivano
i Capi di Stato dei più grandi stati usciti dal colonialismo.
I finanziamenti necessari per creare o sviluppare l'industrializzazione
o per modernizzare l'agricoltura erano, però, condizionati sia
dal buon andamento del prezzo delle materie prime esportate, sia
dalla concessione di prestiti da parte delle istituzioni internazionali:
la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Queste
istituzioni furono create, nella famosa conferenza di Bretton
Woods nel 1944: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) aveva
lo scopo di promuovere una cooperazione monetaria internazionale,
di favorire una crescita equilibrata dei commerci, di mantenere
la stabilità monetaria, di eliminare le restrizione valutarie
che ostacolano l'espansione del commercio mondiale, di offrire
assistenza tecnica e finanziaria; la Banca Mondiale per la Ricostruzione
e lo Sviluppo (BM), i cui obiettivi originari erano la promozione
di uno sviluppo economico a vasto raggio, per eliminare gli squilibri
valutari che possono
incidere negativamente sulla libera concorrenza. Qualche anno
più tardi, si formò il GATT, Accordo Generale sulle Tariffe Doganali
e il Commercio, firmato a Ginevra nel 1948, per abolire gradualmente
le barriere doganali.
Queste istituzioni erano basate sui
principi tipici del capitalismo e legate alle grandi potenze occidentali
soprattutto agli USA. I principi fondamentali dell'economia mondiale,
dunque nel disegno politico dei maggiori paesi occidentali, continuavano
ad essere collegati alla concezione ideologica dello sviluppo
attraverso l'economia di mercato, cioè la libera concorrenza.
I Paesi del Terzo mondo che mano
a mano conquistavano l'indipendenza politica e che quindi diventavano
più attivi in campo internazionale contrastarono con forza alcuni
dei principi base che determinavano il funzionamento di queste
istituzioni e cercarono di adottare nel campo dei rapporti economici
internazionali alcune altre strategie che permettessero loro di
emanciparsi dal dominio occidentale.
Uno dei maggiori problemi fu quello di creare le premesse
di una vera e propria "dottrina" dello sviluppo vista
dai paesi del Sud, poiché a causa dell'aggravarsi dei problemi
economici, le istituzioni di Bretton Woods soprattutto, non garantivano
sufficientemente uno sguardo obiettivo sui problemi del Sud. Così
nel corso degli anni successivi mettendo in discussione il concetto
di crescita legata allo sviluppo economico, cercarono di ritradurre
in nuovi principi e conseguenti istituzioni internazionali il
concetto di sviluppo dal loro punto di vista.
2.3.2.
Nel 1955 alcuni Stati indipendenti del Terzo Mondo, che non si
riconoscevano necessariamente nei problemi dei paesi del "Centro",
convergono a Bandung in Indonesia nella famosa Conferenza dove
si incontrarono 29 paesi africani e asiatici su iniziativa di
5 paesi dell'Asia (Indonesia, India, Birmania, Ceylon e Pakistan).
Nella Conferenza si riconosce innanzi
tutto il valore dello sviluppo economico come effettivo adempimento
preliminare per l'attuazione di quella autodeterminazione politica
che da sola non aveva fatto entrare i paesi "ormai"
sotosviluppati nell'orbita del commercio e della opulenza delle
nazioni: "la conferenza
afro asiatica riconosce l'urgente necessità di incoraggiare lo
sviluppo economico della zona afro-asiatica". Si hanno
comunque ben chiari gli obiettivi di politica economica che si
devono perseguire sia dal lato della produzione interna
"i paesi dell'Asia e dell'Africa devono variare le loro esportazioni
elaborando le materie prime ogni qual volta la cosa sia economicamente
realizzabile", stabilizzando i prezzi internazionali
e la domanda dei prodotti essenziali mediante il gioco delle disposizioni
bilaterali, cioè di sottrarre, grazie a specifiche clausole dei
trattati commerciali, il prezzo delle materie prime dalle fluttuazioni
del mercato. Tali fluttuazioni, infatti, potevano essere assai
negative per i paesi del Terzo mondo produttori, appunto, di materie
prime; sia del vantaggio che si potrebbe ottenere nel controllo
più deciso di alcune delle risorse fondamentali utili anche al
Nord: "La conferenza
reputa che lo scambio di informazioni
in campo petrolifero possa condurre all'elaborazione di
una politica comune".
Attraverso la cooperazione economica
ci sarebbe potuto essere un elevamento del livello d'istruzione
dei paesi più poveri colonizzati ai quali il colonialismo
"impedisce la
coooperazione culturale e lo sviluppo delle culture nazionali.
Talune potenze coloniali hanno negato ai popoli coloniali i diritti
fondamentali nel campo dell'educazione e della cultura, il che
ostacola lo sviluppo della loro personalità e gli scambi culturali
con gli altri paesi asiatici e
africani".
Nella Dichiarazione finale, nella
particolare accentuazione data al principio del rispetto dei diritti
umani, innalzato a principio prioritario, concepito essenzialmente
in chiave anticolonialista, si pone la limitazione, al diritto
di difesa legittima collettiva; si stabilisce il principio secondo
cui nessuno deve esercitare pressioni su altri. Importante così
è il collegamento che questa Conferenza dichiarava di avere su
questo punto con la Carta dell'ONU, di cui ne approvava i principi
fondamentali e prendeva "in
considerazione la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo
quale fine comune cui devono tendere tutti i popoli delle nazioni.
La conferenza dichiara di approvare totalmente il principio del
diritto dei popoli e delle nazioni a disporre di sé stessi, quale
è definito nella Carta delle Nazioni Unite e di prendere in considerazione
le risoluzioni delle Nazioni Unite sul diritto dei popoli e delle
nazioni a disporre di sé stessi, ciò che rappresenta la condizione
base per il pieno godimento di tutti i diritti fondamentali dell'uomo".
E in altro punto che "la
questione dei popoli assoggettati al dominio straniero, al controllo
e allo sfruttamento, costituisce una negazione dei diritti fondamentali
dell'uomo, è contraria alla Carta delle Nazioni Unite e impedisce
la pace e la cooperazione mondiale".
Tali enunciazioni mettevano in contatto
il principio di autodeterminazione e quello di sovranità nazionale
nell'ottica dei diritti umani scritti e ratificati soprattutto
dai paesi del Nord, proprio in direzione di una condivisione globale
di questi principi e non nel creare un altro schieramento politicamente
ed economicamente alternativo a quelli dell'Est e dell'Ovest.
Con queste intenzioni i paesi della
Conferenza si ritrovano nel 1956 prima a Brioni (Yugoslavia) dove
vengono poste le basi del non-allineamento
su iniziativa di tre grandi leader, Tito, Nasser e Nehru, i quali
si fanno paladini di un concetto di sviluppo dell''"umanità";
un approccio in termini di cooperazione, e ciò, non in termini
puramente ideologici o di profitti e perdite per questa o quella
nazione, ma nei termini concreti della pura sopravvivenza di questo
mondo. Si tracciano così le basi per un programma politico e per
una indipendenza anche idologica rispetto agli schieramenti contrapposti
in una visione di rispetto degli impegni formali presi dalle due
superpotenze in sede di Nazioni Unite, poi nel 1961 a Belgrado,
prima Conferenza dei paesi "non-allineati", in cui,
tra i temi trattati c'è quello per la piena realizzazione del
diritto dei popoli all'autodeterminazione [Cassese, 1989].
