Effetti dei processi
di globalizzazione e (ri)costruzione di soggetti sociali protagonisti
Atti
(non rivisti dagli autori) del Seminario - Convegno svoltosi a
Veroli il 4 e 5 ottobre 1997 organizzato dallassociazione
Oltre
lOccidente e dal gruppo di Frosinone di Progetto Continenti in collaborazione con la Campagna Globalizza-Azione
dei popoli e la Tavola
della Pace di Perugia, con il patrocinio ed il contributo
del Comune di Veroli e
della Provincia di Frosinone.
Samir Amin
Il capitalismo mondializzato
1. Il capitalismo mondializzato nelle sue forme
moderne
2. Trentanni gloriosi: i tre progetti societari
del Welfare state, del Sovietismo, del nazional-populismo
3. La fase attuale: la gestione capitalistica
della crisi
4. Nuove forme della polarizzazione: i 5 monopoli
5. La sfida della lunga
transizione al socialismo
Silvia Boba
I processi di internazionalizzazione
e di delocalizzazione della produzione: la sfida per i lavoratori
1. Le teorie dello sganciamento
2. Mai dire globalizzazione
3. La concorrenza tra lavoratori del centro e
della periferia
4. Il sud dItalia non è il sud del mondo
Enrico Pugliese
Il mezzogiorno dItalia:
crisi da sviluppo e da sottosviluppo
1. La questione meridionale
2. Lindustrializzazione
3. Un modello italiano della disoccupazione
4. Immigrazione assieme a disoccupazione: un
paradosso?
Jacques
Maury
Le
derive odierne
1. I guasti dellideologia del pensiero unico
2. Le origini teologiche e filosofiche del pensiero
unico
Samir Amin
Cinque questioni da precisare
1. La questione delle strategie alternative:
lo sganciamento (Deconnection)
2. La ineguaglianza dello sviluppo e la questione
dellallargamento della base produttiva a livello mondiale
3. La questione della separazione tra politica
ed economia
4. La costruzione europea
5. Come combattere i 5 monopoli, il ruolo dello
stato nazionale e delle confederazioni regionali
Prefazione
Questa
pubblicazione è il risultato di molti mesi di lavoro dellassociazione
Oltre lOccidente e del gruppo di Frosinone di Progetto Continenti,
trascorsi tra telefonate a Parigi, Dakar, Roma, Napoli e Perugia,
viaggi ad Assisi, discussioni con gli amministratori locali o
della Provincia di Brescia (con cui abbiamo condiviso le spese
di viaggio di Samir Amin), contrattazioni con agenzie di traduzione
simultanea. La pubblicazione degli atti del convegno svoltosi
a Veroli è, crediamo, anche una dimostrazione del modo in cui
abbiamo scelto di lavorare in questi anni: ogni iniziativa (e
non solo quelle da noi promosse!) viene accuratamente registrata,
filmata e archiviata, i testi dei relatori vengono trascritti
e successivamente diffusi, per evitare quello che è sempre stato
il tratto peculiare di moltissime iniziative culturali o politiche
dalle nostre parti: loccasionalità dellimpegno, la
mancanza di continuità nello svolgere unattività, il prevalere
di entusiasmi momentanei su prospettive a più ampio respiro. La
realtà, nella drammaticità di questo momemnto storico, daltra
parte, impone necessariamente un impegno forte.
Buongiorno
a tutti, anche a tutti gli organizzatori di questo convegno nel
quale per me è un onore ed un grande piacere intervenire. Io vorrei
aprire il dibattito su quegli aspetti della mondializzazione che
affronteremo più direttamente, concentrando lattenzione,
se volete, su un certo numero di problemi maggiori, concernenti
le forme attuali del capitalismo
mondializzato (espressione che preferirei a quella di mondializzazione),
e cercando di delineare i particolari nuovi che si pongono per
le forze progressiste e del socialismo nel mondo.
Il motivo per cui parlo di capitalismo mondializzato è
che la parola mondializzazione - senza altre qualificazioni
- non definisce affatto un fenomeno nuovo, ma probabilmente esprime
un fenomeno antico quanto il mondo. Ma, d'altra parte, dall'età
moderna, con l'espansione mondiale del capitalismo, la mondializzazione
ha assunto caratteristiche qualitativamente
nuove e differenti da quelle della sua epoca anteriore. Inoltre
- ed è un punto a mio avviso fondamentale, molto importante,
che probabilmente è sempre sottovalutato dagli studiosi, dalle
forze progressiste e dal socialismo storico, come pure dal marxismo
storico stesso - essa è una mondializzazione polarizzante.
L'espansione mondiale del capitalismo si sviluppa dal quadro
e sulla base di un mercato mondiale che approfondisce il suo processo
di tappa in tappa ma sempre in modo spezzato, cioè si tratta di
un mercato che tende a divenire sempre più mondializzato come
mercato della produzione, delle merci, come mercato del capitale
e della tecnologia, ma che resta terribilmente segmentato come
mercato del lavoro. E io sono convinto che questo carattere spezzato
del mercato mondiale - mercato che è sempre più mondializzato
per le merci e per il capitale, ma che resta molto largamente
non mondializzato per quel che concerne il lavoro - è esso stesso
il produttore della polarizzazione mondiale.
