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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
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03100, Frosinone
ccp 10687036

Demistificare la mondializzazione

Intervista a Serge Latouche

(08/12/’97)

di Bruno Ciccaglione


 

A Fiuggi, nel dicembre scorso, al Congresso Nazionale dell’AIFO, Serge Latouche aveva appena tenuto una conferenza dal titolo Demistificare la mondializzazione. Mentre il congresso proseguiva con la celebrazione della Messa domenicale, l’abbiamo incontrato, visto che - come noi - non vi partecipava, per rivolgergli qualche domanda.

            Domanda: Di fronte ad un capitalismo ancora in espansione, che tendeva ad includere ed omologare tutto e tutti, Pier Paolo Pasolini parlava, negli anni ‘60 e ‘70, di rivoluzione antropologica, di genocidio culturale, sia a proposito dell’Italia che del Terzo Mondo. Oggi le forme del capitalismo tendono, dal punto di vista economico, ad escludere anziché ad integrare. Eppure di fronte ad un quadro così diverso lei sembra avere le stesse preoccupazioni, parlando di occidentalizzazione del mondo e di deculturazione.

            Risposta:Credo che dal punto di vista economico non ci sia stato alcun cambiamento dopo il “sessantotto”. Si è realizzato tuttavia un cambiamento reale ed importante: il crollo del modello keynesiano-fordista, un sistema di regolazione nazionale, statale, che ha permesso nei 30 gloriosi (gli anni dal ‘45 al ‘75, N.d.R.) il trionfo dello “stato – provvidenza”.

            Certo quel modello non è stato un trionfo definitivo, né mondiale. Ha avuto due costi altissimi:

1. In occidente si è vissuto nel “benessere” della società dei consumi. Essa non ha certo dato grandi soddisfazioni ed è stata anche chiamata società dello spettacolo. Si può anche chiamarla malattia dei ricchi. Questo modello ha funzionato, ma a caro prezzo. Esso era basato sulla distruzione ed il saccheggio dell’ambiente

2. L’esclusione completa del Terzo Mondo. Infatti in questi trent’anni lo scarto tra il sud povero e il nord ricco è notevolmente aumentato. Si può dire che quando i maoisti o i “gauchisti” affermavano che gli operai del nord del mondo sfruttavano i contadini poveri del sud, questa affermazione conteneva una qualche verità.

            La nostra relativa prosperità è stata largamente fondata sullo sfruttamento del sud e della natura.

Questo modello non è crollato. Ciò che è crollato sono le barriere che proteggevano le classi popolari, che fondavano le basi della “società salariale”. Ma la logica fondamentale del sistema mondiale è identica. Oggi siamo alla chiusura di quella breve parentesi di benessere sociale di cui la mia generazione ha pienamente beneficiato in tutto il mondo. Ora siamo solo rientrati nella norma. E la norma è dura, ma è questa.

            D.  Abbiamo avuto l’occasione di parlare con Samir Amin (S.Amin è uno dei massimi studiosi del capitalismo globale e dei problemi del sottosviluppo. Responsabile a Dakar dell’ufficio africano di Forum Tiers Monde, N.d.R.). Egli ci ha detto che la sua preoccupazione principale non è un dominio culturale dell’occidente, ma un dominio del capitale.

            R. Non c’è contraddizione tra dominio dell’occidente e dominio del capitale. Ma il dominio dell’occidente non è solo dominio del capitale. Ora io non condivido l’idea di Samir Amin, che è rimasto fondamentalmente un marxista, secondo cui il capitalismo è assolutamente il “male”. Il “capitale” non è caduto dal cielo: è nato in occidente ed è cominciato da un movimento più ampio.