Nella risoluzione adottata dall'Assemblea
Generale dell'ONU il 14 dicembre 1960 Dichiarazione
sull'indipendenza ai paesi e popoli coloniali (risoluzione
1514-XV), detto anche manifesto politico dell'indipendenza delle
colonie, poiché dominio coloniale viene definito come negazione
dei fondamentali diritti umani ed è giudicato contrario alla causa
della pace e della
cooperazione mondiale, si ribadisce solennemente il diritto all'autodeterminazione
dei popoli e si impone di non ricorrere a misure di repressione
contro popoli ancora dipendenti. Ma importante è la definizione
e la comunione tra il diritto all' autodeterminazione e sviluppo
"Tutti i popoli hanno
il diritto di autodeterminazione, in virtù di questo diritto scelgono
liberamente il proprio sistema politico e perseguono liberamente
il proprio sviluppo economico,
sociale e culturale".
Il 14 dicembre del 1962 l'Assemblea
Generale dell'ONU adottò (87 voti favorevoli 2 contrari e 12 astensioni)
una risoluzione (n.1803-XXVII) sulla "sovranità
permanente sulle risorse naturali". In questa risoluzione
venivano consacrati vari principi generali di condotta internazionale.
Anzitutto, veniva proclamato il diritto di ogni popolo e nazione
alla sovranità permanente sulle proprie risorse naturali, e si
aggiungeva anche che tale diritto doveva essere esercitato "nell'interesse
dello sviluppo nazionale e del benessere della popolazione dello
Stato interessato". Conseguenza logica dell'esistenza
di quel diritto era il potere di ogni Stato di "autorizzare,
limitare o vietare" tutte le attività (di cittadini o
stranieri) rivolte all'utilizzazione delle risorse naturali. Seguivano
poi vari principi sul trattamento da accordare alle società
e ai capitali stranieri, in caso di nazionalizzazione.
Si trattava però di principi formulati in maniera alquanto ambigua,
ossia senza prendere decisamente posizione a favore delle tesi
occidentali (favorevoli naturalmente alla massima protezione delle
società nazionalizzate o espropriate) o di quelle terzomondiste
(miranti a ridurre quanto più possibile l'entità degli indennizzi
da corrispondere alle società straniere).
Verso l'inizio degli anni '60, i
paesi emergenti si rendono conto che i prezzi delle materie prime
che essi producono, e che costituiscono la loro ricchezza principale,
declinano sempre di più sul mercato mondiale. Ciò è dovuto sia
alle normali oscillazioni della domanda e dell'offerta, sia al
fatto che le nazioni industrializzate hanno cominciato a ricorrere
a prodotti sintetici o a prodotti sostitutivi, entrambi economicamente
più convenienti. Accanto a questo calo del prezzo delle materie
prime si assiste all'aumento dei prezzi dei prodotti finiti o
semilavorati, che i paesi poveri devono importare al fine di creare
le infrastrutture necessarie e richiamare investimenti dall'estero
e per promuovere lo sviluppo. La conseguenza evidente di questa
situazione è che la bilancia
dei pagamenti di quei paesi comincia a presentare un deficit sempre
maggiore; in altre parole il valore delle merci importate supera
di gran lunga quello delle merci esportate.
La strategia seguita per far fronte
a questa situazione è complessa e si cercò di risolverla nella
creazione di uno strumento internazionale permanente per condurre
negoziati, attraverso i quali i paesi del Terzo mondo potessero
discutere con gli Stati industrializzati tutti i problemi concernenti
il commercio e lo sviluppo. Questo strumento fu la Conferenza
delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), nel
cui seno nacque formalmente il Gruppo
dei 77: il Terzo mondo passa in modo deciso a prospettare
organicamente le sue richieste più impellenti in campo economico.
Tra i principi generali fu affermato
che si doveva procedere a una nuova divisione internazionale del
lavoro, che non consistesse come per il passato, nel promuovere
le monocolture nel Terzo Mondo (produzione di materie prime) e
nel lasciare ai paesi industrializzati il compito di utilizzare
quelle materie nel processo industriale, per arrivare a prodotti
finiti o semifiniti; abolizione delle barriere doganali alzate
dal protezionismo dei paesi occidentali per salvaguardare la propria
produzione; stabilizzazione del prezzo delle materie prime; trattamenti
preferenziali ai paesi più poveri, con regole che privilegiassero
i prodotti provenienti dal Terzo mondo.
Fu richiesta la modifica delle istituzioni
internazionali esistenti, in modo da renderle più rispondenti
alle esigenze dei paesi arretrati, modificando l'orientamento
della Banca Mondiale, del FMI e del Gatt; la riorganizzazione
e il perfezionamento di alcune istituzioni già esistenti in seno
all'ONU: a tal fine nel 1965 venne stabilito l'UNDP (Programma
di Sviluppo delle Nazioni Unite); la creazione di un ente internazionale
che si occupasse specificatamente dello sviluppo industriale del
Sud: nel 1966 venne creata l'UNIDO (organizzazione delle NU per
lo Sviluppo Industriale).
Raoul Prebisch, primo segretario
generale dell'UNCTAD, alla prima conferenza delle NU sul Commercio
e lo Sviluppo nel 1964, in merito all'accordo sul Gatt, sostenne
che i paesi maggiormente industrializzati "sembrano
ispirarsi ad un concetto di tale politica secondo il quale basterebbe
eliminare gli ostacoli che intralciano il gioco di queste forze
nell'economia internazionale per arrivare all'espansione degli
scambi commerciali, con mutui vantaggi che ciò comporterebbe per
tutti. Tali norme e principi, inoltre, si fondano su una nozione
astratta di omogeneità economica che impedisce di riconoscere,
sia le grandi differenze di struttura tra i centri industriali
e i paesi periferici, sia le differenze, così importanti che tali
paesi comportano"."Gli USA sostituiscono la GB come
principale centro dinamico. Non si tratta di un semplice trasferimento
di egemonia.: questo evento esercita una influenza fondamentale
sul resto del mondo. Le enormi risorse naturali di questo paese,
distribuite su un vastissimo territorio, e la politica decisamente
protezionistica, che esso adotta sin dall'inizio del suo sviluppo,
si riflettono nella continua riduzione del tasso delle importazioni".
"L'Europa Occidentale decide poi di affrontare seriamente
le proprie difficoltà adottando, non solo un atteggiamento di
difesa, ma misure attive di vasta portata: la modernizzazione
della propria economia, ciò che rafforza notevolmente le sue capacità
di esportazione, e una politica di integrazione che stimola gli
scambi al proprio interno, a spese, soprattutto, delle importazioni
in dollari; si tratta di un atteggiamento che, se da un lato contribuisce
positivamente all'equilibrio globale, dall'altro influisce negativamente
su alcuni paesi in via di sviluppo. Si assiste alla nascita della
Comunità europea (Cee) e dell'Associazione europea di libero scambio
(EFTA)" [Cassese, 1989].
2.3.3.
Le conferenze, risoluzioni, dichiarazioni seguivano o precedevano
alcune prese di posizione di alcuni Stati che realmente cercavano
di rompere, con un gesto politico, i vincoli assai pesanti posti
dal contesto economico internazionale: il gesto politico che più
rendeva chiaro il nuovo rapporto che si veniva delineando nelle
nazioni sarebbero state le "nazionalizzazioni".
La nazionalizzazione della Compagnia
del Canale di Suez nel 1956, ordinata da Nasser, ebbe effetti
rilevanti soprattutto sul piano politico, psicologico e ideologico.
Fu un gesto teso a reagire alle pressioni e ai condizionamenti
occidentali e a riaffermare nel contempo la propria autonomia
decisionale, almeno in certi settori.
Altri importanti tentativi di ribellarsi
alla dipendenza economica furono messi in atto nel 1951-1953,
dal capo dei nazionalisti iraniani, allora presidente del comitato
parlamentare per il petrolio, Mossadeq, che ottenne che il parlamento
iraniano, nell'aprile del 1951, nazionalizzasse l'industria del
petrolio e quindi la società britannica che lo aveva avuto in
concessione. Altre nazionalizzazioni furono effettuate nel 1971
dal presidente algerino Hawari Bu Midian (Boumedienne). Esse riguardavano
i giacimenti di gas naturale e gli oleodotti, mentre si impossessava
del 51% delle azioni delle società francesi che operavano in territorio
algerino.
