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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
Per una alternativa allo sviluppo
P.zza A. Paleario 7
03100, Frosinone
ccp 10687036

"IL RAPPORTO TRA AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI E GLOBALIZZAZIONE NELLA POLITICA E NELL'ECONOMIA IN RELAZIONE AL DIRITTO ALLO SVILUPPO NELLE RELAZIONI NORD-SUD "

 

Capitolo I

LO STATO NAZIONE

1.1. La sovranità nazionale                                                       

1.2. I caratteri dello Stato-nazione                                              

 

Capitolo 2

AUTODETERMINAZIONE E SVILUPPO

2.1. L'autodeterminazione dei popoli                                                   

2.2. Dal colonialismo all'autodeterminazione dei popoli                     

2.3. L'autodeterminazione nello svilippo storico e nelle dichiarazioni internazionali      

 

Capitolo 3

IL DIRITTO AD UNO SVILUPPO UMANO AL TRAMONTO DEL XX SECOLO

3.1 Rapporto UNDP: numeri drammatici, fine del concetto di sviluppo legato alla crescita economica?

3.2 Crisi del concetto di Stato-nazione                                                  

3.3. Il diritto dei popoli e le "forme" dello sviluppo nelle nuove dichiarazioni    

 

Capitolo 4

L'ONU DEI POPOLI

4.1. Ipotesi di possibili soluzioni                                                        

 

BIBLIOGRAFIA

 


Capitolo I

LO STATO NAZIONE

 

 

1.1. La sovranità nazionale

 

Il termine "nazione", in forma moderna, comincia a comparire nel discorso politico nel corso della Rivoluzione Francese: "Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione; nessun organo, né alcun individuo può svolgere il proprio potere senza espressa delega". (Art.3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino).

         A fondamento di tale teoria c'è la nozione fondamentale del contratto sociale di Rousseau. Il contratto sociale sembra assicurare a ogni individuo l'indipendenza cui ha diritto. Esso sottolinea così l'impegno reciproco e legale fra i cittadini e quello della volontà della nazione concepita come la legge suprema, cioè la nazione sovrana. Contratto sociale come sovranità della volontà generale, mandato della nazione a chi è incaricato di esercitare i suoi poteri. [Groeuthysen, 1967]

         E' per propria scelta e non per costrizione che ogni individuo fa parte del tutto; la comunità nella quale entra, fondata sul diritto, gli garantisce i suoi diritti. E' il libero cittadino di una libera nazione. In tal modo la coscienza dell'individuo di appartenere legittimamente alla nazione, senza attentati alla sua libertà, soddisfa il sentimento della sua dignità umana, e nello stesso tempo determina il suo rapporto con la comunità dei cittadini, l'unisce ai compatrioti. La nazione è un tutto legale, composto di individui, liberi per diritto e uniti tra loro allo stesso modo, attraverso un contratto.   

         Il popolo, dice Rousseau, non può separarsi dalla sua sovranità, non può alienare la sua libertà. La sovranità del popolo è indefettibile, non può essere trasferita su nessuno. Il popolo, come l'individuo, non potrebbe alienare la sua libertà e cedere i propri diritti a un'altra persona senza diventare uno schiavo. Il popolo è e resta sovrano. [Groeuthysen, 1967]

         La volontà generale è il potere supremo. Tutte le funzioni vengono da essa distribuite e da essa continuano a dipendere. Essa realizza il diritto perseguendo il proprio scopo che non è altro che quello di assicurare all'individuo il libero esercizio di tutti i suoi diritti. Essa ha per fondamento e per fine il diritto.

         Comunque, obietta Rousseau, l'istituzione di un governo da parte del popolo non può esser nata da un contratto. Non possono esservi contratti tra un popolo e i capi che esso si dà. Non può esservi che un impegno reciproco di cittadini fra loro: il contratto sociale. [Groeuthysen, 1967]


1.2. I caratteri dello Stato-nazione

 

In chiave di una visione politica nazionale, che faceva coincidere lo Stato con la nazione, rivalutando tutte le componenti della nazione stessa, si cominciò a considerare il "popolo" come possibile soggetto di vita politica.

         Così le élite borghesi ottocentesche, che percepiscono sé stesse come "popolo", si sforzano di perimetrare identità e confini sulla base di lingue e storie nazionali funzionali all'obiettivo che definiscono prima il nazionalismo poi la nazione; prima la creazione dello Stato poi la legittimazione in chiave nazionale dello stato [Hobsbawn, 1991].

         Secondo Hobsbawn quattro sono i criteri individuabili che nel corso dell'800 distinguono la volontà riuscita di un "popolo" di porsi come nazione, con il diritto attraverso l'apparato dello Stato-nazionale: "il tacito principio della 'taglia minima'"; poi "il suo essere storicamente associato a uno Stato esistente oppure di possedere un notevole passato"; una élite culturale, una letteratura nazionale, un gergo amministrativo; "la provata capacità di conquista" [Hobsbawn, 1991].

         Anche per Albertini M. per giungere a una definizione positiva di nazione, si accerta il modo in cui la presenza dell'identità nazione si manifesta nel comportamento osservabile degli individui, cioè nell'identificare un "comportamento nazionale". In pratica è l'organizazzione politica della società che si identifica con l'organizzazione della cultura attraverso l'ideologia. L'individuo reale a questo punto è spazzato via. Diventa elemento di una volontà collettiva organica, di un 'tutto' sociale: una razza, una religione, uno Stato. Nel caso della nazione l'individuo si identifica con essa, "porta con sé la nazione", è ridotta a esclusivo "essere nazionale". E poiché la nazione si esprime nello Stato, ogni individuo si identifica con esso e il cerchio si chiude [Ilardi,    ].

         Storicamente il sentimento nazionale è stato creato, dunque, mediante l'estensione forzata a tutti i cittadini dello Stato di alcuni tipici contenuti della nazionalità spontanea (per esempio la lingua) o quantomeno, quando questa estensione si è rivelata inattuabile, mediante l'imposizione dell'idea falsa che alcuni contenuti tipici della nazionalità spontanea fossero comuni a tutti i cittadini (per esempio i costumi). Questo processo si è attuato, negli Stati che l'hanno portato avanti fino in fondo, con l'imposizione dei contenuti caratteristici della nazionalità spontanea prevalente e con la soppressione delle nazionalità spontanee minori (a questo proposito è paradigmatico il caso della Francia).

         In Francia, ritiene Balibar, "come, mutatis mutandis, nelle altre vecchie formazioni borghesi, ciò che ha permesso di risolvere le contraddizioni prodotte dal capitalismo e di iniziare a rifare la forma nazione, benché non ancora compiuta, è l'istituzione dello stato-nazionale-sociale, cioè di uno stato che 'interviene' nella riproduzione stessa dell'economia e soprattutto nella formazione degli individui, nelle strutture della famiglia, della sanità pubblica e più in generale di tutto lo spazio 'privato'" [Balibar, 1992].

         Ecco che lo sviluppo del "comportamento nazionale" si è evoluto in concreto insieme ai grandi processi di trasformazione economico-sociale aperti dalla Rivoluzione Industriale inglese, e, quindi, dalla conseguente formazione di grandi partiti politici popolari.

         Il concetto di Stato-nazione, che è determinato maggiormente dall'organizzazione economica internazionale piuttosto che dai concetti che storicamente avevano determinato o rappresentato il concetto di nazione, coincide con vasti interessi comuni di più classi sociali, che vi aderiscono più o meno coscientemente, soprattutto gli Stati europei traggono un vantaggio economico non indifferente dalla stipulazione di un "contratto sociale". La scala dei lealismi si rovescia, e il sentimento "economico" di appartenenza alla propria nazione, al proprio Stato nazionale, acquisisce una posizione di assoluta preminenza su qualsiasi altro sentimento di appartenenza territoriale, religiosa o ideologica, proprio con il formarsi di uno Stato-nazione organizzato, burocratizzato e accentrato amministrativamente, coinvolto in prima persona per favorire le élite borghesi che sullo scambio economico transnazionale basano oramai tanta della loro forza.

         Con il passare degli anni risulta sempre di più che la nazione è l'ideologia di un certo tipo di Stato, poiché è proprio lo Stato l'entità alla quale concretamente si dirige il sentimento di fedeltà che l'idea di nazione suscita e mantiene.


Capitolo 2

AUTODETERMINAZIONE E SVILUPPO

 

 

2.1. L'autodeterminazione dei popoli

 

Nel corso del XX secolo il concetto di sovranità nazionale è stato ribadito sul piano storico e politico attraverso quella che viene chiamata "autodeterminazione dei popoli", con la quale, sul piano sociologico, si intende la capacità che popolazioni sufficientemente definite etnicamente e culturalmente hanno di disporre di sé stesse e il diritto che un popolo ha di scegliersi l'organizzazione dello stato e la forma di governo. L'autodeterminazione, concepita come un diritto universale, nella sua duplice accezione di diritto interno e internazionale, deve assicurare ad ogni popolo la propria sovranità interna, le fondamentali libertà costituzionali, senza le quali la sovranità internazionale dello Stato è poca cosa. E' un diritto che non si esurisce con l'acquisizione dell'indipendenza, ma che accompagna la vita di ogni popolo. L' autodeterminazione dei popoli è strettamente legata ai diritti degli individui, dei quali costituisce un corollario; sarebbe una palese contraddizione lottare per l'autodeterminazione calpestando i diritti fondamentali della persona umana.

         Ma nel secolo XX questo concetto ha assunto un significato maggiormente storico, essendo comunemente associato alle forme di emancipazione politica ed economica del fenomeno dell'imperialismo capitalistico.

         L'imperialismo è da intendersi come estensione da parte degli Stati o di sistemi politici analoghi, dell'ambito territoriale della loro influenza o del loro potere diretto e come forma di sfruttamento economico a danno degli Stati o popoli soggiogati.

         Una delle forme che l'imperialismo ha assunto nella storia è stato il colonialismo, cioè la colonizzazione dei paesi extraeuropei da parte soprattutto dei paesi europei. La colonizzazione è un processo di espansione militare, politico ed economico di conquista delle colonie. Il colonialismo, a differenza di colonizzazione, definisce più propriamente l'organizzazione dei sistemi di dominio.