Se volessi utilizzare il linguaggio marxista, a me caro,
direi che bisogna distinguere scrupolosamente l'espansione mondiale
della legge del valore dalla forma
della legge del valore mondializzata. Per esempio, la polarizzazione
si è manifestata, a partire dalla rivoluzione industriale, nella
forma dominante e pressoché esclusiva del contrasto tra centri
industrializzati e periferie
non industrializzate e di conseguenza, dentro questo quadro,
noi avevamo a che fare con una economia inter-nazionale dentro
le nazioni che appartenevano al centro e che erano strettamente
costruite come economie autocentrante e capitaliste e che avevano
zone di influenza e sviluppo nelle periferie. Questa forma della
mondializzazione e della internazionalizzazione, si è andata progressivamente
trasformando, a partire dalla metà del nostro secolo, in forme
nuove, fondate sulla delocalizzazione
dei sistemi produttivi nazionali e sulla loro ricomposizione (da
segmenti di questi sistemi produttivi nazionali a segmenti del
sistema produttivo mondiale). Se volete, mentre in precedenza,
per un dato prodotto, si poteva dire che era made
in Italy o made in Japan,
oggi questo modo di dire è superato, e dovremmo dire che questo
stesso prodotto è made by Toshiba, o made by IBM.
Cioè si deve far riferimento al gruppo oligopolistico mondiale,
indipendentemente dal luogo di produzione.
Ho fatto questo esempio per mostrare che la legge del valore
mondializzata opera, oggi - e continuerà probabilmente ad operare
così a lungo -, in una maniera qualitativamente differente da
come essa operava nel periodo storico precedente, all'indomani
della seconda guerra mondiale.
Ora vorrei brevemente tracciare le tappe principali, le
caratteristiche principali, della mondializzazione capitalistica
nella sua forma moderna, quella del ventesimo secolo. Dalla fine
del diciannovesimo secolo fino alla seconda guerra mondiale abbiamo
avuto, con l'eccezione dell'Unione Sovietica che ne è stata separata
a partire dalla rivoluzione del 1917, un sistema di capitalismo
mondiale che io qualificherei come liberale,
nazionale ed imperialista.
Con l'espressione liberale
non voglio dare una connotazione politica, nel senso americano
del termine, ma voglio indicare come questo sistema fosse fondato
sull'idea che il mercato debba autoregolarsi; con l'espressione
nazionale voglio sottolineare
come questo mercato autoregolato funzionasse principalmente nel
quadro dell'organizzazione economica e politica dello stato-nazione,
dello stato-politico; infine, con l'espressione imperialista
voglio indicare ciò che indicavano Hobson e Lenin, e cioè
che cerano degli oligopoli che erano fondati su una base
nazionale in competizione tra di loro, e contemporaneamente erano
- insieme, come centri - in conflitto nelle periferie.
Il
periodo che ha seguito la seconda guerra mondiale, che con leccezione
dei più giovani fra voi, corrisponde alla esperienza politica
per la maggioranza delle persone della nostra generazione, è stato
molto differente. Si tratta di un periodo che è stato costruito
sulla base della disfatta del fascismo, la quale ha determinato,
a livello sociale, dei rapporti di forza meno sfavorevoli per
le classi operaie e popolari, o comunque più favorevoli di quanto
fosse mai stato nella storia del capitalismo. E sulla base di
questi rapporti di forza si sono sviluppati tre
tipi di progetti societari certo conflittuali, ma largamente
complementari luno allaltro: il progetto del Welfare state in occidente, il progetto del Sovietismo
e il progetto Nazional-Populista
del sud.
Anche se le caratteristiche specifiche dei tre diversi
progetti societari e quindi le differenze fra di essi erano molto
grandi, sia dal punto di vista delle diverse ideologie che stavano
dietro i tre modelli - sicuramente lo ricordate -, sia dal punto
di vista reale, tuttavia io credo che essi avessero delle caratteristiche
comuni.
Questi progetti societari avevano prima di tutto un comune
contenuto sociale (sociale e non socialista), e con questo voglio
indicare che, grazie allequilibrio dei rapporti di forza
più favorevoli alle classi operaie e popolari - in tutto il mondo,
allovest, allest ed al sud -, essi erano fondati sul
compromesso storico
(per usare unespressione molto italiana) tra capitale e lavoro che gestiva e inquadrava il funzionamento delleconomia
nazionale. Questo compromesso storico era rappresentato
dal Welfare state nei
paesi capitalisti sviluppati delloccidente, dalla rivoluzione
russa e cinese allest - sulla base delle quali si era costruita
una società differente, nuova, socialista - ed al
sud dal progetto che chiamerei - in maniera generale - nazional-populista
di modernizzazione, industrializzazione, con una partecipazione
molto ampia delle classi popolari a questo progetto.