Quelle del 1973 del presidente Muammar
al-Qaddafi (Gheddafi) in Libia, quando nazionalizzò per il 51%
le società straniere operanti sul suo territorio (società a capitale
occidentale misto).
In America Latina vari sono i tentativi
di emancipazione, spesso, o forse sempre, spenti sul nascere.
Nel 1954 il guatemalteco Jacobo Arbenz aveva nazionalizzato alcune
piantagioni di banane nord-americane. Allo stesso modo si agì
in Brasile, dove Joao Goulart decise di promuovere una riforma
agraria e di controllare
i maneggi delle multinazionali americane. Nel 1965 è la volta
della Repubblica Domenicana e ancora nel 1973, forse il caso più
eclatante, il Cile, dove il presidente Allende, eletto nel 1970,
cominciò l'anno dopo a nazionalizzare alcune grandi imprese straniere
che estraevano importanti minerali. Si arriva addirittura ai nostri
giorni se si fanno gli esempi del Nicaragua, di Grenada e di Panama.
Nel 1973 gli Stati arabi membri dell'Organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) si resero conto per la
prima volta di avere in mano un'arma possente
contro l'Occidente industrializzato: la minaccia di interrompere
le forniture di petrolio. L'OPEC fu fondata nel 1960 con lo scopo
di proteggere gli interessi dei paesi produttori di petrolio.
Fu soltanto con la guerra arabo-israeliana del Kippur nel 1973
che si pensò di usare il petrolio come mezo di ritorsione. Ridotte
le forniture ai paesi che appoggiavano Israele e più tardi fu
quadruplicato il prezzo del petrolio.
L'importanza del gesto dei paesi
OPEC come modello da imitare, cioè l'utilizzo di politiche protezionistiche,
sempre più in chiave politica, delle risorse naturali da parte
dei paesi del Sud, portò prima alla convocazione della IV Conferenza
dei paesi non-allineati nel 1973 ad Algeri, successivamente su
proposta proprio dell'Algeria alla conferenza dell'ONU il 10/4/74.
Al termine di questa conferenza venne approvato un programma d'azione
che, pur riaffermando la volontà dei paesi non-allineati di contare
su sé stessi per il proprio sviluppo, enuncia chiaramente le loro
rivendicazioni nei confronti dei paesi industrializzati. Boumedienne,
capo di stato algerino, espose le richieste e le aspirazioni dei
popoli in via di sviluppo per l'instaurazione di un nuovo ordine
economico mondiale. Riconosceva che "lo
sviluppo diventa oggi il problema principale che noi tutti dobbiamo
affrontare, senza più indugi" e per affrontare "il
problema dello sviluppo dovrebbe riconoscere innanzi tutto come
problema centrale, lo sfruttamento delle risorse naturali".
"Le potenze coloniali e imperialiste non hanno aderito al
principio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi se non
a partire dal momento in cui sono giunte a porre le strutture
e a ideare i meccanismi che avrebbero reso possibile il continuo
saccheggio iniziato durante il periodo coloniale". "Costituendo
l'essenziale mercato di consumo delle materie di base e detenendo
il monopoli pressocché totale della produzione di manufatti e
di beni strumentali nonché il monopolio dei capitali e dei servizi,
i paesi industrializzati hanno potuto fissare, a loro piacimento,
sia i prezzi delle materie di base di cui si riforniscono nei
paesi in via di sviluppo sia quello dei beni e dei servizi che
forniscono agli stessi. In questo modo si trovano in una posizione
in cui possono impadronirsi attraverso un gran numero di canali
delle risorse dei paesi del Terzo mondo". Il discorso
come si vede calca la mano sull'importanza delle nazionalizzazioni
e sull'aiuto allo sviluppo, con l'appoggio determinante dell'ONU
che deve prendere "le
decisioni e le necessarie disposizioni affinché tale diritto non
rimanga sempre allo stadio teorico e possa essere definitivamente
esercitato nei paesi del Terzo mondo". L'idea di sviluppo
"occidentale" è tenuta molto in considerazione, ma è
legata ad una sostanziale parità nello scambio: "sviluppandosi,
i paesi del terzo mondo, faranno scattare una reazione a catena
nell'espressione dei bisogni, che si tradurrà in una considerevole
espansione dei mercati per i paesi industrializzati".
L'Assemblea votò anche la Dichiarazione
sullo Stabilimento del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI).
I principi cardine del NOEI erano: controllare le proprie risorse
naturali, disciplinare e controllare le attività delle imprese
multinazionali che operano nel loro territorio; poter essere liberi
di nazionalizzare o espropriare i beni stranieri alle condizioni
più favorevoli ai paesi stessi e quindi dover soltanto pagare
"un adeguato indennizzo"; utilizzare tecnologie moderne;
incrementare una assistenza attiva economica da parte dei paesi
industrializzati senza ingerenze o contropartite politiche.
Questi principi vengono recepiti
nella Carta dei Diritti e Doveri Economici degli Stati nel 1974,
adottata dall'Assemblea Generale il 12/12/74 Risoluzione n.3281-XXIX.
Cap.II, Art.1: "Ogni
Stato ha il diritto sovrano e inalienabile di scegliere il proprio
sistema economico e il proprio assetto politico sociale e culturale,
in armonia con la volontà del suo popolo, senza interferenze esterne,
coercizioni o minacce di alcun genere" e all'art.2 "Ogni
stato possiede ed esercita liberamente una sovranità completa
e permanente su tutte le ricchezze, risorse naturali e attività
economiche, compresi il possesso e il diritto di utilizzarne e
di disporne". All'art.13 "Tutti
gli Stati dovrebbero facilitare l'accesso dei paesi in via di
sviluppo alle conquiste della scienza e della tecnologia moderne,
la diffusione delle tecnologie e la creazione di tecnologie indigene,
a favore dei paesi in via di sviluppo, in forme e procedure adattate
alle loro economie e alle loro esigenze".
2.3.4.
Nel 1976 ancora il diritto internazionale così concepito non riusciva
ad intervenire sugli squilibri rimarcati dall'intervento del presidente
messicano Luis Echeverria alla Conferenza sulla cooperazioene
economica tra i paesi in via di sviluppo, tenuto a Città del Messico:
"Al momento dell'apertura
di questa Conferenza, i 24 paesi più ricchi del mondo occidentale,
con il 19% della popolazione mondiale, detengono il 65,5% del
prodotto nazionale lordo dell'intero globo, mentre il 61,5% della
popolazione mondiale non dispone che del 41,9% di questa ricchezza"
[Cassese, 1989].
Se i caratteri della struttura economica
dei paesi del Terzo mondo rendeva impossibile il loro decollo
sul piano economico, poiché le loro maggiori risorse erano le
materie prime e ciascun paese era orientato verso la monocoltura,
cioè la produzione di una o di poche materie prime, il cui prezzo
era lasciato all'oscillazione del mercato mondiale, anche soltanto
l'intenzione di voler diversificare la produzione, era considerata
pratica peccaminosa perché sembrava voler promuovere una strategia
di "sostituzione delle importazioni". Ciò veniva punito
con l'immediato blocco di ogni prestito di aggiustamento strutturale
(Pas) da parte del FMI, prestito che avrebbe dato la possibilità
di diversificare i finanziamenti necessari alla diversificazione
dello sviluppo [Goldsmith, 4/96].