         Il colonialismo stesso ha avuto più fasi e più modi di manifestarsi, anche se il concetto di fondo ha avuto ed ha un unico significato. Un primo periodo è stato quello in cui il colonialismo è determinato dalla espansione del commercio nel mondo, la costituzione di basi sulle coste dei continenti extraeuropei, lo sfruttamento delle miniere d'oro e di argento, il commercio dei tessuti indiani o delle spezie orientali.

         Questo tipo di colonialismo veniva portato avanti dalle maggiori potenze europee con due ideologie diverse: l'ideologia coloniale inglese con un sistema, definito indiretto, interviene sulle società tribali, mutandone i confini, definendoli e adattandoli alle esigenze di ristrutturazione  e controllo della produzione e dei flussi della forza-lavoro, così che i capi tribali, strumenti essenziali per il controllo politico territoriale, vengono creati dove non esistono e quelli restii a lavorare vengono sostituiti; quella francese è caratterizzato da sistemi fortemente centralizzati. Il sistema coloniale francese in teoria si presenta come portatore della "mision civilisatrice" che dovrebbe cancellare qualsiasi struttura di potere tradizionale, livellando ogni società in uno sviluppo lineare definito da una amministrazione centralizzata e uniforme col supporto di un sistema educativo del tutto simile a quello della madrepatria.

         Queste ideologie europee lasciano spazio a quella "più moderna", quella americana attraverso la dottrina Monroe, la cui conseguente opera di colonialismo ebbe inizio ai primi del '900. Essa si risparmiava un proprio apparato coloniale e proprie truppe coloniali, in quanto trovava più economico comprare governi locali, che grazie al mantenimento di un'indipendenza apparente gettavano polvere negli occhi della resistenza anticolonialistica delle masse popolari, mascherando la realtà della dominazione straniera [Markov, 1972].

         Nel 1878 il 67% delle terre emerse era stato colonizzato, mentre intorno al 1914 il mondo appariva praticamente ripartito, tanto economicamente quanto territorialmente (84,4%) e l'organizzazione capitalistica permetteva un sempre più efficiente sfruttamento delle risorse dei paesi e delle popolazioni dominate.

         Per i paesi colonizzati dal dominio economico occidentale la conseguenza principale fu quella di non favorire un processo di sviluppo autonomo e globale che coinvolgesse tutti i comparti economici. La struttura dell'economia dei paesi arretrati rimase "dualista", un settore dinamico e moderno orientato verso l'esportazione e basato sull'organizzazione capitalistica, un altro sostanzialmente basato su strutture pre-capitalistiche con un'agricoltura di sussistenza. 

         Nel secondo dopoguerra le principali potenze coloniali tentano in primis non già di decolonizzare, ma di ricomporre e ricostituire i sistemi coloniali al fine di ristrutturare l'economia di esportazione perché contribuisca alla ricostruzione europea, salvaguardando i mercati monopolistici della competizione delle multinazionali. E' in questo periodo che iniziano le riforme dello Stato coloniale tese a favorire il formarsi e il consolidarsi di classi medie locali alleate al disegno di mantenimento dello status quo coloniale. Molti intellettuali africani parlano a proposito di autocolonialismo per definire quel processo di subordinazione alla cultura occidentale che forma in buona parte la presa di coscienza nazionalista delle classi medie nei paesi ex-coloniali.

         La qualità diversa del colonialismo contemporaneo o neocolonialismo è da analizzare nella necessità di creare strutture di dominio totali per organizzare lo sfruttamento sistematico delle risorse in una fase di formale indipendenza delle vecchie colonie. Il neocolonialismo nelle parole di Kwame Nkrumah, uno dei capi del nazionalismo africano, consiste nel fatto "che lo Stato assoggettato conserva una indipendenza formale, con tutti gli ornamenti esterni della sovranità, mentre il suo sistema economico e quindi la sua politica vengono diretti dall'esterno" [Nkrumah, 1965].


2.2. Dal colonialismo all'autodeterminazione dei popoli

 

I due termini "sviluppo" e "colonialismo" (almeno nella sua ultima fase, dopo il 1870) indicano un solo ed unico fenomeno e quindi un solo obiettivo da perseguire [Goldsmith, 4/96].

         Nella società occidentale per tutto l'ottocento il termine "sviluppo" era stato utilizzato, come in molte altre culture, per indicare il "completamento naturale" del normale ciclo di vita di un essere vivente (pianta, animale, uomo), il movimento che portava un vivente alla sua forma appropriata e definitiva, conoscibile a priori sulla base dell'analisi comparativa tra le forme viventi. Il ciclo di "sviluppo" di un vivente non era altro che la serie degli stadi "naturali" quasi immodificabili che egli attraversava.

         Ma, con l'andar del tempo, questo tipo di società che cominciava a presentarsi complessa e articolata, stratificata, urbana, manifestava la tendenza a risolvere i problemi dell'espansione demografica ed economica con una delle seguenti strategie: aggredendo con armi adeguate gruppi vicini e sottomettendoli fino al punto da sottrarre loro preziose ricchezze e finendo per utilizzare questi stessi come risorse (attraverso forme di schiavitù), oppure potenziando il loro sistema produttivo e gli scambi con l'esterno. In quest'ultima direzione lo sforzo espansivo si realizzava agendo sui mezzi tecnici per la trasformazione delle risorse naturali, o sull'organizzazione sociale della produzione o sulla produttività del lavoro umano, o infine favorendo la creazione di adeguate reti di mercati [Colajanni, 1990].

          Dall'antico significato di sviluppo ne scaturisce adesso uno tutto nuovo. "Sviluppo" comincia così a significare qualcosa come un "superamento della condizione 'naturale' e attuale", verso un miglioramento finalistico, un superamento, un perfezionamento, i cui limiti non si possono identificare a priori e una volta per tutte. In altri termini, mentre la natura si "sviluppa" ritornando a percorrere cicli noti di variazioni, le società umane possono "svilupparsi" superandosi e migliorando continuamente, abbandonando tappe e livelli raggiunti in precedenza come traguardi ormai "superati" e superabili. Una sorta di entusiastica fiducia nelle illimitate possibilità dell'uomo di creare un futuro radioso per tutti i suoi simili si impadronisce delle classi dirigenti dei paesi ricchi.

         Il carattere cumulativo e continuo di questo processo porterà alla metà dell'ottocento l'Europa a lanciare una grande campagna complessiva di espansione globale (materiale e spirituale) in tutto il mondo. Questa campagna era sostenuta da una forte impalcatura concettuale (il concetto di progresso) che permetteva, all'interno e all'esterno dell'Europa, di collocare ogni processo, ogni azione economica e sociale, nel contesto di una dinamica planetaria caratterizzata da un costante e inesorabile mutamento ascensionale [Colajanni, 1990].

         Questi processi di sviluppo e le azioni volte a realizzarli presso la propria o altre società hanno caratterizzato in maniera massiccia anche il mondo contemporaneo, almeno da una quarantina d'anni. All'interno della forma-stato, la programmazione e la collocazione in successione temporale, secondo strategie composite, di investimenti atti ad assicurare una sempre maggior produzione di beni in grado di soddisfare i bisogni mutevoli di una popolazione crescente, ha dominato le strategie politiche ed ha primeggiato tra le preoccupazioni dei paesi avanzati.

         Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale i fili storici sommariamente indicati si fondono in una concezione sistematica globale, che eredita dal concetto ottocentesco di "progresso" la sua linfa vitale. L'idea di un cammino ascensionale che può riguardare tutta l'umanità, purché si rispettino certe condizioni, si impone sempre più imperiosamente. Questo cammino ascensionale, sul quale gli europei e gli americani vittoriosi esprimevano un entusiastico giudizio positivo, si basa sulla fiducia  nell'incessante perfezionamento della scienza e della tecnica, sulla specializzazione del lavoro, sulla variazione continua dei bisogni e sull'aumento vertiginoso della produzione di beni, sullo sfruttamento intensivo e sistematico di tutte le possibilità che offrono le risorse naturali esistenti (viste come se fossero "infinite") [Colajanni, 1990].

         L'umanità viene vista adesso come una cordata di società, alla guida della quale sta un gruppo ristretto di paesi che stanno ad indicare la strada agli altri. I rapporti tra i centri del mondo (Europa e America) e le periferie cambiano di natura. Il mondo non è più uno spazio di controllo politico e militare diretto (com'era stato durante l'età coloniale), ma diventa progressivamente un'area di scambio e di controllo economico. Gli aiuti economici cominciano a diventare gli strumenti principali di rapporto tra paesi di diversa potenzialità produttiva, allo scopo di ottenere forme, il più delle volte illusorie, di "livellamento".

         Appare chiaro, insomma, che in un mondo che stava sempre più diventando "un solo paese" le differenze di cultura, di modi di vita e di ricchezza, diventano sempre più "scandalizzanti" al punto da giustificare energiche azioni d'intervento. Lo scatenarsi delle imprese coloniali nell'Ottocento si accompagnava certo alla ricerca esasperata di nuove risorse materiali e umane da controllare, ma è evidente che a queste componenti "materiali" se ne accompagnavo altre di carattere concettuale, culturale, di interpretazione della "globalità" della condizione umana nel mondo. I territori e le genti delle colonie cominciarono così lentamente ad apparire, agli occhi degli europei, il terreno di dimostrazione di una grandiosa superiorità storica, e il banco di prova delle responsabilità conseguenti [Colajanni, 1990].

         La nozione di sviluppo nei suoi aspetti logico-ideali, come prodotto concettuale  di un gruppo di società date, si articola, quindi, a partire da alcuni presupposti precisi, che sono: il fatto indiscutibile che lo sviluppo esiste, è positivo, desiderabile, universale, necessario, conosciuto e conoscibile, e si basa sulla convinzione ottimistica che i beni a questo mondo sono illimitati, come i bisogni degli uomini. (38)

         Da tale concetto di sviluppo, adeguato alla ideologia della cultura capitalistico-occidentale, sorge conseguentemente un concetto di sottosviluppo.