La seconda delle caratteristiche comuni a tutti questi
tre diversi progetti societari è nel fatto che i tre progetti
si fondavano e si sono sviluppati in un quadro nazionale, cioè
sulla base della costruzione di una
economia autocentrata, dentro il quadro dello stato politico
nazionale (o plurinazionale o con altre varianti).
Infine, anche nel contrapporsi, i tre progetti si intersecavano
ed erano complementari nel creare le condizioni per una mondializzazione
controllata, o meglio, una mondializzazione negoziata attraverso il conflitto. Un mondializzazione
negoziata su tutti i piani: sul piano finanziario, sul piano tecnologico,
su quello degli scambi. Insomma una mondializzazione che era il
prodotto del confronto, della concorrenza, fra questi modelli
societari.
Se volessimo descrivere oggi levoluzione e lo sviluppo
prodotti dal quadro successivo alla seconda guerra mondiale di
questi tre progetti societari, io credo che dovremmo concludere
che essa si sia manifestata - in maniere diverse - come una espansione
prodigiosa del capitalismo, cioè di rapporti di produzione
fondamentalmente capitalistici, definendo lespansione
capitalistica attraverso tre sue caratteristiche fondamentali
permanenti, immanenti e non superate:
1.
Prima di tutto la alienazione
del mercato: dentro i tre progetti societari il progredire
della crescita economica era ottenuto attraverso lampliamento
della sfera degli scambi, della sfera del mercato (anche se nella
società sovietica cera - a parole - la pretesa che ciò avvenisse
senza mercato - attraverso la pianificazione ), a danno delle
altre sfere della vita sociale
2.
La seconda caratteristica, la
polarizzazione, immanente alla espansione mondiale del capitalismo,
si è mantenuta, riprodotta e approfondita in questo periodo di
espansione del capitalismo mondiale
3.
Infine, la terza caratteristica dellespansione mondiale
del capitalismo è la distruzione
progressiva della base naturale della riproduzione, che è
ben lontana dallessere una scoperta dei movimenti verdi,
ecologisti, in effetti trattandosi di una riscoperta, perché fin
da Marx i movimenti operai ed il socialismo storico lavevano
molto ampiamente sottolineata.
Se osserviamo queste tre caratteristiche ci accorgiamo
che il periodo di forte
crescita allovest, allest e al sud, che è ineguale
ed ha caratteristiche politiche (o di altro tipo) differenti da
un paese allaltro o da un blocco allaltro, è
stato possibile sulla base e con lapprofondimento di queste
tre contraddizioni fondamentali e immanenti del capitalismo nei
tre contesti: allovest, allest e al sud: lalienazione
del mercato, la polarizzazione e la distruzione della base naturale
della riproduzione.
Questi
tre modelli societari si sono esauriti - io non direi che essi
siano falliti, perché dal punto di vista storico nulla fallisce;
essi avevano raggiunto la fine del loro corso storico e - cosa
che spesso accade nella storia - ciò è avvenuto senza che essi
avessero preparato ciò che avrebbe preso il loro posto. La loro
erosione progressiva, che si è manifestata in maniera più o meno
brutale, più o meno tumultuosa, ha creato delle condizioni completamente
nuove: il ribaltamento dei
rapporti di forza dal punto di vista sociale in
favore del capitale in un modo pressoché unilaterale. Ciò
vuol dire che quei rapporti sociali meno sfavorevoli alle classi
popolari - allovest, allest e al sud - che avevano
caratterizzato il dopoguerra, erano crollati a beneficio di una
logica unilaterale, corrispondente ad un equilibrio sociale favorevole
esclusivamente al capitale. E così, da circa 15 o 20 anni, si
è aperta una nuova fase della mondializzazione capitalistica.
Ora, questo ribaltamento dei rapporti di forza in favore
del capitale, lungi dallaprire una nuova fase di espansione
accelerata dellaccumulazione del capitale - come pretenderebbe
lideologia del capitale - ha, invece, determinato una crisi
profonda nellaccumulazione del capitale. È della gestione
di questa crisi, che caratterizza il periodo attuale, che ora
vorrei parlare.
Parliamo dunque della gestione capitalista della crisi. Ma che cosa significa lespressione
crisi? Essa significa che cè un surplus di capitale in aumento, cresciuto rapidamente e a tassi così
vertiginosi, da non riuscire a trovare sbocchi sufficientemente
redditizi nello sviluppo e nella crescita dei sistemi produttivi.
La gestione della crisi consiste, dunque, nella costruzione
di sbocchi artificiali, finanziari, onde
evitare ciò che sarebbe la più grande catastrofe dal punto
di vista del capitale, cioè la
svalutazione (perdita di valore) massiccia del capitale accumulato.
Elementi di questi sbocchi artificiali, finanziari, sono lindebitamento
con lestero dei paesi dellest, dei paesi del terzo
mondo, oppure, ancora più forte, lindebitamento con lestero
degli Stati Uniti, i cambi flessibili e di conseguenza lapertura
alla speculazione dei trasferimenti di capitale internazionali,
i tassi dinteresse elevati che funzionano come una sorta
di premio assicurativo per questa speculazione finanziaria ecc.