Accordare ingenti prestiti all'élite
complice di un paese non industriale è il mezzo più efficace per
aver accesso, da lontano, ai suoi mercati e alle sue risorse naturali.
Per pagare gli interessi infatti, il governo indebitato dovrà
investire in affari che non siano solamente produttivi, ma anche
competitivi sul mercato internazionale, perché i rimborsi vano
fatti in valuta, generalmente in dollari.
Nell'epoca dello sviluppo, la tecnica
del prestito come mezzo di controllo si è notevolmente perfezionata.
Si nasconde la vera natura del prestito sotto l'ipocrita definizione
di "aiuto", giustificato dalla "povertà" del
terzo mondo, conseguenza del suo sottosviluppo, rispetto al quale
lo sviluppo sembra essere il palliativo automatico. Per porre
rimedio a questa situazione di sottosviluppo, occorrono capitali
e conoscenze tecniche, che vengono puntualmente forniti dal sistema
delle industrie occidentali [Goldsmith, 4/96].
Capitolo
3
IL
DIRITTO AD UNO SVILUPPO UMANO AL TRAMONTO DEL XX SECOLO
3.1
Rapporto UNDP: numeri drammatici, fine del concetto di sviluppo
legato alla crescita economica?
Nel 1994 il "bilancio" dello sviluppo nei "sottosviluppati",
dove vive il 77% dei 5,3 miliardi di abitanti del globo, è così
riassunta dal Rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite del
1994: ogni anno muoiono per cause evitabili con la prevenzione
10 milioni di adolescenti e di bambini sopra i 5 anni e 14 milioni
sotto i cinque; 180 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono
di denutrizione grave; 1,5 miliardi di persone mancano di assistenza
sanitaria di base; 1,5 miliardi di persone non dispone di acqua
potabile; 1/5 della popolazione del pianeta continua a patire
la fame e 1 miliardo vive in condizioni di povertà assoluta; 1
miliardo di adulti sono analfabeti; il 77% della popolazione mondiale
riceve il 15% del reddito complessivo.
D'altro canto il "bilancio"
dello sviluppo nei paesi industrializzati viene riassunto dallo
stesso Rapporto con questi dati: 75 anni di media di vita; produzione
dell'85% della ricchezza mondiale; tutta la popolazione ha accesso
all'acqua e servizi igienici; la media del reddito pro capite
al Nord è 18 volte quella del Sud. [UNDP n.4, 1994].
Il Rapporto, a 50 anni dall'invenzione
del concetto di "aiuto" ai paesi "sottosviluppati",
quindi, si appresta a chiarire che la crescita economica non rappresenta
e non può rappresentare il fine dello sviluppo umano, ma un suo
fondamentale strumento [UNDP n.3, 1993]: "Lo
sviluppo umano è un processo di ampliamento delle scelte della
gente. In linea di principio queste scelte possono essere infinite
e cambiare nel tempo. A qualsiasi livello di sviluppo,
le tre opzioni essenziali sono comunque la possibilità di condurre
una vita lunga e sana, di acquisire conoscenze e di accedere alle
risorse necessarie a un tenore di vita dignitoso. Se queste scelte
essenziali non sono disponibili, molte altre rimangono inaccessibili.
Lo sviluppo umano non termina qui.
Opzioni aggiuntive, che hanno un valore assai elevato per molti,
vanno dalla libertà politica, economica e sociale alla possibilità
di essere creativi e produttivi di godere del rispetto di sé stessi
e della garanzia dei diritti umani. Lo sviluppo umano ha due aspetti:
la formazione delle capacità umane - quali migliore salute, conoscenze
e capacità personali - e l'uso che le persone fanno delle capacità
acquisite - per il tempo libero, per scopi produttivi e per svolgere
un ruolo attivo in campo culturale, sociale e politico. Se i livelli
di sviluppo raggiunti non riescono ad equilibrare i due aspetti
il risultato è una considerevole frustrazione umana.
In base a questo concetto dello sviluppo
umano, il reddito è chiaramente solo una delle opzioni
che la gente vorrebbe avere, ma per quanto importante essa
sia, non rappresenta la somma totale della vita degli uomini.
Lo sviluppo, quindi, deve essere qualcosa di più che la mera espansione
del reddito e della ricchezza. Il suo obiettivo deve essere la
gente" [UNDP n.1, 1992].
E nei suoi successivi Rapporti l'UNDP
non nega e non nasconde i reali problemi sottostanti alla grande
crisi e le differenze che a quasi 50 anni dalla nascita delle
Nazioni Unite impediscono a quasi 4/5 dell'umanità di conformarsi
a quel modello di sviluppo decantato, rappresentato, immaginato,
dalla società opulenta del Nord.
Il Rapporto riconosce che i consumi
correnti non possono essere finanziati contraendo dei debiti che
dovranno essere ripagati nel futuro. Occorre investire nella salute
e nell'istruzione della popolazione di oggi in modo da non creare
un debito sociale per le generazioni che verranno; i tassi di
interesse reali sono stati 4 volte più elevati per le nazioni
povere che per quelle ricche. Negli anni '80, i paesi in via di
sviluppo hannao pagato un tasso effettivo annuo del 17% sul loro
debito estero, contro il 4% versato dai paesi industrializzati;
le società multinazionali incanalano gran parte dei loro investimenti
verso i paesi ricchi: l'83%. E i paesi in via di sviluppo che
ricevono investimenti generalmente tendono ad essere quelli più
benestanti; le barriere commerciali sono più forti per quei manufatti
nei quali i paesi poveri godono di un vantaggio competitivo, vale
a dire per esportazioni ad alta densità di manodopera come i prodotti
tessili, l'abbigliamento e le calzature; il mercato dei prodotti
agricoli è distorto, sia dalle barriere alle importazioni sia
dai 300 miliardi di dollari spesi ogni anno nei paesi industrializzati
in sussidi agricoli e per il sostegno dei prezzi, riducendo le
opportunità di esportazione dei paesi in via di sviluppo; le leggi
sull'immigrazione, vietando ai lavoratori di spostarsi dove possono
guadagnare di più, negano loro il diritto di equilibrare l'offerta
e domanda mondiali di manodopera. [UNDP n.3, 1993].
Nei Rapporti si definiscono chiaramente
chi sono gli agenti responsabili di tale politiche: il G 7 (Canada,
Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, USA, e la CEE, paesi
maggiormente industrializzati) rappresenta attualmente la forma
più prossima ad un governo mondiale, difficilmente disposto a
difendere quegli interessi mondiali che dovessero entrare in conflitto
con i propri [UNDP n.3, 1993]. Il FMI si è progressivamente allontanato
dal suo mandato di origine, di promuovere una cooperazione monetaria
internazionale, di favorire una crescita equilibrata dei commerci,
di mantenere la stabilità monetaria, di eliminare le restrizione
valutarie che ostacolano l'espansione del commercio mondiale,
di offrire assistenza tecnica e finanziaria. Non esercita alcuna
autorità sulle ricche nazioni industrializzate, ma anzi influenza
i paesi in via di sviluppo fissando condizioni molto rigide sui
prestiti offerti. La BM, i cui obiettivi originari erano la promozione
di uno sviluppo economico a vasto raggio, ha fatto ben poco per
riciclare i surplus esistenti a livello globale verso le nazioni
in deficit. Anzi ha prelevato da essi 500 milioni di dollari.
Fino al 1992 la percentuale degli scambi che rispetta effettivamente
i principi del GATT, sostituito nel nome e nelle intenzioni nel
1993 dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), in direzione
di una maggiore liberalizzazione degli scambi, principale quadro
normativo del commercio mondiale, è inferiore al 7% del commercio
mondiale. L'evoluzione del sistema economico internazionale ha
conferito alle società transnazionali un potere immenso, specialmente
nei confronti dei pasi in via di sviluppo. Le compagnie transnazionali
oltre al capitale distribuiscono - o sottraggono - gran parte
delle altre risorse necessarie all'industrializzazione, specialmente
se essa è legata alle esportazioni [UNDP n.3, 1993].