         Si ritiene che ci sia un atto formale di nascita per questa nuova concezione di sviluppo e per l'inizio delle nuove pratiche di rapporti tra l'Occidente e le società diverse. Si fa infatti risalire alla famosa dichiarazione del presidente americano Truman, del gennaio 1949, la prima distinzione formale e opposizione radicale tra "sviluppati" e "sottosviluppati", che sarà poi alla base di tutte le forme di relazione economico-politica con la società del Terzo Mondo. Da questo momento in poi le diverse azioni, gli interessi delle nazioni ricche dell'Occidente, saranno sistematicamente orientati, interpretati, canalizzati, attraverso il nuovo concetto-base di "sviluppo", che finisce per rappresentare il vero "dover essere" delle società umane. Le società del Terzo Mondo non sono più definite, da questo momento in poi, per loro caratteristiche proprie positive, ma per il fatto di essere il contrario delle società dell'Europa e dell'America; per essere - insomma - prive di quel carattere ormai fondamentale per la storia dell'uomo, appunto lo "sviluppo": sono da questo momento in poi "società sottosviluppate".

         La macchina socio-economico-culturale dello sviluppo è dunque un insieme di sistemi di azione e di idee che consiste in: a) Un processo storico sui generis; b) Un corpus concettuale riconoscibile e abbastanza ben definito; c) Un insieme di dispositivi istituzionali e sociali all'uopo espressamente destinati (Ministeri specializzati, istituzioni internazionali come la FAO, il PNUD, ecc.).


2.3. L'autodeterminazione nello svilippo storico e nelle dichiarazioni internazionali

 

2.3.1. Nel secondo dopoguerra era divenuto chiaro ai paesi che si erano liberati dal dominio straniero che l'indipendenza politica era ben poca cosa se non si accompagnava a una piena autonomia sul piano economico. L'autodeterminazione dei popoli non passava più soltanto attraverso l'indipendenza politica dai regimi coloniali, ma anche in una economia che diventava sempre più globale, attraverso l'indipendenza economica e le possibilità di reale sfruttamento delle proprie risorse. La possibilità di "sviluppo" economico-industriale, concetto ormai fagocitato dai paesi del Sud, diveniva sempre più sinonimo di autodeterminazione dei popoli, i quali si sentivano estraniati dalla condivisione delle ricchezze mondiali.

         Le condizioni dell'autodeterminazione quindi passavano per la via dello sviluppo, come anche ribadivano i Capi di Stato dei più grandi stati usciti dal colonialismo. I finanziamenti necessari per creare o sviluppare l'industrializzazione o per modernizzare l'agricoltura erano, però, condizionati sia dal buon andamento del prezzo delle materie prime esportate, sia dalla concessione di prestiti da parte delle istituzioni internazionali: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Queste istituzioni furono create, nella famosa conferenza di Bretton Woods nel 1944: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) aveva lo scopo di promuovere una cooperazione monetaria internazionale, di favorire una crescita equilibrata dei commerci, di mantenere la stabilità monetaria, di eliminare le restrizione valutarie che ostacolano l'espansione del commercio mondiale, di offrire assistenza tecnica e finanziaria; la Banca Mondiale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BM), i cui obiettivi originari erano la promozione di uno sviluppo economico a vasto raggio, per eliminare gli squilibri valutari  che possono incidere negativamente sulla libera concorrenza. Qualche anno più tardi, si formò il GATT, Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio, firmato a Ginevra nel 1948, per abolire gradualmente le barriere doganali.

         Queste istituzioni erano basate sui principi tipici del capitalismo e legate alle grandi potenze occidentali soprattutto agli USA. I principi fondamentali dell'economia mondiale, dunque nel disegno politico dei maggiori paesi occidentali, continuavano ad essere collegati alla concezione ideologica dello sviluppo attraverso l'economia di mercato, cioè la libera concorrenza.

         I Paesi del Terzo mondo che mano a mano conquistavano l'indipendenza politica e che quindi diventavano più attivi in campo internazionale contrastarono con forza alcuni dei principi base che determinavano il funzionamento di queste istituzioni e cercarono di adottare nel campo dei rapporti economici internazionali alcune altre strategie che permettessero loro di emanciparsi dal dominio occidentale.

         Uno dei maggiori problemi fu quello di creare le premesse di una vera e propria "dottrina" dello sviluppo vista dai paesi del Sud, poiché a causa dell'aggravarsi dei problemi economici, le istituzioni di Bretton Woods soprattutto, non garantivano sufficientemente uno sguardo obiettivo sui problemi del Sud. Così nel corso degli anni successivi mettendo in discussione il concetto di crescita legata allo sviluppo economico, cercarono di ritradurre in nuovi principi e conseguenti istituzioni internazionali il concetto di sviluppo dal loro punto di vista.

 

2.3.2. Nel 1955 alcuni Stati indipendenti del Terzo Mondo, che non si riconoscevano necessariamente nei problemi dei paesi del "Centro", convergono a Bandung in Indonesia nella famosa Conferenza dove si incontrarono 29 paesi africani e asiatici su iniziativa di 5 paesi dell'Asia (Indonesia, India, Birmania, Ceylon e Pakistan).

         Nella Conferenza si riconosce innanzi tutto il valore dello sviluppo economico come effettivo adempimento preliminare per l'attuazione di quella autodeterminazione politica che da sola non aveva fatto entrare i paesi "ormai" sotosviluppati nell'orbita del commercio e della opulenza delle nazioni: "la conferenza afro asiatica riconosce l'urgente necessità di incoraggiare lo sviluppo economico della zona afro-asiatica". Si hanno comunque ben chiari gli obiettivi di politica economica che si devono perseguire sia dal lato della produzione interna "i paesi dell'Asia e dell'Africa devono variare le loro esportazioni elaborando le materie prime ogni qual volta la cosa sia economicamente realizzabile", stabilizzando i prezzi internazionali e la domanda dei prodotti essenziali mediante il gioco delle disposizioni bilaterali, cioè di sottrarre, grazie a specifiche clausole dei trattati commerciali, il prezzo delle materie prime dalle fluttuazioni del mercato. Tali fluttuazioni, infatti, potevano essere assai negative per i paesi del Terzo mondo produttori, appunto, di materie prime; sia del vantaggio che si potrebbe ottenere nel controllo più deciso di alcune delle risorse fondamentali utili anche al Nord: "La conferenza reputa che lo scambio di informazioni  in campo petrolifero possa condurre all'elaborazione di una politica comune".

         Attraverso la cooperazione economica ci sarebbe potuto essere un elevamento del livello d'istruzione dei paesi più poveri colonizzati ai quali il colonialismo "impedisce  la coooperazione culturale e lo sviluppo delle culture nazionali. Talune potenze coloniali hanno negato ai popoli coloniali i diritti fondamentali nel campo dell'educazione e della cultura, il che ostacola lo sviluppo della loro personalità e gli scambi culturali con gli altri paesi asiatici e africani".

         Nella Dichiarazione finale, nella particolare accentuazione data al principio del rispetto dei diritti umani, innalzato a principio prioritario, concepito essenzialmente in chiave anticolonialista, si pone la limitazione, al diritto di difesa legittima collettiva; si stabilisce il principio secondo cui nessuno deve esercitare pressioni su altri. Importante così è il collegamento che questa Conferenza dichiarava di avere su questo punto con la Carta dell'ONU, di cui ne approvava i principi fondamentali e prendeva "in considerazione la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo quale fine comune cui devono tendere tutti i popoli delle nazioni. La conferenza dichiara di approvare totalmente il principio del diritto dei popoli e delle nazioni a disporre di sé stessi, quale è definito nella Carta delle Nazioni Unite e di prendere in considerazione le risoluzioni delle Nazioni Unite sul diritto dei popoli e delle nazioni a disporre di sé stessi, ciò che rappresenta la condizione base per il pieno godimento di tutti i diritti fondamentali dell'uomo". E in altro punto che "la questione dei popoli assoggettati al dominio straniero, al controllo e allo sfruttamento, costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell'uomo, è contraria alla Carta delle Nazioni Unite e impedisce la pace e la cooperazione mondiale".

         Tali enunciazioni mettevano in contatto il principio di autodeterminazione e quello di sovranità nazionale nell'ottica dei diritti umani scritti e ratificati soprattutto dai paesi del Nord, proprio in direzione di una condivisione globale di questi principi e non nel creare un altro schieramento politicamente ed economicamente alternativo a quelli dell'Est e dell'Ovest.

         Con queste intenzioni i paesi della Conferenza si ritrovano nel 1956 prima a Brioni (Yugoslavia) dove vengono poste le basi del non-allineamento su iniziativa di tre grandi leader, Tito, Nasser e Nehru, i quali si fanno paladini di un concetto di sviluppo dell''"umanità"; un approccio in termini di cooperazione, e ciò, non in termini puramente ideologici o di profitti e perdite per questa o quella nazione, ma nei termini concreti della pura sopravvivenza di questo mondo. Si tracciano così le basi per un programma politico e per una indipendenza anche idologica rispetto agli schieramenti contrapposti in una visione di rispetto degli impegni formali presi dalle due superpotenze in sede di Nazioni Unite, poi nel 1961 a Belgrado, prima Conferenza dei paesi "non-allineati", in cui, tra i temi trattati c'è quello per la piena realizzazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione [Cassese, 1989].

         Nella risoluzione adottata dall'Assemblea Generale dell'ONU il 14 dicembre 1960 Dichiarazione sull'indipendenza ai paesi e popoli coloniali (risoluzione 1514-XV), detto anche manifesto politico dell'indipendenza delle colonie, poiché dominio coloniale viene definito come negazione dei fondamentali diritti umani ed è giudicato contrario alla causa della pace  e della cooperazione mondiale, si ribadisce solennemente il diritto all'autodeterminazione dei popoli e si impone di non ricorrere a misure di repressione contro popoli ancora dipendenti. Ma importante è la definizione e la comunione tra il diritto all' autodeterminazione e sviluppo "Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione, in virtù di questo diritto scelgono liberamente il proprio sistema politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo  economico, sociale e culturale".