            Non è stato il capitale ad inviare Cristoforo Colombo a conquistare l’America, ma è stata una società feudale la cui logica era “imperiale” prima ancora che iniziasse l’accumulazione di capitale. C’era già dunque presente una volontà espansionistica autonoma. Anche Samir Amin sostiene la stessa cosa, ma su questo punto suggerisce che comunque si fosse agli inizi di un’accumulazione primitiva, sebbene non ancora di carattere capitalistico. L’imperialismo per me, invece, precede il capitalismo.

            Diversamente da Samir Amin sostengo che un “capitalismo puro” non può funzionare: per funzionare ha bisogno di una base sociale e culturale, ed essa ha avuto la sua origine in occidente. La mia preoccupazione principale è che la distruzione culturale sia molto più grave della distruzione dell’economia. Questa è la differenza principale rispetto al punto di vista di Samir Amin. Le ricchezze economiche si possono sempre ricostruire, mentre la distruzione della cultura, quando si hanno operazioni di “lavaggio del cervello”, con una persuasione più o meno occulta, è la cancellazione della memoria. A questo non c’è rimedio.

            D. Nella conferenza di oggi lei ha parlato di alcuni intellettuali che, dopo essere stati oppositori del sistema, si sono fatti ammaliare dall’ideologia liberale. Qual’è oggi, dunque, il ruolo degli intellettuali come lei, come Amin, Petrella ed altri, nel tenere viva una speranza?

            R. Abbiamo un ruolo importantissimo (in italiano, N.d.R.), perché credo che siamo in una fase di “colonizzazione dell’immaginario”. L’immaginario occidentale è totalmente colonizzato dall’economia e dalla tecnologia, e ciò comprende i nostri dirigenti della sinistra sia socialisti sia comunisti. Per cui l’intellettuale che non vuole vendersi al sistema, che non vuole fare il gioco della mondializzazione, che non vuole partecipare a questo grande circo, ha il compito di essere come una luce. Deve fare chiaro, chiarire, fare luce, spiegare e demistificare l’economia. Demistificare la mondializzazione come pratica realizzata e come sistema di pensiero. Si tratta di un’opera di decolonizzazione dell’immaginario, per questo è importante mostrare come gli esclusi o gli emarginati dal sistema economico, non accettando di essere condannati a morte, reagiscono reinventando un’altra società.

E’ quello che analizzo nel mio ultimo libro, L’altra Africa, tra dono e mercato (edito da Bollati Boringhieri, N.d.R.)  Seguo anche con interesse quello che succede al nord, nei movimenti alternativi in Francia che si sviluppano con un sistema di scambi locali (i SEL, Système d’echanges locaux) e che nei paesi anglosassoni si chiamano LETS (Local Exchange Trading Sistem, sistema commerciale di scambio locale, N.d.R.)

            Sono interessato anche a quelle persone le cui competenze sono state svalutate dal sistema e ora sono disoccupate. Per esempio, quando un ingegnere perde il posto di lavoro, è disoccupato, ma rimane sempre ingegnere, la sua conoscenza e capacità non si perdono. Questo vale per tutte le categorie di mestieri e lavoratori. Se queste persone emarginate dal sistema si organizzano, possono formare un’altra società. Io la chiamo la società dei naufraghi della società dello “sviluppo”. Ora, se costoro si uniscono e reagiscono contro chi li vuole emarginati, possono sconfiggerli. Nei sobborghi delle grandi città del Terzo Mondo la gente reagisce, si organizza e vive. Certo non hanno grandi beni, la loro esistenza è frugale. Ma hanno comunque una grande ricchezza, perché hanno salvaguardato il senso della solidarietà, del sociale. Questi disoccupati si sono organizzati per rinnovare la loro esistenza. Essi affermano così che la cosa più importante che hanno compiuto è stata il rigetto della cultura dell’isolamento per riscoprire finalmente tutta la ricchezza della vita sociale, e il valore del dono. Col loro comportamento affermano che la logica del dono è più importante della logica del benessere.