Da uno studio del Centro delle Nazioni Unite sulle imprese
transnazionali (UNCtc), 600 società transnazionali avevano a metà
degli anni '80, un fatturato di 3,1 mila miliardi di dollari,
pari al 25% del valore aggiunto di tutta l'industria dell'Occidente,
e circa il 50% del commercio mondiale [O'Connor, 2/7/92].
Si può affermare, che dopo il successo
delle lotte di liberazione nazionale, nel Terzo mondo, tra il
1950 e il 1980, ci furono 30 anni segnati da forti tassi di crescita,
sostenuti soprattutto dalle nazionalizzazioni delle società private
fondamentali per l'economia di questi paesi, dal posto determinante
che lo stato e il settore pubblico avevano nell'economia. L'intervento
dei governi era una cosa diffusa, di modo che avevano assunto
un ruolo strategico nella trasformazione dell'economia: talvolta
il settore statale era il motore dello sviluppo, talaltra lo stato
offriva il proprio sostegno critico agli affari privati che intendevano
misurarsi con il capitale straniero, poiché spesso la proprietà
privata della terra, delle risorse naturali e delle imprese era
la regola nella maggior parte delle società del sud che avevano
appena conquistato l'indipendenza, e gli scambi venivano fatti
in gran parte sotto l'egida del mercato [Bello e S.Cunningham,
9/94].
All'inizio degli anni '80, scoppiò
la crisi del debito, crisi economico-politica di relazioni intenazionali
governata dai paesi del Centro, che ha permesso agli USA di difendere
i propri interessi finanziari, scongiurando contemporaneamente
la minaccia del sud.
I paesi del Terzo mondo, che avevano acceso i debiti all'inizio
degli anni '70 presso banche private occidentali, si trovavano
sul punto di mancare dei fondi necessari per assicurare il pagamento
degli interessi dei loro debiti. Allora vennero consigliate loro
delle "riforme di struttura", che avrebbero potuto assicurare
una crescita sostenuta e preservare la stabilità delle loro economie.
Attraverso questi "aggiustamenti strutturali", si poteva
e si può accedere a un credito, chiamato "condizionale",
poiché la concessione è condizionata dalla rigorosa applicazione
di questo programma
Queste politiche, proposte dagli
organismi finanziari internazionali, non si limitavano, nonostante
la durezza nella loro applicazione pratica, a conseguire equilibri
macroeconomici, ma promuovevano mutamenti strutturali orientati
all'introduzione delle cosiddette riforme neoliberali. Le riforme
consistevano, e ancora consistono, nell'integrazione in una economia
di mercato, in cui poco a poco si sono andate erodendo le garanzie
legali e politiche dei settori più bisognosi; nel predominio quasi
esclusivo del settore esportatore nella crescita economica su
un mercato mondiale soggetto alla concorrenza internazionale (spesso
gestita per mezzo di svalutazioni), assicurando la "flessibilità"
della manodopera e di conseguenza l'abbassamento dei salari e
peggiorando, di conseguenza, le condizioni di lavoro, con la rimessa
in discussione delle conquiste sociali; e soprattutto nel perseguimento
delle privatizzazioni delle società con il drastico ridimensionamento
del ruolo dello Stato.
3.2
Crisi del concetto di
Stato-nazione
Nel
secondo dopoguerra, con lo sfaldamento delle economie nazionali
e la liberalizzazione dei mercati, entra in crisi il classico
concetto di popolo e nazione sviluppatosi con la Rivoluzione.
Si assiste ad un doppio processo:
se per un verso i fenomeni caratteristici della modernizzazione
generano un diffuso senso di disorientamento e di perdita di radici
e collocazione sociale, per l'altro lo Stato-nazione viene consolidandosi
quale struttura di dominio e di scambio saldamente definita entro
il contesto di un'"economia mondo" gerarchizzata in
centri e periferie corrispondenti a forme diverse dell'accumulazione
e dello sfruttamento e in questa misura legati da relazioni di
dominio e scambio ineguale [Burgio, 1993].
C'è una esigenza da parte degli Stati
concorrenti nel mercato libero mondiale di produrre una forte
coesione interna alle singole comunità che si definiscono nazionali
e di predisporre gli Stati a una concorrenza reciproca di crescente
intensità, processo che alimenta le ideologie nazionalistiche.
E' un processo che, come si è visto, se accompagna e anzi caratterizza
l'intera epoca moderna, subisce una chiara accelerazione a partire
dalla seconda metà del secolo scorso. (Burgio)
Se ripercorriamo la strada del
sorgere dello Stato-nazione come fa Latouche non possiamo non
rilevare che lo Stato-nazione aveva qualcosa a che vedere con
l'economia. Ciò è evidente soprattutto con il sorgere di quegli
Stati-nazione che
venivano fuori dal colonialismo. Proprio a causa dell'organizzazione
colonialistica, questi Stati erano privi di un sostrato economico
necessari a renderli realmente indipendenti [Latouche, 1992].
Questo nesso Stato-nazionale e economia,
chiamato "nazionalità economica", è fornito dagli stessi
paesi colonizzatori e fortemente rappresentanto oggi all'interno
del "villaggio globale".
Il modello Occidentale rappresenta
la "società politica", che fornisce la struttura degli
Stati-nazione delle società occidentale e costituisce la base
fondamentale dell'identità sociale degli individui membri. "Questo
ordine nazionale-statale è al tempo stesso e nello stesso movimento
un ordine internazionale-statale. Lo Stato-nazione è il soggetto
del diritto internazionale, è sovrano. Nessuna potenza legittima
sopra di lui, nessuna sotto. Le società che non hanno adottato
la forma nazionale-statale non hanno esistenza giuridica, vanno
scoperte, conquistate e civilizzate. Il complesso dei soggetti
sovrani che dominano il pianeta forma una società delle nazioni
o associazione contrattuale degli Stati membri".
[Latouche, 1992, pag.102].
Questi Stati-nazione rispettabili, e quanto rispettati,
hanno non soltanto un territorio riconosciuto e una indipendenza
giuridica, ma anche una precisa economia nazionale. Questa è caratterizzata
da una fortissima interdipendenza tra i settori economici situati
sul territorio nazionale.
[Latouche, 1992].
Questo modello così formato indica
alcuni aspetti quali prosperità economica, sviluppo, interdipendenza
politica, prestigio culturale che sembrano bene accompagnarsi
alla nazionalità economica così intesa.
L'aspirazione allo sviluppo avvertita da tutti i paesi
del Terzo mondo, al di là o attraverso rivendicazioni d'indipendenza
o di decolonizzazione economica, è quella di accedere
alla "nazionalità economica".
Ma la logica dello Stato e del politico,
da una parte, e quella del capitale e del mercato dall'altra,
non hanno ragione di coincidere e di regola non coincidono: fusione
e l'armonia tra i due interessi non sono "naturali".
Come dicono i giuristi, la sovranità
politica, benché abbia la sua fonte nella nazione (sovranità nazionale),
ha solo un titolare, lo Stato, i cui organi sono identificabili.
La sovranità economica ha potuto avere la sua fonte nella nazione,
ma gli organi di questa non ne sono mai stati titolari esclusivi.
Dal punto di vista economico la nazione è un gruppo di aziende
e di famiglie coordinate e protette da un centro che detiene il
monopolio del potere pubblico, vale a dire lo Stato [Latouche,
1992].
La completa liberalizzazione dell'economia
ha portato la dinamica stessa della crescita alla fine di un'èra:
l'èra dello sviluppo e l'èra delle nazionalità economiche.