         Il 14 dicembre del 1962 l'Assemblea Generale dell'ONU adottò (87 voti favorevoli 2 contrari e 12 astensioni) una risoluzione (n.1803-XXVII) sulla "sovranità permanente sulle risorse naturali". In questa risoluzione venivano consacrati vari principi generali di condotta internazionale. Anzitutto, veniva proclamato il diritto di ogni popolo e nazione alla sovranità permanente sulle proprie risorse naturali, e si aggiungeva anche che tale diritto doveva essere esercitato "nell'interesse dello sviluppo nazionale e del benessere della popolazione dello Stato interessato". Conseguenza logica dell'esistenza di quel diritto era il potere di ogni Stato di "autorizzare, limitare o vietare" tutte le attività (di cittadini o stranieri) rivolte all'utilizzazione delle risorse naturali. Seguivano poi vari principi sul trattamento da accordare alle società  e ai capitali stranieri, in caso di nazionalizzazione. Si trattava però di principi formulati in maniera alquanto ambigua, ossia senza prendere decisamente posizione a favore delle tesi occidentali (favorevoli naturalmente alla massima protezione delle società nazionalizzate o espropriate) o di quelle terzomondiste (miranti a ridurre quanto più possibile l'entità degli indennizzi da corrispondere alle società straniere).

         Verso l'inizio degli anni '60, i paesi emergenti si rendono conto che i prezzi delle materie prime che essi producono, e che costituiscono la loro ricchezza principale, declinano sempre di più sul mercato mondiale. Ciò è dovuto sia alle normali oscillazioni della domanda e dell'offerta, sia al fatto che le nazioni industrializzate hanno cominciato a ricorrere a prodotti sintetici o a prodotti sostitutivi, entrambi economicamente più convenienti. Accanto a questo calo del prezzo delle materie prime si assiste all'aumento dei prezzi dei prodotti finiti o semilavorati, che i paesi poveri devono importare al fine di creare le infrastrutture necessarie e richiamare investimenti dall'estero e per promuovere lo sviluppo. La conseguenza evidente di questa situazione è che la bilancia dei pagamenti di quei paesi comincia a presentare un deficit sempre maggiore; in altre parole il valore delle merci importate supera di gran lunga quello delle merci esportate.

         La strategia seguita per far fronte a questa situazione è complessa e si cercò di risolverla nella creazione di uno strumento internazionale permanente per condurre negoziati, attraverso i quali i paesi del Terzo mondo potessero discutere con gli Stati industrializzati tutti i problemi concernenti il commercio e lo sviluppo. Questo strumento fu la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), nel cui seno nacque formalmente il Gruppo dei 77: il Terzo mondo passa in modo deciso a prospettare organicamente le sue richieste più impellenti in campo economico.

         Tra i principi generali fu affermato che si doveva procedere a una nuova divisione internazionale del lavoro, che non consistesse come per il passato, nel promuovere le monocolture nel Terzo Mondo (produzione di materie prime) e nel lasciare ai paesi industrializzati il compito di utilizzare quelle materie nel processo industriale, per arrivare a prodotti finiti o semifiniti; abolizione delle barriere doganali alzate dal protezionismo dei paesi occidentali per salvaguardare la propria produzione; stabilizzazione del prezzo delle materie prime; trattamenti preferenziali ai paesi più poveri, con regole che privilegiassero i prodotti provenienti dal Terzo mondo.

         Fu richiesta la modifica delle istituzioni internazionali esistenti, in modo da renderle più rispondenti alle esigenze dei paesi arretrati, modificando l'orientamento della Banca Mondiale, del FMI e del Gatt; la riorganizzazione e il perfezionamento di alcune istituzioni già esistenti in seno all'ONU: a tal fine nel 1965 venne stabilito l'UNDP (Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite); la creazione di un ente internazionale che si occupasse specificatamente dello sviluppo industriale del Sud: nel 1966 venne creata l'UNIDO (organizzazione delle NU per lo Sviluppo Industriale).

         Raoul Prebisch, primo segretario generale dell'UNCTAD, alla prima conferenza delle NU sul Commercio e lo Sviluppo nel 1964, in merito all'accordo sul Gatt, sostenne che i paesi maggiormente industrializzati "sembrano ispirarsi ad un concetto di tale politica secondo il quale basterebbe eliminare gli ostacoli che intralciano il gioco di queste forze nell'economia internazionale per arrivare all'espansione degli scambi commerciali, con mutui vantaggi che ciò comporterebbe per tutti. Tali norme e principi, inoltre, si fondano su una nozione astratta di omogeneità economica che impedisce di riconoscere, sia le grandi differenze di struttura tra i centri industriali e i paesi periferici, sia le differenze, così importanti che tali paesi comportano"."Gli USA sostituiscono la GB come principale centro dinamico. Non si tratta di un semplice trasferimento di egemonia.: questo evento esercita una influenza fondamentale sul resto del mondo. Le enormi risorse naturali di questo paese, distribuite su un vastissimo territorio, e la politica decisamente protezionistica, che esso adotta sin dall'inizio del suo sviluppo, si riflettono nella continua riduzione del tasso delle importazioni". "L'Europa Occidentale decide poi di affrontare seriamente le proprie difficoltà adottando, non solo un atteggiamento di difesa, ma misure attive di vasta portata: la modernizzazione della propria economia, ciò che rafforza notevolmente le sue capacità di esportazione, e una politica di integrazione che stimola gli scambi al proprio interno, a spese, soprattutto, delle importazioni in dollari; si tratta di un atteggiamento che, se da un lato contribuisce positivamente all'equilibrio globale, dall'altro influisce negativamente su alcuni paesi in via di sviluppo. Si assiste alla nascita della Comunità europea (Cee) e dell'Associazione europea di libero scambio (EFTA)" [Cassese, 1989].

 

2.3.3. Le conferenze, risoluzioni, dichiarazioni seguivano o precedevano alcune prese di posizione di alcuni Stati che realmente cercavano di rompere, con un gesto politico, i vincoli assai pesanti posti dal contesto economico internazionale: il gesto politico che più rendeva chiaro il nuovo rapporto che si veniva delineando nelle nazioni sarebbero state le "nazionalizzazioni".

         La nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez nel 1956, ordinata da Nasser, ebbe effetti rilevanti soprattutto sul piano politico, psicologico e ideologico. Fu un gesto teso a reagire alle pressioni e ai condizionamenti occidentali e a riaffermare nel contempo la propria autonomia decisionale, almeno in certi settori.

         Altri importanti tentativi di ribellarsi alla dipendenza economica furono messi in atto nel 1951-1953, dal capo dei nazionalisti iraniani, allora presidente del comitato parlamentare per il petrolio, Mossadeq, che ottenne che il parlamento iraniano, nell'aprile del 1951, nazionalizzasse l'industria del petrolio e quindi la società britannica che lo aveva avuto in concessione. Altre nazionalizzazioni furono effettuate nel 1971 dal presidente algerino Hawari Bu Midian (Boumedienne). Esse riguardavano i giacimenti di gas naturale e gli oleodotti, mentre si impossessava del 51% delle azioni delle società francesi che operavano in territorio algerino.

         Quelle del 1973 del presidente Muammar al-Qaddafi (Gheddafi) in Libia, quando nazionalizzò per il 51% le società straniere operanti sul suo territorio (società a capitale occidentale misto).

         In America Latina vari sono i tentativi di emancipazione, spesso, o forse sempre, spenti sul nascere. Nel 1954 il guatemalteco Jacobo Arbenz aveva nazionalizzato alcune piantagioni di banane nord-americane. Allo stesso modo si agì in Brasile, dove Joao Goulart decise di promuovere una riforma agraria  e di controllare i maneggi delle multinazionali americane. Nel 1965 è la volta della Repubblica Domenicana e ancora nel 1973, forse il caso più eclatante, il Cile, dove il presidente Allende, eletto nel 1970, cominciò l'anno dopo a nazionalizzare alcune grandi imprese straniere che estraevano importanti minerali. Si arriva addirittura ai nostri giorni se si fanno gli esempi del Nicaragua, di Grenada e di Panama.

         Nel 1973 gli Stati arabi membri dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) si resero conto per la prima volta di avere in mano un'arma possente  contro l'Occidente industrializzato: la minaccia di interrompere le forniture di petrolio. L'OPEC fu fondata nel 1960 con lo scopo di proteggere gli interessi dei paesi produttori di petrolio. Fu soltanto con la guerra arabo-israeliana del Kippur nel 1973 che si pensò di usare il petrolio come mezo di ritorsione. Ridotte le forniture ai paesi che appoggiavano Israele e più tardi fu quadruplicato il prezzo del petrolio.

         L'importanza del gesto dei paesi OPEC come modello da imitare, cioè l'utilizzo di politiche protezionistiche, sempre più in chiave politica, delle risorse naturali da parte dei paesi del Sud, portò prima alla convocazione della IV Conferenza dei paesi non-allineati nel 1973 ad Algeri, successivamente su proposta proprio dell'Algeria alla conferenza dell'ONU il 10/4/74. Al termine di questa conferenza venne approvato un programma d'azione che, pur riaffermando la volontà dei paesi non-allineati di contare su sé stessi per il proprio sviluppo, enuncia chiaramente le loro rivendicazioni nei confronti dei paesi industrializzati. Boumedienne, capo di stato algerino, espose le richieste e le aspirazioni dei popoli in via di sviluppo per l'instaurazione di un nuovo ordine economico mondiale. Riconosceva che "lo sviluppo diventa oggi il problema principale che noi tutti dobbiamo affrontare, senza più indugi" e per affrontare "il problema dello sviluppo dovrebbe riconoscere innanzi tutto come problema centrale, lo sfruttamento delle risorse naturali". "Le potenze coloniali e imperialiste non hanno aderito al principio del diritto dei popoli di disporre di sé stessi se non a partire dal momento in cui sono giunte a porre le strutture e a ideare i meccanismi che avrebbero reso possibile il continuo saccheggio iniziato durante il periodo coloniale". "Costituendo l'essenziale mercato di consumo delle materie di base e detenendo il monopoli pressocché totale della produzione di manufatti e di beni strumentali nonché il monopolio dei capitali e dei servizi, i paesi industrializzati hanno potuto fissare, a loro piacimento, sia i prezzi delle materie di base di cui si riforniscono nei paesi in via di sviluppo sia quello dei beni e dei servizi che forniscono agli stessi. In questo modo si trovano in una posizione in cui possono impadronirsi attraverso un gran numero di canali delle risorse dei paesi del Terzo mondo". Il discorso come si vede calca la mano sull'importanza delle nazionalizzazioni e sull'aiuto allo sviluppo, con l'appoggio determinante dell'ONU che deve prendere "le decisioni e le necessarie disposizioni affinché tale diritto non rimanga sempre allo stadio teorico e possa essere definitivamente esercitato nei paesi del Terzo mondo". L'idea di sviluppo "occidentale" è tenuta molto in considerazione, ma è legata ad una sostanziale parità nello scambio: "sviluppandosi, i paesi del terzo mondo, faranno scattare una reazione a catena nell'espressione dei bisogni, che si tradurrà in una considerevole espansione dei mercati per i paesi industrializzati".