Linsieme di queste misure di gestione capitalistica della
crisi, servono semplicemente ad evitare che questo surplus gigantesco
di capitali - che non può essere investito nella espansione dei
sistemi produttivi - non determini, come logicamente potrebbe
verificarsi, una perdita di valore massiccia dei capitali accumulati.
Questa gestione capitalistica della crisi, per la quale
io - naturalmente - non posso affrontare tutta una serie di altri
aspetti di tipo politico - come quello dell'egemonia militare
americana, quello dei movimenti etnici o dei fondamentalismi religiosi,
o neofascisti ecc. - e che fanno parte di questa gestione, non
costituisce una prospettiva di fuoriuscita dalla crisi, né prepara
un nuovo capitalismo. Al contrario il sistema si racchiude in
un caos crescente, perché se è in grado di gestire economicamente
i monopoli internazionali di cui ho parlato dall'inizio (si deve
parlare, ripeto, di made
by Toshiba e non di made
in Itlay), non ha però gli strumenti politici a livello mondiale
capaci di gestire razionalmente - nell'ottica del capitale - questo
mercato mondializzato.
Questa forma di gestione della crisi è all'origine della
forma attuale della mondializzazione, che è una mondializzazione senza freni, ma che non è affatto una mondializzazione
deregolamentatata. Infatti essa è deregolata solo per ciò che
riguarda i rapporti sociali, per quel "compromesso storico"
sociale tra capitale e lavoro proprio di ciascuna nazione partecipante
al sistema mondiale, ma in realtà la mondializzazione attuale
è regolata clandestinamente attraverso i monopoli. Questo significa
che se in precedenza la regolazione era negoziata dalle forze
sociali, oggi questa regolamentazione è molto più oscura, molto
meno trasparente che non nelle epoche passate, ed avviene attraverso
dei monopoli.
Questo progetto, che ci viene presentato come un progetto
senza alternative è in realtà un'utopia: un'utopia reazionaria.
Si tratta dell'utopia permanente
del capitale, del capitalismo, ed è un'utopia che fa leva
sul fatto che gli equilibri di forza dal punto di vista sociale
siano tali per cui le vittime di questo progetto abbiano un peso
politico molto scarso. La logica unilaterale dell'accumulazione
del capitale - e per unilaterale si intende una logica che non
trova l'opposizione da parte di una serie di altre logiche di
tipo sociale che dovrebbero provenire dalle vittime di questa
logica - produce una stagnazione ed il depauperamento delle condizioni
sociali in tutte le parti del mondo.
Il progetto dominante che si sviluppa attualmente per tentare
di risolvere la crisi, non è un progetto di organizzazione di
un nuovo ordine mondiale, fondato sulla mondializzazione e corrispondente
al nuovo sviluppo delle forze produttive attuali, ma è un'utopia
che si racchiude nel circolo vizioso della stagnazione. Allora
la questione che dobbiamo porre - a partire da questo - è se questa
logica, che ha presupposto di non risolvere la crisi per le forze
sociali che maggiormente sono danneggiate dallo sviluppo, condurrà
ad una mondializzazione che ridurrà la polarizzazione a livello
mondiale. Il punto, dunque e se, come sostiene l'ideologia dominante,
la mondializzazione capitalistica certamente renderà marginali
alcuni, ma darà invece ad altri nuove possibilità di accrescere,
con la competizione, la crescita e lo sviluppo cavalcando la mondializzazione
capitalistica. Il discorso dominante sostiene che le nuove tappe
della mondializzazione offrono una chance: alcuni la sfrutteranno,
come ad esempio i paesi del sud-est asiatico o di grossa importanza
come la Cina con oltre un miliardo di persone, ma altri paesi
o altre regioni non sapranno cogliere l'occasione; questa mondializzazione
offrirebbe dunque una possibilità di ridurre la polarizzazione.
Ma questa chance sarà colta oppure no secondo le condizioni interne
proprie di ciascuna società partner del sistema mondiale. Ecco
cosa ci dice il discorso dominante sulla mondializzazione.
A
questa visione io ne oppongo un'altra totalmente differente. E
cioè ritengo che questa tappa della mondializzazione prepari,
per la sua stessa logica, una nuova forma della polarizzazione che è accentuata, ma non più fondata
sul contrasto tra regioni e paesi industrializzati (centri) e
regioni e paesi non industrializzate (periferie), ma basata su
quelli che io chiamo i "cinque
monopoli del centro storico":
1.
Il monopolio delle scienza
e della tecnologia (delle
tecnologie di punta, le più importanti, decisive per lo sviluppo
delle forze produttive dell'avvenire).
2.
Il monopolio del controllo
dei flussi finanziari a livello mondiale.
3.
Il monopolio dell'accesso
(non della proprietà) alle
risorse naturali del pianeta
4.
Il monopolio che si attua attraverso le comunicazioni,
dato limpatto che esse hanno nella vita politica e culturale
dei popoli.
5.
Il monopolio degli armamenti
di distruzione di massa, nucleari e non.