Accanto all'emergere di una transnazionalizzazione
economica si assiste
a una vera e propria "deteritorializzazione" sociale
e a una "transculturazione" più o meno legata a tale
transnazionalizzazione delle imprese.
Con la transnazionalizzazione delle
imprese, la dinamica del capitale e, più in generale, il movimento
dell'economia e della società moderna tendono a distruggere il
senso della nazionalità economic [Latouche, 1992]. La necessaria
deregulation dei meccanismi di direzione e di orientamento dell'economia
provoca che non sono i cittadini - cioè lo Stato che li rappresenta
attraverso le istituzioni elette o designate - a stabilire norme
e principi di funzionamento; e neppure che siano chiamati a valutare
regolarmente, nella trasparenza l'azione dei loro rappresentanti
e dell'economia in generale. Queste cose vanno lasciate ai produttori,
ai consumatori e ai finanzieri. Lo Stato deve accontentarsi
di creare l'ambiente generale più favorevole all'azione
delle imprese, affinché le stesse possano fissare le regole del
gioco e perseguire l'imperativo della competitività [Petrella,
10/95].
La "deterritorializzazione"
non è soltanto un fenomeno economico che svuota della sua sostanza
la nazionalità economica; essa ha conseguenze politiche e culturali
[Latouche, 1992]. Per tentare di mantenere un controllo sulla
crescente interpenetrazione, gli apparati statali sono costretti
a ristrutturarsi attraverso un processo di demoltiplicazione:
in altri termini devono integrarsi in aggregazioni a vocazione
regionale abdicando a una parte delle prerogative classiche della
sovranità nazionale (in particolare in materia di politica economica)
[Bihr, 4/95].
La spoliticizzazione dei cittadini,
la sostituzione delle istituzioni politiche con degli organi amministrativi
finiscono con lo svuotare lo Stato-nazione di tutta la sua sostanza.
Per quel che riguarda la cultura propriamente detta, le cose sono
ancora più complicate. La localizzazione nei principali paesi
industriali dell'Occidente della quasi totalità delle industrie
culturali, la stessa industrializzazione della cultura mediante
l'uso dei mezzi di comunicazione di massa creano un quasi monopolio
dei paesi del Nord [Latouche,
1992].
Tutto ciò non pone però fine alla
nascita o affermazione di nuovi nazionalismi.
Questi sono assai più particolaristici
e frammentari dei nazionalismi precedenti e allo stesso tempo
sono più orientati a uscire dal territorio, costruendo "reti
nella diaspora". Possono essere il prodotto della crescente
distanza tra chi si considera parte di una rete transnazionale,
la cui identità è definita da una comunità orizzontale di persone
che comunicano con telefoni, aerei, fax e posta elettronica, e
chi, dall'altro lato, si aggrappa ancora alle vecchie identità
territoriali, o se ne crea di nuove, anche se non vive in quell'area.
Ciò può condurre a una quantità di staterelli caotici con confini
permanentemente contestati, la cui sopravvivenza dipende dal continuo
uso della violenza [Kaldor, 12/94].
Questo è un processo che si è intensificato
negli ultimi venti anni ma è diventato più trasparente all'indomani
degli eventi del 1989. Movimenti etnici e/o religiosi che riaffermano
identità e valorizzano radici contestando le logiche dell'internazionalizzazione,
mostrando i limiti del razionalismo e l'importanza dei valori
culturali e/o morali. Ne sono esempi il fondamentalismo islamico,
i nazionalismi e regionalismi europei, gran parte dei pentecostali
e carismatici cristiani.
3.3.
Il diritto dei popoli e le "forme" dello sviluppo nelle
nuove dichiarazioni
Il
confrontarsi di una serie di nuove vicende all'interno del "villaggio
globale", che scardinano concetti secolari, scaturisce la
comparsa di nuove utopie: la più in voga delle quali è la proposta
ambientalista di una economia autosostenibile, un "futuro
comune" per l'umanità, una visione di interdipendenza e solidarietà
di tutti gli esseri viventi, che metta radicalmente in discussione
la logica dello squilibrio permanente, intrinseca al capitalismo
[Neto, 10/1995].
Lo Stato-nazione e il precedente
o susseguente concetto di popolo devono quindi ridefinire il loro
ruolo, in un momento di completa crisi delle culture locali a
favore di una non ben precisata ma dilagante cultura di massa
mondiale.
Il concetto di sviluppo "sostenibile"
o "umano" (che non può non richiamare, direttamente
o indirettamente, una prospettiva "antropologica", a
significare che questo approccio al termine sviluppo segna il
progressivo distacco dalle prospettive rigidamente tecnicistiche
ed economicistiche) si impone come nuovo limite sociale e condizione
vincolante, poiché i fattori ambientali e sociali drammaticamente
esposti alla crescita economica ono preoccupazioni specifiche
a livello mondiale. Insomma, l'Occidente ha cominciato a imporre
progressivamente dei limiti alla sua concezione, prima spregiudicata
e ingenuamente ottimista, dei processi-mondo dello sviluppo. Si
moltiplicano le "visioni di uno sviluppo diverso".
Ma il tempo ha ormai lasciato il
segno. L'idea di sviluppo economico che aveva avvolto prepotentemente
l'idea dell'emancipazione dei governanti dei paesi del Sud si
lega a quello di autodeterminazione soltanto nel suo aspetto deteriore,
cioè come possibilità di sfruttamento delle risorse umane e naturali.
Questa diventa l'arma di concorrenza con il Nord del mondo che
si rifiuta di rivedere il suo meccanismo si accumulazione e nono
vuole saperne di una reale trasferimento di tecnologie avanzate
a Sud. Dall'altro lato le "grandi famiglie" che rappresentano
lo Stato-nazione, avvantaggiatesi in quasi tutti gli Stati dal
processo di relazione economica con le società multinazionali,
non sono disposte a generare alcune condizioni dove inevitabilmente
perderebbero alcuni privilegi. Il mondo comincia a dividersi non
più tra Nord e Sud ma tra Centro e Periferia.
Lo dimostrano le prese di posizione
che si sono succedute nelle Conferenze delle Nazioni Unite degli
ultimi anni sullo "sviluppo umano". Probabilmente queste
tentavano di osservare lo sviluppo delle grandi prospettive e
dei grandi ideali della storia ufficiale, per incrociarne i punti
di vista e le prospettive con quelle della storia reale.
Sin dalle prime Conferenze negli
anni '70, le nazioni in via di sviluppo furono molto restie a
lasciarsi coinvolgere nelle discussioni dei Paesi del Nord riguardo
sviluppo e ambiente. Per i loro leader, "la cura dell'ambiente"
altro non era che una distrazione dell'assillante necessità di
svilupparsi. Un po' di fumo nell'aria, acqua un po' meno pulita
e foreste un po' meno estese erano un prezzo pagabilissimo, in
cambio del miglioramento delle condizioni di vita che l'industrializzazione
avrebbe portato a centinaia di milioni di vittime della povertà.
Tanto che alla Conferenza Mondiale sull'Ambiente di Stoccolma
nel giugno del 1972 Amil Agarwal, allora direttore del Centro
per la Scienza e l'Ambiente di New Delhi, commentò: "Perché
mai tutta questa gente, così ben nutrita e così ricca, si preoccupa
tanto dell'ambiente? Io vengo da un lurido slum di Kampur, nell'India
settentrionale, e Stoccolma mi sembra il più puro habitat naturale
che l'uomo possa avere. Questi occidentali, che hanno tutto, vogliono
anche acqua pulita ed aria pura. Ma il problema di Kampur, e di
gran parte del terzo mondo, è di crescere in fretta, non di preoccuparsi
degli effetti dell'industrializzazione" [Moretti,
5/92].