         L'Assemblea votò anche la Dichiarazione sullo Stabilimento del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI). I principi cardine del NOEI erano: controllare le proprie risorse naturali, disciplinare e controllare le attività delle imprese multinazionali che operano nel loro territorio; poter essere liberi di nazionalizzare o espropriare i beni stranieri alle condizioni più favorevoli ai paesi stessi e quindi dover soltanto pagare "un adeguato indennizzo"; utilizzare tecnologie moderne; incrementare una assistenza attiva economica da parte dei paesi industrializzati senza ingerenze o contropartite politiche.

         Questi principi vengono recepiti nella Carta dei Diritti e Doveri Economici degli Stati nel 1974, adottata dall'Assemblea Generale il 12/12/74 Risoluzione n.3281-XXIX. Cap.II, Art.1: "Ogni Stato ha il diritto sovrano e inalienabile di scegliere il proprio sistema economico e il proprio assetto politico sociale e culturale, in armonia con la volontà del suo popolo, senza interferenze esterne, coercizioni o minacce di alcun genere" e all'art.2 "Ogni stato possiede ed esercita liberamente una sovranità completa e permanente su tutte le ricchezze, risorse naturali e attività economiche, compresi il possesso e il diritto di utilizzarne e di disporne". All'art.13 "Tutti gli Stati dovrebbero facilitare l'accesso dei paesi in via di sviluppo alle conquiste della scienza e della tecnologia moderne, la diffusione delle tecnologie e la creazione di tecnologie indigene, a favore dei paesi in via di sviluppo, in forme e procedure adattate alle loro economie e alle loro esigenze".

 

2.3.4. Nel 1976 ancora il diritto internazionale così concepito non riusciva ad intervenire sugli squilibri rimarcati dall'intervento del presidente messicano Luis Echeverria alla Conferenza sulla cooperazioene economica tra i paesi in via di sviluppo, tenuto a Città del Messico: "Al momento dell'apertura di questa Conferenza, i 24 paesi più ricchi del mondo occidentale, con il 19% della popolazione mondiale, detengono il 65,5% del prodotto nazionale lordo dell'intero globo, mentre il 61,5% della popolazione mondiale non dispone che del 41,9% di questa ricchezza" [Cassese, 1989].

         Se i caratteri della struttura economica dei paesi del Terzo mondo rendeva impossibile il loro decollo sul piano economico, poiché le loro maggiori risorse erano le materie prime e ciascun paese era orientato verso la monocoltura, cioè la produzione di una o di poche materie prime, il cui prezzo era lasciato all'oscillazione del mercato mondiale, anche soltanto l'intenzione di voler diversificare la produzione, era considerata pratica peccaminosa perché sembrava voler promuovere una strategia di "sostituzione delle importazioni". Ciò veniva punito con l'immediato blocco di ogni prestito di aggiustamento strutturale (Pas) da parte del FMI, prestito che avrebbe dato la possibilità di diversificare i finanziamenti necessari alla diversificazione dello sviluppo [Goldsmith, 4/96].

         Accordare ingenti prestiti all'élite complice di un paese non industriale è il mezzo più efficace per aver accesso, da lontano, ai suoi mercati e alle sue risorse naturali. Per pagare gli interessi infatti, il governo indebitato dovrà investire in affari che non siano solamente produttivi, ma anche competitivi sul mercato internazionale, perché i rimborsi vano fatti in valuta, generalmente in dollari.

         Nell'epoca dello sviluppo, la tecnica del prestito come mezzo di controllo si è notevolmente perfezionata. Si nasconde la vera natura del prestito sotto l'ipocrita definizione di "aiuto", giustificato dalla "povertà" del terzo mondo, conseguenza del suo sottosviluppo, rispetto al quale lo sviluppo sembra essere il palliativo automatico. Per porre rimedio a questa situazione di sottosviluppo, occorrono capitali e conoscenze tecniche, che vengono puntualmente forniti dal sistema delle industrie occidentali [Goldsmith, 4/96].


Capitolo 3

IL DIRITTO AD UNO SVILUPPO UMANO AL TRAMONTO DEL XX SECOLO

 

 

3.1 Rapporto UNDP: numeri drammatici, fine del concetto di sviluppo legato alla crescita economica?

 

         Nel 1994 il "bilancio" dello sviluppo nei "sottosviluppati", dove vive il 77% dei 5,3 miliardi di abitanti del globo, è così riassunta dal Rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite del 1994: ogni anno muoiono per cause evitabili con la prevenzione 10 milioni di adolescenti e di bambini sopra i 5 anni e 14 milioni sotto i cinque; 180 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono di denutrizione grave; 1,5 miliardi di persone mancano di assistenza sanitaria di base; 1,5 miliardi di persone non dispone di acqua potabile; 1/5 della popolazione del pianeta continua a patire la fame e 1 miliardo vive in condizioni di povertà assoluta; 1 miliardo di adulti sono analfabeti; il 77% della popolazione mondiale riceve il 15% del reddito complessivo.

         D'altro canto il "bilancio" dello sviluppo nei paesi industrializzati viene riassunto dallo stesso Rapporto con questi dati: 75 anni di media di vita; produzione dell'85% della ricchezza mondiale; tutta la popolazione ha accesso all'acqua e servizi igienici; la media del reddito pro capite al Nord è 18 volte quella del Sud. [UNDP n.4, 1994].

         Il Rapporto, a 50 anni dall'invenzione del concetto di "aiuto" ai paesi "sottosviluppati", quindi, si appresta a chiarire che la crescita economica non rappresenta e non può rappresentare il fine dello sviluppo umano, ma un suo fondamentale strumento [UNDP n.3, 1993]: "Lo sviluppo umano è un processo di ampliamento delle scelte della gente. In linea di principio queste scelte possono essere infinite  e cambiare nel tempo. A qualsiasi livello di sviluppo, le tre opzioni essenziali sono comunque la possibilità di condurre una vita lunga e sana, di acquisire conoscenze e di accedere alle risorse necessarie a un tenore di vita dignitoso. Se queste scelte essenziali non sono disponibili, molte altre rimangono inaccessibili.

         Lo sviluppo umano non termina qui. Opzioni aggiuntive, che hanno un valore assai elevato per molti, vanno dalla libertà politica, economica e sociale alla possibilità di essere creativi e produttivi di godere del rispetto di sé stessi e della garanzia dei diritti umani. Lo sviluppo umano ha due aspetti: la formazione delle capacità umane - quali migliore salute, conoscenze e capacità personali - e l'uso che le persone fanno delle capacità acquisite - per il tempo libero, per scopi produttivi e per svolgere un ruolo attivo in campo culturale, sociale e politico. Se i livelli di sviluppo raggiunti non riescono ad equilibrare i due aspetti il risultato è una considerevole frustrazione umana.

         In base a questo concetto dello sviluppo umano, il reddito è chiaramente solo una delle opzioni  che la gente vorrebbe avere, ma per quanto importante essa sia, non rappresenta la somma totale della vita degli uomini. Lo sviluppo, quindi, deve essere qualcosa di più che la mera espansione del reddito e della ricchezza. Il suo obiettivo deve essere la gente" [UNDP n.1, 1992].

         E nei suoi successivi Rapporti l'UNDP non nega e non nasconde i reali problemi sottostanti alla grande crisi e le differenze che a quasi 50 anni dalla nascita delle Nazioni Unite impediscono a quasi 4/5 dell'umanità di conformarsi a quel modello di sviluppo decantato, rappresentato, immaginato, dalla società opulenta del Nord.

         Il Rapporto riconosce che i consumi correnti non possono essere finanziati contraendo dei debiti che dovranno essere ripagati nel futuro. Occorre investire nella salute e nell'istruzione della popolazione di oggi in modo da non creare un debito sociale per le generazioni che verranno; i tassi di interesse reali sono stati 4 volte più elevati per le nazioni povere che per quelle ricche. Negli anni '80, i paesi in via di sviluppo hannao pagato un tasso effettivo annuo del 17% sul loro debito estero, contro il 4% versato dai paesi industrializzati; le società multinazionali incanalano gran parte dei loro investimenti verso i paesi ricchi: l'83%. E i paesi in via di sviluppo che ricevono investimenti generalmente tendono ad essere quelli più benestanti; le barriere commerciali sono più forti per quei manufatti nei quali i paesi poveri godono di un vantaggio competitivo, vale a dire per esportazioni ad alta densità di manodopera come i prodotti tessili, l'abbigliamento e le calzature; il mercato dei prodotti agricoli è distorto, sia dalle barriere alle importazioni sia dai 300 miliardi di dollari spesi ogni anno nei paesi industrializzati in sussidi agricoli e per il sostegno dei prezzi, riducendo le opportunità di esportazione dei paesi in via di sviluppo; le leggi sull'immigrazione, vietando ai lavoratori di spostarsi dove possono guadagnare di più, negano loro il diritto di equilibrare l'offerta e domanda mondiali di manodopera. [UNDP n.3, 1993].