            D. Ci sono dei luoghi, dunque, in cui l’economia sembra rientrata nella società ad opera dei naufraghi dello “sviluppo”. Ce ne può raccontare meglio, anche per capire se questi modi di reinventare una socialità possano funzionare da modello anche qui?

            R. Si e no. Nel libro L’altra Africa  racconto come a Dakar circa 100.000 persone, escluse dal sistema, abbiano costruito un nuovo sobborgo della città. E’ diventato come una città popolare, in cui gli stessi abitanti hanno costruito le fogne, le condutture dell’acqua, hanno portato l’elettricità e le strade sono state ben tracciate e pavimentate. Hanno spazi per coltivare le loro verdure e allevare i propri animali. Nelle strade non passano automobili, in cambio ci sono mucche, pecore, capre che pascolano e polli da allevare sui tetti delle case. Non c’è inquinamento, la strada è piena di vita calorosa: è stata la tipologia della famiglia africana - una base culturale rimasta immutata - che li ha salvati. Questa è la differenza rispetto a noi: il nostro tipo di famiglia. La famiglia africana è composta da duecento, a volte trecento persone. Quando sono solo duecento persone si tratta di una piccola famiglia. A volte, oltre ai parenti, in questa famiglia si aggiungono gli amici, i vicini ecc. Tutti i legami sono pensati in maniera familiare, e quando si è in così tanti ci sono sempre delle celebrazioni, delle feste: un battesimo, un ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca, un matrimonio e così via, ogni occasione è buona per fare festa. Non c’è molto denaro per festeggiamenti grandiosi, ma non importa: un tam tam per ballare c’è sempre, un montone si trova sempre.

            In questa città il reddito è zero. Non ci sono lavoratori, non c’è manodopera, almeno legalmente, ufficialmente, per le statistiche. Anche il prodotto lordo della città è zero. Ma se vi guardate attorno tutto è pulito, in ordine, i bambini sono vestiti a festa, la sera si balla. Tutto questo è un mistero. Se si guarda più attentamente si scopre che tutti sono impegnati in qualche lavoro. Ogni giorno ognuno fa qualcosa per l’altro. Sono soprattutto le donne che lavorano e producono il necessario per il benessere di tutti: allevano i bambini, li nutrono, accudiscono i loro mariti, allevano i polli, fanno il pane, fanno dei ricami che poi vendono tra loro o nei mercati, il poco denaro che riescono a raggranellare lo dividono fra loro. E’ quella che io chiamo oikonomia, il termine aristotelico usato per designare la saggia gestione domestica, che Aristotele contrapponeva alla chrematistike, che mira invece all’accumulazione illimitata, ai propri affari privati, e che è una espressione più corretta per indicare ciò che noi oggi chiamiamo “economia”.

            Si tratta di una economia vernacolare, popolare, interamente incasellata nel sociale. Noi non possiamo fare la stessa cosa, perché la nostra cultura è molto diversa. Un mio amico africano mi diceva di essere cresciuto insieme a quarantadue fratelli e sorelle, sei o sette padri e altrettante madri. E’ un’altra forma d’educazione sociale. In ogni modo ho assistito, nella Francia del sud, alla nascita di un’organizzazione locale sul tipo dei LETS anglosassoni: all’inizio ero scettico, ma ora i gruppi sono più di 250 ed ognuno impiega circa 300 persone. Preparano delle liste delle cose che possono fare, hanno anche un computer per organizzare meglio il lavoro, hanno anche inventato del denaro di scambio, sul modello dello scambio di merci particolari: ma per loro è stato importante riscoprire come la solidarietà sociale, l’organizzazione sociale abbia risolto il fallimento dell’economia.

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Serge Latouche insegna all’Università di Parigi XI e presso l’IÉDÉS. È autore, tra gli altri,  di L’occidentalizzazione del mondo (1992), Il pianeta dei naufraghi (1993), La Megamacchina (1995) e L’altra Africa (1997), tutti editi da Bollati Boringhieri.