I paesi industrializzati, dall'altra
parte, non fecero nemmeno di cominciare a parlare di un "nuovo
ordine economico internazionale", in cui si ricomprendesse
il discorso "ambiente", considerandolo un capitolo di
una ben più vasta opera di riforme economiche e politiche, di
distribuzione equa delle risorse naturali, di aiuti finanziari
per la messa in atto di strutture di produzione di energia alternativa.
Tutte questioni che nella Dichiarazione finale di Stoccolma, non
furono nemmeno menzionate.
Nel 1992 si decise di tornare a discutere
di ambiente e sviluppo, ma, presto, in un colloquio preparatorio
alla Conferenza di Rio, svoltosi in marzo a NewYork, si delinearono
due schieramenti contrapposti. Da un lato, il Gruppo dei 77, 129
nazioni in via di sviluppo, e la Cina, che chiedevano ai paesi
industrializzati di pagare le loro responsabilità della crisi
ambientale e di contribuire - cancellando il debito estero e revisionando
le norme del commercio internazionale - ad uno sviluppo del Sud
ecologicamente sostenibile. Dall'altro, gli USA, Europa e Giappone
che continuavano a parlare un'altra lingua, e non disposti a cambiare
le loro politiche, né tanto meno a pagare per il Sud [Moretti,
5/92].
Il Sud rivendica il diritto di disporre
pienamente delle proprie risorse naturali, sottolineando che rappresentano
la principale fonte di entrate necessarie per pagare il debito
internazionale e per perseguire l'ambìto sviluppo economico. Esemplificativa
la questione della Malesia che, maggiore esportatore di legni
tropicali del mondo, diventò un aggressivo capofila di quanti
sostenevano una posizione, politicamente e logicamente corretta
nella razionalità economica imperante (la pretesa di contare di
più, di uno scambio meno diseguale) ed ecologicamente devastante
(mano libera nello sfrutamento delle proprie risorse). E attualmente
la Malesia è sotto accusa per la distruzione della foresta tropicale
del Sarawak.
Le medesime posizioni si manifestano
quando il Nord chiede la tutela del "verde" in nome
dell'interesse globale, per esempio, per fermare l'effetto serra.
Ma tanta attenzione alle foreste altrui nasconde il rifiuto -
totale nel caso degli USA - di affrontare, ad esempio, i cambiamenti
climatici partendo dalla riduzione delle emissioni chimiche dannose
prodotte in casa propria da un modello di produzione e consumo
ecologicamente "non sostenibile".
Nella Conferenza Mondiale dei Diritti
Umani realizzata a Vienna nel 1993 non sono stati elaborati principi
radicalmente nuovi per rispondere alle enormi sfide del mondo
odierno e per trasformare la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani da un mero "intento comune" in una serie di obblighi
del diritto internazionale. La Dichiarazione finale non cita neanche
il fatto che le violazioni dei diritti umani costituiscono un
ostacolo allo "sviluppo umano". Nonostante che al Forum
delle ONG, che precedeva la Conferenza, fosse stato ribadito da
un'ampia società civile che lo sviluppo, insieme con la democrazia,
è parte essenziale dell'unico e indivisibile quadro dei diritti
umani e gli Stati non avrebbero dovuto avere più la competenza
esclusiva in materia e avrebbero dovuto sottostare a forme di
controllo internazionale, senza che ciò potesse considerarsi ingerenza
indebita nei cosiddetti affari interni.
Al Cairo, nel 1994, nella Conferenza
su Popolazione e Sviluppo, si stipula un documento importante
perché per la prima volta si allarga il concetto di politiche
della popolazione allo "sviluppo sociale, economico e culturale",
affermando che gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni
per lo sviluppo sostenibile" e che "l'equità tra i sessi
e la promozione delle donne sono la chiave di ogni programma per
la popolazione e lo sviluppo".
Il Piano d'Azione che ne scaturisce
afferma che le politiche della popolazione e lo sviluppo sostenibile
sono irrimediabilmente legati, e che la base di ogni azione è
la promozione delle donne, ma si discute solo di pianificazione
familiare. La povertà abissale di molti popoli rende impossibile
ogni scelta riflessa e consapevole. (E.Chiavacci, Una strategia
della famiglia umana, Nigrizia otto.94) E il rapporto fra popolazione
e sviluppo e fra popolazione e ambiente, il ruolo dell'individuo
e i modelli di produzione e di consumo non hanno ricevuto sufficiente
attenzione, nonostante tutti i paesi ne avessero sottolineato
l'importanza nel corso delle riunioni preparatorie.
Commenta una componente di una ONG
del Sud del mondo, Fatma Mello di IBASE, che "il
Brasile è la nona nazione al mondo per PIL e tra le prime per
disuguaglianza di reddito. E' un grande esportatore di prodotti
agricoli però molta gente fa la fame. Il tasso di fertilità è
dimezzato negli ultimi venti anni, ma le donne sono anche impoverite.
Perché le donne possano esercitare la scelta di cui si parla,
bisogna stabilire le condizioni sociali, economiche e politiche
di questa libertà. Insisto su quelle politiche, perché in America
Latina i regimi autoritari sono il primo ostacolo alla partecipazione
delle donne. Anche la salute e la salute riproduttiva ha più a
che vedere con una politica di pari diritti che non siano semplici
programmi di family planning. Le politiche di aggiustamento strutturale
in molti paesi hanno portato a tagliare la spesa sociale. Bisogna
capovolgere il luogo comune della bomba demografica. Si continua
a dare la colpa alla sovrappopolazione, ma è un alibi per non
parlare di consumi" [Forti, 11/9/94].
Un vertice convocato proprio per
arrestare i meccanismi di esclusione di tanta parte del mondo
dello sviluppo, elaborare nuove strategie di lotta alla povertà,
attivare nuove politiche capaci di creare occupazione ed inserire
maggiormente i paesi di Africa, America Latina e Asia nella comunità
economica e politica internazionale è la conferenza di Copenhagen
del 1995 dove si è imposta progressivamente una idea contrastante
con l'ideologia dello sviluppo economico a causa della gravità
senza precedenti dei fallimenti e dei danni causati dall'imposizione
di queste ideologia, al nord come al sud, all'est come all'ovest.
"Dal 1981 ad oggi
la produzione mondiale è aumentata del 50%, ma nello stesso tempo
il reddito pro-capite in molti paesi, soprattutto a fricani è
crollato. Siamo qui per cambiare il corso della Storia altrimenti
sarà la storia a cambiare noi" intervento del primo ministro
danese Rasmussen, aprendo i lavori della Conferenza. L'esclusione
e la marginalizzazione disintegrano le società in nome del produttivismo
e della competitività; l'esaltazione della regolazione attraverso
il mercato porta all'ignoranza sistematica dei bisogni primari
della maggioranza e al degrado accelerato degli ecosistemi; la
grande povertà e la miseria colpiscono popolazioni [Comeliau,
1/95].
Ma se il senso dato al termine "sociale"
è prima di tutto un prodotto dell'ideologia economicistica, se
il sociale viene distinto dall'"economico" non per stabilire
una nuova gerarchia di valori da prendere in considerazione nelle
decisioni politiche, sotto la pressione dei fallimenti molteplici
dovuti all'approccio soltanto economico, e se bisogna lanciare
una politica sociale perché possa perdurare una politica economica,
il risultato che si otterrà è evidentemente quello di Copenhagen,
quando si è discusso sull'introduzione delle clausole sociali.
La razionalità economica che guida i governi del Nord e, oramai
anche del Sud, ha portato a non riconoscere con clausole ben precise
la proibizione del lavoro forzato e lo sfruttamento minorile,
la salvaguardia dei diritti sindacali e il diritto a una giusta
retribuzione, la libertà d'associazione e di negoziazione collettiva
e il principio della non-discriminazione [Squarcina, 4/95].