Attraverso questi 5 monopoli le regioni di recente industrializzazione
e quelle in via di industrializzazione, in competizione, non sono
chiamate a raggiungere i centri, ma a divenire le
vere periferie di domani, funzionanti nel quadro di una mondializzazione
polarizzante aggravata invece che attenuata.
Per esigenze di tempo non potrò entrare nei dettagli di
alcuni problemi importanti che mi piacerebbe affrontare e cioè
su come questa legge del valore mondializzata - nella sua forma
nuova - sia molto differente dalla legge del valore mondializzata
delle forme anteriori alla seconda guerra mondiale, o delle epoche
anteriori all'imperialismo inteso in senso classico (nel senso
leninista del termine), e su come questa forma della legge del
valore mondializzata avrà ripercussioni sul quadro dell'Unione
Europea, sul funzionamento della costruzione o della distruzione
della possibilità di una vera unione europea, o che tipo di ripercussioni
avrà nel quadro della Cina - il paese più dinamico dell'ex mondo
detto socialista. Tuttavia voglio sottolineare come questa forma
nuova della legge del valore mondializzata, si risolva in una
aggravazione permanente
e continuata della ripartizione del reddito nell'ambito di
ogni singolo paese ed a livello internazionale e mondiale. Questo
è intollerabile, ed è la ragione per cui il progetto di gestione
del mondo - come ho detto un po' polemicamente - neppure come
un mercato, ma addirittura come un supermarket - nel senso più
volgare del termine - è un progetto utopista, assurdo, ultrareazionario,
frutto di una ideologia della più bassa e mediocre specie, tanto
che la sola cosa che ha prodotto e che produrrà ancora sono dei
centri di resistenza,
che dovranno trasformarsi in centri
di controffensiva.
Vorrei
parlare infine, non come conclusione, ma come uno spunto per l'apertura
del dibattito, della sfida che abbiamo di fronte a noi, che si
trovano a dover affrontare le forze democratiche, progressiste
e socialiste del mondo. La sfida consiste, appunto, nel passare
dai centri che costituiscono forme di resistenza a questo progetto
capitalistico utopistico alla controffensiva. Si tratta della
cristallizzazione di progetti alternativi (o parzialmente alternativi)
che siano capaci:
1.
di portare l'offensiva
contro l'espansione della alienazione del mercato, di ridurre
le possibilità dell'alienazione del mercato;
2.
di ridurre le possibilità della polarizzazione, quindi di ridurre
la forza dei 5 monopoli di cui abbiamo parlato;
3.
di cercare di bloccare,
e secondo gli esperti si tratta di un problema ormai terribilmente
urgente, la distruzione della base naturale della riproduzione.
Si tratta di dare un contributo per far cristallizzare
le forze sociali e politiche alternative. Ma si pone a noi, che
proveniamo da una storia di pensiero socialista o comunista, probabilmente
comune a molti dei presenti, una visione molto differente: quella
della lunga transizione
dal capitalismo mondiale e mondializzato al socialismo (o ad una
società comunista) mondiale, diversa rispetto a quella tipica
della tradizione dei movimenti operai, dei socialisti, dei marxisti
storici - che è la tradizione della Seconda Internazionale (prima
della Terza Internazionale), - e che è una visione del capitalismo
che possiamo considerare iniziata da Marx, la quale ipotizzava
l'omogeneizzazione rapida del mondo a condizioni favorevoli ad
una rivoluzione socialista mondiale. Si pone dunque a noi un'altra
visione della transizione. La lunga transizione di cui parlo somiglia
molto di più alla transizione - per la tradizione dell'occidente
- dal feudalesimo al capitalismo - che opererà nel seno di tutte
le società mondiali, non attraverso la giustapposizione di società
ancora socialiste con quelle rimaste capitaliste, - ma grazie
alle contraddizioni interne di tutte le società del mondo, dallo
scontro della logica unilaterale dell'accumulazione capitalista
con le logiche plurali antisistemiche che provengono da altre
ideologie sociali rispetto a quella del capitale, uno scontro
capace di determinare un nuovo "compromesso storico",
che riduca le tre tendenze immanenti del sistema capitalistico
- cioè l'accentuazione dell'alienazione del mercato, della polarizzazione
e della degradazione della condizione naturale.
A questo punto le situazioni potranno essere rovesciate.
Siamo passati dalla logica di un sistema capitalistico dominante
ad un sistema che ha logiche altre. L'immagine del
disegno socialista non è definibile in anticipo, ma sono definibili
un certo numero di criteri molto chiari che permettono di riconoscere
il cambiamento in un momento dato della storia (come
preciserà meglio nella seconda giornata, si tratta di osservare
laccentuarsi o lattenuarsi delle tre tendenze immanenti
del capitalismo: è da questa osservazione che è possibile percepire
se la direzione perseguita è positiva o meno, N.d.R.). Si
tratta di un lungo processo, di una visione molto differente della
sfida che ci si pone, rispetto a quella che immaginavamo in passato
a proposito dello sviluppo del capitalismo e delle forme di mondializzazione
ad esso associate.