         Nei Rapporti si definiscono chiaramente chi sono gli agenti responsabili di tale politiche: il G 7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, USA, e la CEE, paesi maggiormente industrializzati) rappresenta attualmente la forma più prossima ad un governo mondiale, difficilmente disposto a difendere quegli interessi mondiali che dovessero entrare in conflitto con i propri [UNDP n.3, 1993]. Il FMI si è progressivamente allontanato dal suo mandato di origine, di promuovere una cooperazione monetaria internazionale, di favorire una crescita equilibrata dei commerci, di mantenere la stabilità monetaria, di eliminare le restrizione valutarie che ostacolano l'espansione del commercio mondiale, di offrire assistenza tecnica e finanziaria. Non esercita alcuna autorità sulle ricche nazioni industrializzate, ma anzi influenza i paesi in via di sviluppo fissando condizioni molto rigide sui prestiti offerti. La BM, i cui obiettivi originari erano la promozione di uno sviluppo economico a vasto raggio, ha fatto ben poco per riciclare i surplus esistenti a livello globale verso le nazioni in deficit. Anzi ha prelevato da essi 500 milioni di dollari. Fino al 1992 la percentuale degli scambi che rispetta effettivamente i principi del GATT, sostituito nel nome e nelle intenzioni nel 1993 dall'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), in direzione di una maggiore liberalizzazione degli scambi, principale quadro normativo del commercio mondiale, è inferiore al 7% del commercio mondiale. L'evoluzione del sistema economico internazionale ha conferito alle società transnazionali un potere immenso, specialmente nei confronti dei pasi in via di sviluppo. Le compagnie transnazionali oltre al capitale distribuiscono - o sottraggono - gran parte delle altre risorse necessarie all'industrializzazione, specialmente se essa è legata alle esportazioni [UNDP n.3, 1993].  Da uno studio del Centro delle Nazioni Unite sulle imprese transnazionali (UNCtc), 600 società transnazionali avevano a metà degli anni '80, un fatturato di 3,1 mila miliardi di dollari, pari al 25% del valore aggiunto di tutta l'industria dell'Occidente, e circa il 50% del commercio mondiale [O'Connor, 2/7/92].

         Si può affermare, che dopo il successo delle lotte di liberazione nazionale, nel Terzo mondo, tra il 1950 e il 1980, ci furono 30 anni segnati da forti tassi di crescita, sostenuti soprattutto dalle nazionalizzazioni delle società private fondamentali per l'economia di questi paesi, dal posto determinante che lo stato e il settore pubblico avevano nell'economia. L'intervento dei governi era una cosa diffusa, di modo che avevano assunto un ruolo strategico nella trasformazione dell'economia: talvolta il settore statale era il motore dello sviluppo, talaltra lo stato offriva il proprio sostegno critico agli affari privati che intendevano misurarsi con il capitale straniero, poiché spesso la proprietà privata della terra, delle risorse naturali e delle imprese era la regola nella maggior parte delle società del sud che avevano appena conquistato l'indipendenza, e gli scambi venivano fatti in gran parte sotto l'egida del mercato [Bello e S.Cunningham, 9/94].

         All'inizio degli anni '80, scoppiò la crisi del debito, crisi economico-politica di relazioni intenazionali governata dai paesi del Centro, che ha permesso agli USA di difendere i propri interessi finanziari, scongiurando contemporaneamente la minaccia del sud.     

         I paesi del Terzo mondo, che avevano acceso i debiti all'inizio degli anni '70 presso banche private occidentali, si trovavano sul punto di mancare dei fondi necessari per assicurare il pagamento degli interessi dei loro debiti. Allora vennero consigliate loro delle "riforme di struttura", che avrebbero potuto assicurare una crescita sostenuta e preservare la stabilità delle loro economie. Attraverso questi "aggiustamenti strutturali", si poteva e si può accedere a un credito, chiamato "condizionale", poiché la concessione è condizionata dalla rigorosa applicazione  di questo programma

         Queste politiche, proposte dagli organismi finanziari internazionali, non si limitavano, nonostante la durezza nella loro applicazione pratica, a conseguire equilibri macroeconomici, ma promuovevano mutamenti strutturali orientati all'introduzione delle cosiddette riforme neoliberali. Le riforme consistevano, e ancora consistono, nell'integrazione in una economia di mercato, in cui poco a poco si sono andate erodendo le garanzie legali e politiche dei settori più bisognosi; nel predominio quasi esclusivo del settore esportatore nella crescita economica su un mercato mondiale soggetto alla concorrenza internazionale (spesso gestita per mezzo di svalutazioni), assicurando la "flessibilità" della manodopera e di conseguenza l'abbassamento dei salari e peggiorando, di conseguenza, le condizioni di lavoro, con la rimessa in discussione delle conquiste sociali; e soprattutto nel perseguimento delle privatizzazioni delle società con il drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato.


3.2 Crisi del concetto di Stato-nazione

 

Nel secondo dopoguerra, con lo sfaldamento delle economie nazionali e la liberalizzazione dei mercati, entra in crisi il classico concetto di popolo e nazione sviluppatosi con la Rivoluzione.

         Si assiste ad un doppio processo: se per un verso i fenomeni caratteristici della modernizzazione generano un diffuso senso di disorientamento e di perdita di radici e collocazione sociale, per l'altro lo Stato-nazione viene consolidandosi quale struttura di dominio e di scambio saldamente definita entro il contesto di un'"economia mondo" gerarchizzata in centri e periferie corrispondenti a forme diverse dell'accumulazione e dello sfruttamento e in questa misura legati da relazioni di dominio e scambio ineguale [Burgio, 1993].

         C'è una esigenza da parte degli Stati concorrenti nel mercato libero mondiale di produrre una forte coesione interna alle singole comunità che si definiscono nazionali e di predisporre gli Stati a una concorrenza reciproca di crescente intensità, processo che alimenta le ideologie nazionalistiche. E' un processo che, come si è visto, se accompagna e anzi caratterizza l'intera epoca moderna, subisce una chiara accelerazione a partire dalla seconda metà del secolo scorso. (Burgio)

         Se ripercorriamo la strada del sorgere dello Stato-nazione come fa Latouche non possiamo non rilevare che lo Stato-nazione aveva qualcosa a che vedere con l'economia. Ciò è evidente soprattutto con il sorgere di quegli Stati-nazione che venivano fuori dal colonialismo. Proprio a causa dell'organizzazione colonialistica, questi Stati erano privi di un sostrato economico necessari a renderli realmente indipendenti [Latouche, 1992].

         Questo nesso Stato-nazionale e economia, chiamato "nazionalità economica", è fornito dagli stessi paesi colonizzatori e fortemente rappresentanto oggi all'interno del "villaggio globale".

         Il modello Occidentale rappresenta la "società politica", che fornisce la struttura degli Stati-nazione delle società occidentale e costituisce la base fondamentale dell'identità sociale degli individui membri. "Questo ordine nazionale-statale è al tempo stesso e nello stesso movimento un ordine internazionale-statale. Lo Stato-nazione è il soggetto del diritto internazionale, è sovrano. Nessuna potenza legittima sopra di lui, nessuna sotto. Le società che non hanno adottato la forma nazionale-statale non hanno esistenza giuridica, vanno scoperte, conquistate e civilizzate. Il complesso dei soggetti sovrani che dominano il pianeta forma una società delle nazioni o associazione contrattuale degli Stati membri".  [Latouche, 1992, pag.102]. 

         Questi Stati-nazione rispettabili, e quanto rispettati, hanno non soltanto un territorio riconosciuto e una indipendenza giuridica, ma anche una precisa economia nazionale. Questa è caratterizzata da una fortissima interdipendenza tra i settori economici situati sul territorio nazionale.  [Latouche, 1992].

         Questo modello così formato indica alcuni aspetti quali prosperità economica, sviluppo, interdipendenza politica, prestigio culturale che sembrano bene accompagnarsi alla nazionalità economica così intesa. 

         L'aspirazione allo sviluppo avvertita da tutti i paesi del Terzo mondo, al di là o attraverso rivendicazioni d'indipendenza o di decolonizzazione economica, è quella di accedere  alla "nazionalità economica".

         Ma la logica dello Stato e del politico, da una parte, e quella del capitale e del mercato dall'altra, non hanno ragione di coincidere e di regola non coincidono: fusione e l'armonia tra i due interessi non sono "naturali".

         Come dicono i giuristi, la sovranità politica, benché abbia la sua fonte nella nazione (sovranità nazionale), ha solo un titolare, lo Stato, i cui organi sono identificabili. La sovranità economica ha potuto avere la sua fonte nella nazione, ma gli organi di questa non ne sono mai stati titolari esclusivi. Dal punto di vista economico la nazione è un gruppo di aziende e di famiglie coordinate e protette da un centro che detiene il monopolio del potere pubblico, vale a dire lo Stato [Latouche, 1992].

         La completa liberalizzazione dell'economia ha portato la dinamica stessa della crescita alla fine di un'èra: l'èra dello sviluppo e l'èra delle nazionalità economiche.

         Accanto all'emergere di una transnazionalizzazione economica  si assiste a una vera e propria "deteritorializzazione" sociale e a una "transculturazione" più o meno legata a tale transnazionalizzazione delle imprese.

         Con la transnazionalizzazione delle imprese, la dinamica del capitale e, più in generale, il movimento dell'economia e della società moderna tendono a distruggere il senso della nazionalità economic [Latouche, 1992]. La necessaria deregulation dei meccanismi di direzione e di orientamento dell'economia provoca che non sono i cittadini - cioè lo Stato che li rappresenta attraverso le istituzioni elette o designate - a stabilire norme e principi di funzionamento; e neppure che siano chiamati a valutare regolarmente, nella trasparenza l'azione dei loro rappresentanti e dell'economia in generale. Queste cose vanno lasciate ai produttori, ai consumatori e ai finanzieri. Lo Stato deve accontentarsi  di creare l'ambiente generale più favorevole all'azione delle imprese, affinché le stesse possano fissare le regole del gioco e perseguire l'imperativo della competitività [Petrella, 10/95].

         La "deterritorializzazione" non è soltanto un fenomeno economico che svuota della sua sostanza la nazionalità economica; essa ha conseguenze politiche e culturali [Latouche, 1992]. Per tentare di mantenere un controllo sulla crescente interpenetrazione, gli apparati statali sono costretti a ristrutturarsi attraverso un processo di demoltiplicazione: in altri termini devono integrarsi in aggregazioni a vocazione regionale abdicando a una parte delle prerogative classiche della sovranità nazionale (in particolare in materia di politica economica) [Bihr, 4/95].