Capitolo
4
L'ONU
DEI POPOLI
4.1.
Ipotesi di possibili soluzioni
Il
10 dicembre 1948, con l'approvazione della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'uomo, venivano formalmente riconosciuti e ratificati
da tutti gli Stati del pianeta i diritti umani. Sia quelli di
carattere civile e politico, detti anche "diritti della prima
generazione", data la loro maggiore antichità normativa nell'ambito
del diritto internazionale. Considerati essenzialmete individuali,
perché in quanto naturali sono universali e precedenti alla strutturazione
politica dei paesi, non possono essere contravvenuti da nessuno
Stato, neppure in nome della sovranità.
Altro corpo di diritti riconosciuti
sono quelli economici e sociali, noti anche come "diritti
della seconda generazione". Essi a differenza dei primi,
impongono alle istituzioni dello Stato il dovere di concretare,
sui piani economico, giuridico e culturale, il benessere generale
degli individui, garantendo così il loro fine sociale.
Esiste infine un insieme di diritti,
chiamati della "terza generazione", definiti anche "diritti
di solidarietà". Essi, secondo questa definizione, oltrepassano
l'opposizione allo Stato (diritti della prima generazione) e la
richiesta allo Stato (diritti della seconda generazione). Superano
perciò i limiti statali, giacché il loro esercizio rende necessaria
la cooperazione tra i popoli. Sebbene la loro configurazione non
sia del tutto definita, si riconoscono nella "terza generazione"
il diritto alla pace (riconosciuto in Assemblea Generaale con
l'adozione nel 1984 della Dichiarazione del Diritto dei Popoli
alla Pace), il diritto allo sviluppo (riconosciuto in Assemblea
Generaale con l'adozione nel 1986 della Dichiarazione del Diritto
allo Sviluppo) e all'indipendenza economica, il diritto a vivere
in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, come patrimonio
comune dell'umanità. . Tra questi spicca, il diritto alla libera
autodeterminazione dei popoli, norma che acquisirebbe un significato
di condanna di qualunque interferenza di potenze o blocchi di
Stati in decisione che intaccano sovranità e prosperità dei paesi
piccoli o sottosviluppati (Art. 1, comma 1 dei due Patti internazionali
del 1966: "Tutti i
popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo
diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e
perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale")
[Neira, 10/95].
Ma come si può definire il popolo:
"Il popolo, ogni popolo
è una comunità naturale - dice Papisca -
che detiene la sovranità a titolo originario, perché ciascuno
dei suoi memebri è titolare di diritti umani, inviolabili e inalienabili.
Il popolo viene prima dello Stato. Anche quando un popolo ha uno
Stato che lo rappresenta, non perde la sua identità di soggetto
originario e distinto dallo stato, e resta libero di darsi altre
strutture di rappresentanza e aggregazione d'interessi, non necessariamente
alternative e concorrenti rispetto a quelle statali" [Papisca,
10/92].
E ai popoli la Carta delle Nazioni
Unite si rivolge con le parole "Noi,
popoli delle Nazioni Unite", ma poi ha conferito nel
corso degli anni tutto il potere di decisione ai governi. Dice
Papisca che è tempo di superare la tradizionale "forma"
dello Stato nazionale, sovrano e armato. Oggi c'è bisogno di uno
Stato sostenibile, che giunga a riconoscere il primato della legge
universale dei diritti umani. Coniugare Stato di diritto e Stato
sociale, attuare al proprio interno il principio di autonomia
territoriale e funzionale, riconoscere e rispettare gli eguali
diritti di cittadinanza di tutte le persone che risiedono sul
proprio territorio.
Tante sono le proposte per migliorare
o cambiare la struttura e il funzionamento dell'ONU per farlo
tornare ad essere l'ONU dei popoli: dall'Abolizione del potere
di veto del Consiglio di Sicurezza, all'elezione diretta da parte
dei Popoli delle Nazioni Unite di un Parlamento delle Nazioni
Unite; avviare un negoziato globale per la revisone dei rapporti
di scambio tra i paesi ad economia ricca e quelli ad economia
povera, sulla base dei parametri di giustizia sociale, equità
e solidarietà. E ancora Kaldor e Held propongono un modello di
democrazia cosmopolita che distribuisce la sovranità a reti di
istituzioni sovranazionali distinte per funzioni diverse - la
sicurezza a forze armate dell'ONU, la moneta a un Fondo Monetario
democratizzato, l'ambiente a una agenzia apposita [AA.VV, 1993].
La possibile riforma del Consiglio di sicurezza distribuendo
un seggio permanente per aree geografiche, oppure, come suggerisce
il Rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite del 1992, un Consiglio
di Sicurezza per lo sviluppo che sia composto da 11 membri permanenti
e da 11 membri a
tempo determinato come proposto dall'UNDP [UNDP n.3, 1993].
Bisogna tornare alla valorizzazione
dei popoli suggerisce
Papisca: "L'ONU sostenibile
è l'ONU dei popoli che miri a realizzare i propri obiettivi di
pace e sviluppo umano in coerenza con i principi enunciati dalla
propria Carta, e che riesca a garantire il rispetto della legge
internazionale dei diritti umani, a governare l'economia mondiale
secondo equità e giustizia, a decidere e gestire efficaci politiche
a protezione dei migranti, di cooperazione allo sviluppo, di difesa
dell'ambiente naturale, di prevenzione dei conflitti armati, di
disarmo reale" [Papisca, 10/93) Dovrebbero essere gli
stessi popoli, attraverso istituzioni indipendenti di società
civile, a tutelare i propri diritti con appropriate forme e strumenti
di azione politica, da condursi con l'allenza delle istituzioni
di governo locale e di quelle sopranazionali. [Papisca, 10/95].
Con la mondializzazione dei rapporti
sociali nell'ambito di uno sviluppo globale e umano, l'ingenuità
di alcuni principi come quelli enunciati dalla Carta dei diritti
e dei doveri economici degli Stati, che stipula che le "multinazionali
non devono intervenire negli affari interni dei paesi in cui operano",
non possono non far pensare inizialmente all'allargamento del
campo dei diritti economici e sociali [Bihr, 4/95].
Il modello di sviluppo scelto ignora,
in termini generali, la sorte della maggioranza della popolazione
che concentra tutta l'attenzione sull'espansione del commercio
di beni e servizi, sull'investimento straniero (in generale poco
intensivo in mano d'opera) e nella privatizzazione selvaggia dei
beni dello Stato. Le ripercussioni sociali dell'aggiustamento
attentano direttamente i diritti umani di una grande fetta della
popolazione.
Esiste un rapporto diretto tra debito
e aggiustamento e tra questi e il godimento del diritto allo sviluppo
inteso nello spirito della Dichiarazione del diritto allo sviluppo
del 1986.
L'emarginazione implica, oltre al
mancato soddisfacimento dei diritti economici e sociali, situazioni
di elevato rischio personale, l'impossibilità di esercitare altri
diritti come la partecipazione, il diritto alla giustizia (l'emarginato
è il nuovo stereotipo antisociale) la pratica della cittadinanza,
il diritto culturale e alla scelta di propri modelli culturali;
inoltre, in generale, essa origina una situazione di violenza
permanente a livello sia individuale che collettivo
Lo aveva descritto Jean-Jacques Rousseau
nel Contratto Sociale: la democrazia esige "molta
uguaglianza di rango e di censo". Perché gli uomini siano
veramente liberi bisogna che "nessun
cittadino sia abbastanza ricco per poterne comprare un altro,
né abbastanza povero per essere costretto a vendersi".
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