Non
è facile prendere la parola dopo l'intervento di così ampio respiro
di Samir Amin. Comunque conosco Samir Amin da molti anni ed ho
notato anche come alcune cose, anzi il nocciolo essenziale delle
cose che ha detto - la prospettiva per il futuro -, sia cambiato.
Fino a non molti anni fa l'obiettivo che egli proponeva - e che
mi sembrava piuttosto robusto - era la teoria dello "sganciamento".
Cioè, in una visione un po' tradizionale di una dominazione di
un capitale forte nel mondo - quello che noi chiamavamo imperialismo
- Samir Amin diceva: "resistiamo sganciandoci", impermeabilizzando
il nostro paese, la nostra società, da questa rete di dominazione.
L'abbiamo seguita per molti anni, non perché fosse la teoria di
Samir Amin: si trattava delle teorie che anche i paesi non allineati
hanno portato avanti - i famosi 77, i paesi in via di sviluppo,
che hanno animato tutti gli anni '70, in cui si è discusso del
tema dello sviluppo di quelli che erano stati paesi coloniali
e che sembrava si potessero portare (e loro credevano di potersi
portare) ad un livello avanzato sottraendosi
al sistema dominante, che era capitalista, ma al tempo stesso
conservando una delle caratteristiche essenziali del sistema capitalistico
che era la presenza dello stato-nazionale, anzi rivendicando la forza e l'indipendenza
dello stato nazionale, per arrivare ad avere uno sviluppo nazionale.
Oggi Samir Amin, riflettendo da par suo, cioè con le capacità
ch'egli ha sempre avuto, sulla base di fatti nuovi ha il coraggio
di aprire una prospettiva nuova. Intanto ha il coraggio di dirci
che lo scontro non è a breve. La definizione delle forze contrapposte
non è a breve termine. La definizione di un nuovo schieramento
non è a breve termine - addirittura egli la proietta verso un
avvenire abbastanza lontano quando dice: "vedo un passaggio
epocale come quello che cè stato fra il feudalesimo e l'epoca
moderna". È una cosa che fa un po' tremare le vene ai polsi.
Eppure non credo che abbia esagerato: i problemi davanti ai quali
ci troviamo sono veramente enormi. E mi congratulo con lui per
il fatto che abbia non solo saputo dare un nuovo obiettivo, ma
per il fatto che si tratti di
un obiettivo che raccoglie effettivamente molto dello spirito
che si è formato nelle generazioni nuove, quelle che una volta
erano le più attive nel campo dell'antimperialismo, della costruzione
del socialismo, dell'aiuto ai paesi in via di sviluppo ecc. Si
rivolge a quelle generazioni che proprio oggi stanno già facendo
la ricerca di un "non capitalismo" - io non riesco a
definirlo come qualcosa di più di questo - , un tentativo di sottrarsi
al capitalismo, ma non più con lo sganciamento di
un singolo paese, bensì attraverso la generazione dei settori
sociali ecc., una ricerca che si sottrae alla logica del capitale
e che cerca di seguire una sua nuova logica che poi - si suppone
- darà qualche frutto.
Ho fatto questa considerazione per dargli atto di quanto
importante è quello che egli ci ha detto e allo stesso tempo credo,
con questo, di aver rivolto anche un riconoscimento all'importanza
del lavoro che viene fatto in associazioni come la vostra, ma
detto questo non è affatto detto che io sia completamente d'accordo.
Riconosco tutti questi meriti, ma non riesco a fare a meno di
cercare terreni di analisi e di combattività, di lotta e di confronto
più prossimi, più immediati.
Da
che parte incominciare visto che la materia è sconfinata? Avevo
voglia di incominciare con le varie definizioni che si danno della
mondializzazione, ma ci vorrebbe un seminario tutto e soltanto
per questo. L'espressione "globalizzazione" mi trova
in disaccordo, mentre la parola mondializzazione effettivamente
ha molto a che fare con quanto trattiamo. Tuttavia essa è una
espressione che si riferisce soprattutto all'impresa - è la tendenza
dell'impresa a trasferirsi in altri paesi del mondo e a cercare
di mantenere legate tra loro
queste sue filiali, queste sue diramazioni che diffonde
nel mondo, in una sola società. Siccome è su questo terreno che
sono venute le considerazioni, le parole d'ordine più aggressive
in materia di mondializzazione, io ho la tendenza a prendere piuttosto
questa per la definizione più importante oggi. Ho detto che il
termine "globalizzazione" non mi piace perché questo
è un termine con connotati prevalentemente distruttivi - presuppone
cioè di distruggere il concetto di nazione e quindi distrugge
il concetto che forze nazionali possano fare qualche cosa contro
la "globalizzazione". Io su questo non sono d'accordo,
anche se è venuto di grande moda negli ultimi anni avere delle
visioni che chiamerei catastrofiste e che dicono: "tutto
è talmente grande, talmente violento, talmente omniassorbente
nella globalizzazione che non ci possiamo più fare niente; tutto
è ristrutturato, tutto è degradato". Non lo accetto.