         La spoliticizzazione dei cittadini, la sostituzione delle istituzioni politiche con degli organi amministrativi finiscono con lo svuotare lo Stato-nazione di tutta la sua sostanza. Per quel che riguarda la cultura propriamente detta, le cose sono ancora più complicate. La localizzazione nei principali paesi industriali dell'Occidente della quasi totalità delle industrie culturali, la stessa industrializzazione della cultura mediante l'uso dei mezzi di comunicazione di massa creano un quasi monopolio dei paesi del Nord  [Latouche, 1992].

         Tutto ciò non pone però fine alla nascita o affermazione di nuovi nazionalismi.

         Questi sono assai più particolaristici e frammentari dei nazionalismi precedenti e allo stesso tempo sono più orientati a uscire dal territorio, costruendo "reti nella diaspora". Possono essere il prodotto della crescente distanza tra chi si considera parte di una rete transnazionale, la cui identità è definita da una comunità orizzontale di persone che comunicano con telefoni, aerei, fax e posta elettronica, e chi, dall'altro lato, si aggrappa ancora alle vecchie identità territoriali, o se ne crea di nuove, anche se non vive in quell'area. Ciò può condurre a una quantità di staterelli caotici con confini permanentemente contestati, la cui sopravvivenza dipende dal continuo uso della violenza [Kaldor, 12/94].

         Questo è un processo che si è intensificato negli ultimi venti anni ma è diventato più trasparente all'indomani degli eventi del 1989. Movimenti etnici e/o religiosi che riaffermano identità e valorizzano radici contestando le logiche dell'internazionalizzazione, mostrando i limiti del razionalismo e l'importanza dei valori culturali e/o morali. Ne sono esempi il fondamentalismo islamico, i nazionalismi e regionalismi europei, gran parte dei pentecostali e carismatici cristiani. 


3.3. Il diritto dei popoli e le "forme" dello sviluppo nelle nuove dichiarazioni

 

Il confrontarsi di una serie di nuove vicende all'interno del "villaggio globale", che scardinano concetti secolari, scaturisce la comparsa di nuove utopie: la più in voga delle quali è la proposta ambientalista di una economia autosostenibile, un "futuro comune" per l'umanità, una visione di interdipendenza e solidarietà di tutti gli esseri viventi, che metta radicalmente in discussione la logica dello squilibrio permanente, intrinseca al capitalismo [Neto,  10/1995].

         Lo Stato-nazione e il precedente o susseguente concetto di popolo devono quindi ridefinire il loro ruolo, in un momento di completa crisi delle culture locali a favore di una non ben precisata ma dilagante cultura di massa mondiale.

         Il concetto di sviluppo "sostenibile" o "umano" (che non può non richiamare, direttamente o indirettamente, una prospettiva "antropologica", a significare che questo approccio al termine sviluppo segna il progressivo distacco dalle prospettive rigidamente tecnicistiche ed economicistiche) si impone come nuovo limite sociale e condizione vincolante, poiché i fattori ambientali e sociali drammaticamente esposti alla crescita economica ono preoccupazioni specifiche a livello mondiale. Insomma, l'Occidente ha cominciato a imporre progressivamente dei limiti alla sua concezione, prima spregiudicata e ingenuamente ottimista, dei processi-mondo dello sviluppo. Si moltiplicano le "visioni di uno sviluppo diverso".

         Ma il tempo ha ormai lasciato il segno. L'idea di sviluppo economico che aveva avvolto prepotentemente l'idea dell'emancipazione dei governanti dei paesi del Sud si lega a quello di autodeterminazione soltanto nel suo aspetto deteriore, cioè come possibilità di sfruttamento delle risorse umane e naturali. Questa diventa l'arma di concorrenza con il Nord del mondo che si rifiuta di rivedere il suo meccanismo si accumulazione e nono vuole saperne di una reale trasferimento di tecnologie avanzate a Sud. Dall'altro lato le "grandi famiglie" che rappresentano lo Stato-nazione, avvantaggiatesi in quasi tutti gli Stati dal processo di relazione economica con le società multinazionali, non sono disposte a generare alcune condizioni dove inevitabilmente perderebbero alcuni privilegi. Il mondo comincia a dividersi non più tra Nord e Sud ma tra Centro e Periferia.

         Lo dimostrano le prese di posizione che si sono succedute nelle Conferenze delle Nazioni Unite degli ultimi anni sullo "sviluppo umano". Probabilmente queste tentavano di osservare lo sviluppo delle grandi prospettive e dei grandi ideali della storia ufficiale, per incrociarne i punti di vista e le prospettive con quelle della storia reale.

         Sin dalle prime Conferenze negli anni '70, le nazioni in via di sviluppo furono molto restie a lasciarsi coinvolgere nelle discussioni dei Paesi del Nord riguardo sviluppo e ambiente. Per i loro leader, "la cura dell'ambiente" altro non era che una distrazione dell'assillante necessità di svilupparsi. Un po' di fumo nell'aria, acqua un po' meno pulita e foreste un po' meno estese erano un prezzo pagabilissimo, in cambio del miglioramento delle condizioni di vita che l'industrializzazione avrebbe portato a centinaia di milioni di vittime della povertà. Tanto che alla Conferenza Mondiale sull'Ambiente di Stoccolma nel giugno del 1972 Amil Agarwal, allora direttore del Centro per la Scienza e l'Ambiente di New Delhi, commentò: "Perché mai tutta questa gente, così ben nutrita e così ricca, si preoccupa tanto dell'ambiente? Io vengo da un lurido slum di Kampur, nell'India settentrionale, e Stoccolma mi sembra il più puro habitat naturale che l'uomo possa avere. Questi occidentali, che hanno tutto, vogliono anche acqua pulita ed aria pura. Ma il problema di Kampur, e di gran parte del terzo mondo, è di crescere in fretta, non di preoccuparsi  degli effetti dell'industrializzazione" [Moretti, 5/92].

         I paesi industrializzati, dall'altra parte, non fecero nemmeno di cominciare a parlare di un "nuovo ordine economico internazionale", in cui si ricomprendesse il discorso "ambiente", considerandolo un capitolo di una ben più vasta opera di riforme economiche e politiche, di distribuzione equa delle risorse naturali, di aiuti finanziari per la messa in atto di strutture di produzione di energia alternativa. Tutte questioni che nella Dichiarazione finale di Stoccolma, non furono nemmeno menzionate.

         Nel 1992 si decise di tornare a discutere di ambiente e sviluppo, ma, presto, in un colloquio preparatorio alla Conferenza di Rio, svoltosi in marzo a NewYork, si delinearono due schieramenti contrapposti. Da un lato, il Gruppo dei 77, 129 nazioni in via di sviluppo, e la Cina, che chiedevano ai paesi industrializzati di pagare le loro responsabilità della crisi ambientale e di contribuire - cancellando il debito estero e revisionando le norme del commercio internazionale - ad uno sviluppo del Sud ecologicamente sostenibile. Dall'altro, gli USA, Europa e Giappone che continuavano a parlare un'altra lingua, e non disposti a cambiare le loro politiche, né tanto meno a pagare per il Sud [Moretti, 5/92].

         Il Sud rivendica il diritto di disporre pienamente delle proprie risorse naturali, sottolineando che rappresentano la principale fonte di entrate necessarie per pagare il debito internazionale e per perseguire l'ambìto sviluppo economico. Esemplificativa la questione della Malesia che, maggiore esportatore di legni tropicali del mondo, diventò un aggressivo capofila di quanti sostenevano una posizione, politicamente e logicamente corretta nella razionalità economica imperante (la pretesa di contare di più, di uno scambio meno diseguale) ed ecologicamente devastante (mano libera nello sfrutamento delle proprie risorse). E attualmente la Malesia è sotto accusa per la distruzione della foresta tropicale del Sarawak.

         Le medesime posizioni si manifestano quando il Nord chiede la tutela del "verde" in nome dell'interesse globale, per esempio, per fermare l'effetto serra. Ma tanta attenzione alle foreste altrui nasconde il rifiuto - totale nel caso degli USA - di affrontare, ad esempio, i cambiamenti climatici partendo dalla riduzione delle emissioni chimiche dannose prodotte in casa propria da un modello di produzione e consumo ecologicamente "non sostenibile".

         Nella Conferenza Mondiale dei Diritti Umani realizzata a Vienna nel 1993 non sono stati elaborati principi radicalmente nuovi per rispondere alle enormi sfide del mondo odierno e per trasformare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani da un mero "intento comune" in una serie di obblighi del diritto internazionale. La Dichiarazione finale non cita neanche il fatto che le violazioni dei diritti umani costituiscono un ostacolo allo "sviluppo umano". Nonostante che al Forum delle ONG, che precedeva la Conferenza, fosse stato ribadito da un'ampia società civile che lo sviluppo, insieme con la democrazia, è parte essenziale dell'unico e indivisibile quadro dei diritti umani e gli Stati non avrebbero dovuto avere più la competenza esclusiva in materia e avrebbero dovuto sottostare a forme di controllo internazionale, senza che ciò potesse considerarsi ingerenza indebita nei cosiddetti affari interni.

         Al Cairo, nel 1994, nella Conferenza su Popolazione e Sviluppo, si stipula un documento importante perché per la prima volta si allarga il concetto di politiche della popolazione allo "sviluppo sociale, economico e culturale", affermando che gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni per lo sviluppo sostenibile" e che "l'equità tra i sessi e la promozione delle donne sono la chiave di ogni programma per la popolazione e lo sviluppo".

         Il Piano d'Azione che ne scaturisce afferma che le politiche della popolazione e lo sviluppo sostenibile sono irrimediabilmente legati, e che la base di ogni azione è la promozione delle donne, ma si discute solo di pianificazione familiare. La povertà abissale di molti popoli rende impossibile ogni scelta riflessa e consapevole. (E.Chiavacci, Una strategia della famiglia umana, Nigrizia otto.94) E il rapporto fra popolazione e sviluppo e fra popolazione e ambiente, il ruolo dell'individuo e i modelli di produzione e di consumo non hanno ricevuto sufficiente attenzione, nonostante tutti i paesi ne avessero sottolineato l'importanza nel corso delle riunioni preparatorie.