Torniamo al discorso precedente: vediamo di fare un'analisi
che ci permetta di seguire quali sono gli elementi ancora vivi
- e anche alcuni elementi già in costruzione - che questa fase
del capitalismo ci offre. D'altra parte lo stesso Samir Amin ha
detto che c'è una visione
della mondializzazione secondo cui si dice: "c'è una
crescita del capitalismo e qualcuno ne potrà beneficiare"
- che non è ovviamente la sua tesi, ma della quale vorrei far
cogliere il vero significato. Non si tratta di una proposizione
vittoriosa del tipo: "il capitalismo si espande, evviva!,
qualcuno se ne avvantaggia, buon per lui, evidentemente il capitalismo
serve a qualcosa!". Non si tratta di questo, però io ricordo
benissimo che una certa visione sosteneva - e c'è gente che l'ha
scritto fino a due anni fa - che nel capitalismo ci fosse la tendenza
ad una restrizione della base produttiva. Ora, se c'è una proposizione
che va riveduta integralmente è questa. La
base produttiva nel mondo capitalista non fa che espandersi.
Se arriva ad espandersi e a contenere la Cina (un miliardo e 200
milioni di abitanti), l'Asean (altri 500 milioni di abitanti),
tra poco l'India - io spero più tardi possibile, ma la strada
è quella - si arriva ad un paio di miliardi di persone! Dunque
la base produttiva del capitalismo non si restringe, ma semmai
si allarga.
Analizziamo allora - senza entusiasmarci minimamente per
una cosa del genere - alcuni aspetti pratici. È interessante osservarli,
perché poi possiamo anche trarne indicazioni su come una formazione
di classe - sia pura molto più attuale, molto più moderna di quella
che è stata la formazione di classe tradizionale -, può venirsi
a formare e aiutare a costituire quei germi, quella base di una
forza per lo meno sindacale - un movimento operaio - non più disposta
a subire passivamente le decisioni del capitale. A me questo pare
importante e quello che è successo in Corea mi conferma questa
mia convinzione. Io so che in Cina, continuamente, si stanno definendo
e delineando - in maniera disordinata, non organizzata, estemporanea
- movimenti operai. Non sempre mi convincono i loro obiettivi:
gli ultimi di cui ho letto si opponevano a una certa riorganizzazione
dell'industria di stato, che invece - in Cina - a me pareva essenziale
per uscire da un certo clientelismo, da una certa elefantiasi
che certamente non fa bene a nessuno. Ma questo vuol dire che
c'è - comunque - un movimento, una dinamica sociale e questo per
me - forse perché ho passato molti anni nell'ufficio internazionale
della CGIL - è sempre qualcosa che un po' rincuora, e mi induce
ad andare a vedere che cosa succede.
Visto che la parte teorica è già stata trattata con tanta
ampiezza e capacità, io mi attesterei su alcuni di questi aspetti.
Quello che è incontestabile è che noi abbiamo una internazionalizzazione
della economia produttiva, e cioè dell'impresa. Dico internazionalizzazione
e non globalizzazione - che è troppo impegnativo - e, in questo
momento, lascerei perdere anche il termine mondializzazione, che
per me ha un po' gli stessi difetti. Quello che certamente possiamo
dire è che il capitale è andato internazionalizzandosi. In
economia il capitale si internazionalizza soprattutto in due modi:
1. attraverso gli scambi
2. attraverso gli investimenti esteri.
Ci sono poi anche altri comportamenti che possono favorire
l'internazionalizzazione, ma questi rimangono i due elementi principali.
E noi, piuttosto che a globalizzazione o mondializzazione, stiamo
assistendo a una fortissima internazionalizzazione dell'economia.
Questa internazionalizzazione dell'economia è emersa con forza
particolare alla fine di quel periodo che veniva chiamato fordismo
(e anche su questo ci sarebbe bisogno di un intero convegno per
essere esaurienti). Per brevità quando si parla di fordismo
si indicano i 30 anni subito dopo la guerra: i 30 gloriosi, detti così perché gli investimenti continuavano a rendere
in maniera più che soddisfacente per il capitale, generavano occupazione
continua e anche i governi trovavano un vantaggio nel mantenere
particolari rapporti - favorevoli - con il capitale, dal quale
veniva un reddito fiscale che consentiva di fare anche una politica
sociale, di Welfare.
C'era quel meccanismo che normalmente in economia si chiama circolo
virtuoso, che continua a essere la speranza di chi parla di
economia e che invece aveva in quell'epoca le sue cause molto
particolari.
Quegli anni sono finiti e il motivo principale per cui
sono finiti - intorno agli anni '70 - è che il capitale, tirando
le somme, si è accorto che all'interno di quel circolo virtuoso
realizzava sì dei profitti, ma aveva un tasso
di profitto che non era più soddisfacente e - soprattutto
- che si poteva avere di meglio. Si poteva avere di meglio denunciando
quella specie di accordo che c'era con governi e sindacati e andando
a cercare lavoro non protetto, lavoro non normato, ovvero la deregulation.
La prima ricerca di deregulation
è stata fatta in patria, cercando di mettere da parte i sindacati,
mentre la seconda ricerca di deregulation
è stata fatta andando a cercare il lavoro lì dove costava meno.