         Commenta una componente di una ONG del Sud del mondo, Fatma Mello di IBASE, che "il Brasile è la nona nazione al mondo per PIL e tra le prime per disuguaglianza di reddito. E' un grande esportatore di prodotti agricoli però molta gente fa la fame. Il tasso di fertilità è dimezzato negli ultimi venti anni, ma le donne sono anche impoverite. Perché le donne possano esercitare la scelta di cui si parla, bisogna stabilire le condizioni sociali, economiche e politiche di questa libertà. Insisto su quelle politiche, perché in America Latina i regimi autoritari sono il primo ostacolo alla partecipazione delle donne. Anche la salute e la salute riproduttiva ha più a che vedere con una politica di pari diritti che non siano semplici programmi di family planning. Le politiche di aggiustamento strutturale in molti paesi hanno portato a tagliare la spesa sociale. Bisogna capovolgere il luogo comune della bomba demografica. Si continua a dare la colpa alla sovrappopolazione, ma è un alibi per non parlare di consumi" [Forti, 11/9/94].

         Un vertice convocato proprio per arrestare i meccanismi di esclusione di tanta parte del mondo dello sviluppo, elaborare nuove strategie di lotta alla povertà, attivare nuove politiche capaci di creare occupazione ed inserire maggiormente i paesi di Africa, America Latina e Asia nella comunità economica e politica internazionale è la conferenza di Copenhagen del 1995 dove si è imposta progressivamente una idea contrastante con l'ideologia dello sviluppo economico a causa della gravità senza precedenti dei fallimenti e dei danni causati dall'imposizione di queste ideologia, al nord come al sud, all'est come all'ovest. "Dal 1981 ad oggi la produzione mondiale è aumentata del 50%, ma nello stesso tempo il reddito pro-capite in molti paesi, soprattutto a fricani è crollato. Siamo qui per cambiare il corso della Storia altrimenti sarà la storia a cambiare noi" intervento del primo ministro danese Rasmussen, aprendo i lavori della Conferenza. L'esclusione e la marginalizzazione disintegrano le società in nome del produttivismo e della competitività; l'esaltazione della regolazione attraverso il mercato porta all'ignoranza sistematica dei bisogni primari della maggioranza e al degrado accelerato degli ecosistemi; la grande povertà e la miseria colpiscono popolazioni [Comeliau, 1/95].

         Ma se il senso dato al termine "sociale" è prima di tutto un prodotto dell'ideologia economicistica, se il sociale viene distinto dall'"economico" non per stabilire una nuova gerarchia di valori da prendere in considerazione nelle decisioni politiche, sotto la pressione dei fallimenti molteplici dovuti all'approccio soltanto economico, e se bisogna lanciare una politica sociale perché possa perdurare una politica economica, il risultato che si otterrà è evidentemente quello di Copenhagen, quando si è discusso sull'introduzione delle clausole sociali. La razionalità economica che guida i governi del Nord e, oramai anche del Sud, ha portato a non riconoscere con clausole ben precise la proibizione del lavoro forzato e lo sfruttamento minorile, la salvaguardia dei diritti sindacali e il diritto a una giusta retribuzione, la libertà d'associazione e di negoziazione collettiva e il principio della non-discriminazione [Squarcina, 4/95].


Capitolo 4

L'ONU DEI POPOLI

 

 

4.1. Ipotesi di possibili soluzioni

 

Il 10 dicembre 1948, con l'approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo, venivano formalmente riconosciuti e ratificati da tutti gli Stati del pianeta i diritti umani. Sia quelli di carattere civile e politico, detti anche "diritti della prima generazione", data la loro maggiore antichità normativa nell'ambito del diritto internazionale. Considerati essenzialmete individuali, perché in quanto naturali sono universali e precedenti alla strutturazione politica dei paesi, non possono essere contravvenuti da nessuno Stato, neppure in nome della sovranità.

         Altro corpo di diritti riconosciuti sono quelli economici e sociali, noti anche come "diritti della seconda generazione". Essi a differenza dei primi, impongono alle istituzioni dello Stato il dovere di concretare, sui piani economico, giuridico e culturale, il benessere generale degli individui, garantendo così il loro fine sociale.

         Esiste infine un insieme di diritti, chiamati della "terza generazione", definiti anche "diritti di solidarietà". Essi, secondo questa definizione, oltrepassano l'opposizione allo Stato (diritti della prima generazione) e la richiesta allo Stato (diritti della seconda generazione). Superano perciò i limiti statali, giacché il loro esercizio rende necessaria la cooperazione tra i popoli. Sebbene la loro configurazione non sia del tutto definita, si riconoscono nella "terza generazione" il diritto alla pace (riconosciuto in Assemblea Generaale con l'adozione nel 1984 della Dichiarazione del Diritto dei Popoli alla Pace), il diritto allo sviluppo (riconosciuto in Assemblea Generaale con l'adozione nel 1986 della Dichiarazione del Diritto allo Sviluppo) e all'indipendenza economica, il diritto a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, come patrimonio comune dell'umanità. . Tra questi spicca, il diritto alla libera autodeterminazione dei popoli, norma che acquisirebbe un significato di condanna di qualunque interferenza di potenze o blocchi di Stati in decisione che intaccano sovranità e prosperità dei paesi piccoli o sottosviluppati (Art. 1, comma 1 dei due Patti internazionali del 1966: "Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale") [Neira, 10/95].

         Ma come si può definire il popolo: "Il popolo, ogni popolo è una comunità naturale - dice Papisca - che detiene la sovranità a titolo originario, perché ciascuno dei suoi memebri è titolare di diritti umani, inviolabili e inalienabili. Il popolo viene prima dello Stato. Anche quando un popolo ha uno Stato che lo rappresenta, non perde la sua identità di soggetto originario e distinto dallo stato, e resta libero di darsi altre strutture di rappresentanza e aggregazione d'interessi, non necessariamente alternative e concorrenti rispetto a quelle statali" [Papisca, 10/92].

         E ai popoli la Carta delle Nazioni Unite si rivolge con le parole "Noi, popoli delle Nazioni Unite", ma poi ha conferito nel corso degli anni tutto il potere di decisione ai governi. Dice Papisca che è tempo di superare la tradizionale "forma" dello Stato nazionale, sovrano e armato. Oggi c'è bisogno di uno Stato sostenibile, che giunga a riconoscere il primato della legge universale dei diritti umani. Coniugare Stato di diritto e Stato sociale, attuare al proprio interno il principio di autonomia territoriale e funzionale, riconoscere e rispettare gli eguali diritti di cittadinanza di tutte le persone che risiedono sul proprio territorio.

         Tante sono le proposte per migliorare o cambiare la struttura e il funzionamento dell'ONU per farlo tornare ad essere l'ONU dei popoli: dall'Abolizione del potere di veto del Consiglio di Sicurezza, all'elezione diretta da parte dei Popoli delle Nazioni Unite di un Parlamento delle Nazioni Unite; avviare un negoziato globale per la revisone dei rapporti di scambio tra i paesi ad economia ricca e quelli ad economia povera, sulla base dei parametri di giustizia sociale, equità e solidarietà. E ancora Kaldor e Held propongono un modello di democrazia cosmopolita che distribuisce la sovranità a reti di istituzioni sovranazionali distinte per funzioni diverse - la sicurezza a forze armate dell'ONU, la moneta a un Fondo Monetario democratizzato, l'ambiente a una agenzia apposita [AA.VV, 1993]. La possibile riforma del Consiglio di sicurezza distribuendo un seggio permanente per aree geografiche, oppure, come suggerisce il Rapporto sullo sviluppo delle Nazioni Unite del 1992, un Consiglio di Sicurezza per lo sviluppo che sia composto da 11 membri permanenti  e da 11 membri  a tempo determinato come proposto dall'UNDP [UNDP n.3, 1993].

         Bisogna tornare alla valorizzazione dei popoli  suggerisce Papisca: "L'ONU sostenibile è l'ONU dei popoli che miri a realizzare i propri obiettivi di pace e sviluppo umano in coerenza con i principi enunciati dalla propria Carta, e che riesca a garantire il rispetto della legge internazionale dei diritti umani, a governare l'economia mondiale secondo equità e giustizia, a decidere e gestire efficaci politiche a protezione dei migranti, di cooperazione allo sviluppo, di difesa dell'ambiente naturale, di prevenzione dei conflitti armati, di disarmo reale" [Papisca, 10/93) Dovrebbero essere gli stessi popoli, attraverso istituzioni indipendenti di società civile, a tutelare i propri diritti con appropriate forme e strumenti di azione politica, da condursi con l'allenza delle istituzioni di governo locale e di quelle sopranazionali. [Papisca, 10/95].

         Con la mondializzazione dei rapporti sociali nell'ambito di uno sviluppo globale e umano, l'ingenuità di alcuni principi come quelli enunciati dalla Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati, che stipula che le "multinazionali non devono intervenire negli affari interni dei paesi in cui operano", non possono non far pensare inizialmente all'allargamento del campo dei diritti economici e sociali [Bihr, 4/95].

         Il modello di sviluppo scelto ignora, in termini generali, la sorte della maggioranza della popolazione che concentra tutta l'attenzione sull'espansione del commercio di beni e servizi, sull'investimento straniero (in generale poco intensivo in mano d'opera) e nella privatizzazione selvaggia dei beni dello Stato. Le ripercussioni sociali dell'aggiustamento attentano direttamente i diritti umani di una grande fetta della popolazione.

         Esiste un rapporto diretto tra debito e aggiustamento e tra questi e il godimento del diritto allo sviluppo inteso nello spirito della Dichiarazione del diritto allo sviluppo del 1986.

         L'emarginazione implica, oltre al mancato soddisfacimento dei diritti economici e sociali, situazioni di elevato rischio personale, l'impossibilità di esercitare altri diritti come la partecipazione, il diritto alla giustizia (l'emarginato è il nuovo stereotipo antisociale) la pratica della cittadinanza, il diritto culturale e alla scelta di propri modelli culturali; inoltre, in generale, essa origina una situazione di violenza permanente a livello sia individuale che collettivo

         Lo aveva descritto Jean-Jacques Rousseau nel Contratto Sociale: la democrazia esige "molta uguaglianza di rango e di censo". Perché gli uomini siano veramente liberi bisogna che "nessun cittadino sia abbastanza ricco per poterne comprare un altro, né abbastanza povero per essere costretto a vendersi".


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Associazione politico-culturale 
"Oltre l'Occidente"
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