Mi si potrebbe dire: e perché questo non era stato fatto prima?
Il motivo fondamentale consiste nelle diverse
tecnologie che si avevano a disposizione. Se prima c'era una
nave a vela per andare in Asia, oggi in Asia si può andare col
Jet. Si tratta di due mezzi di trasporto di cui il secondo è molto
più conveniente e rapido. La tecnologia dell'informazione oggi
permette di tenere rapporti a distanza in tempo reale. Pensate
alla tecnologia che automatizza tanta parte dei processi di produzione
(che vengono essi stessi trasportati in paesi dove la manodopera
costa poco e una parte della lavorazione si può anche automatizzare,
il che veramente consente di conseguire dei grandi profitti).
Questo
è l'inizio dell'internazionalizzazione. Con l'andare del tempo
- dagli anni '70 in poi - il processo si è continuamente moltiplicato.
Come processo produttivo - cioè come scorporo
del processo produttivo e trasferimento di fasi di lavorazione,
questo processo era stato iniziato dal Giappone alla fine degli
anni '60 nei confronti di quelle che sono poi diventate le cosiddette
quattro tigri asiatiche. Poi hanno seguito gli USA, poi una serie
di altri paesi che hanno trasferito le lavorazioni in paesi del
terzo mondo, ed infine l'Europa - che si è indirizzata nei paesi
dell'est Europeo. Questo
nuovo sviluppo del capitale, del regime capitalistico, non
ha avuto nulla a che fare con il crollo dei paesi dell'est.
Non è stata una conseguenza del crollo di quella contrapposizione,
ma è stata una conseguenza interna allo stesso capitale. Questo
è un punto che è abbastanza interessante da tenere a mente. Qui
però viene l'elemento che io ritengo essenziale: con questa operazione
di delocalizzazione - come normalmente è definita - di parti produttive
e talvolta delocalizzazione di tutto intero il processo di riproduzione
di capitale di determinate aziende, i lavoratori dei paesi esterni al centro - quelli della periferia
- entrano a far concorrenza
diretta con i lavoratori del centro. Ovvero i lavoratori del
centro si vedono sottoposti alla concorrenza diretta dei lavoratori
dei paesi della periferia. E questo non era mai accaduto prima,
perché anche all'epoca del colonialismo e dell'imperialismo la
concorrenza non si faceva sul costo del lavoro. La concorrenza
era più generale, la dominazione era più generale e consisteva
nello sfruttamento delle materie prime e ovviamente anche della
popolazione, ma in una maniera non tale da portarla in concorrenza
con quella che lavorava al centro.
Questo ci porta una certa perplessità, perché sembra che
io voglia ricondurre tutta la questione a un problema di competizione
e quindi di rivalità tra i lavoratori dei paesi del centro e quelli
dei paesi della periferia. E potremmo ragionare così se non avessimo
alle spalle tutta una buona educazione di carattere sociale e
se non sapessimo perciò che non è alzando muri che noi riusciamo
a risolvere alcuni di questi problemi. Però rimane vero il fatto
che quando pensiamo alla battaglia cui siamo costretti di fronte
alla mondializzazione, il
nocciolo rimane la questione del prezzo della forza lavoro,
che è un nodo che noi dovremmo riuscire ad affrontare un po
meglio.
Non c'è una soluzione facile, però su questo terreno dobbiamo
cercare di fare dei passi avanti. Lo "sganciamento"
di cui ci parlava Samir Amin anni fa può non avere più valore
oggi, però una ricerca di nuove
convenienze all'interno dell'area capitalistica del centro
è sicuramente uno degli obiettivi che dobbiamo porci. A livello
di puro paese, cioè nazionale, sicuramente ne ricaveremmo poco.
Mettendoci ad un livello sovranazionale delimitato - come è il
caso dell'Unione Europea - potremmo trovare il modo di fare di
meglio. Parecchi sono i nodi in cui si può cercare di avere nuove
convenienze. Vi è la proposta che è di tutta la sinistra antagonista
- chiamiamola così - che è quella di creazione di nuove occupazioni,
dei tempi parziali, di lavori socialmente utili. C'è la visione
ambientalista, che io rispetto profondamente, che è quella di
non perseguire crescita ulteriore - perché ci troveremmo a distruggere
il pianeta - e invece ritornare alla preservazione della natura.
Però c'è la stragrande maggioranza delle popolazioni che hanno
ancora e non possono non avere il concetto di un lavoro per vivere
(se non proprio vivere per un lavoro). A quelle persone noi dobbiamo
una risposta, dobbiamo pensare che queste persone non possono
essere abbandonate al vento della concorrenza che deriva dall'internazionalizzazione
dei capitali e delle imprese e dobbiamo cercare di porre rimedio.
Io mi sono sempre chiesta perché (domanda un po' retorica)
sono gli stessi governi - per esempio dell'Unione Europea - a
consentire e a creare i "paradisi fiscali", o a favorire
l'internazionalizzazione delle imprese del loro Paese, salvo poi
mettersi le mani nei capelli non solo perché non hanno il lavoro,
ma anche perché non hanno più neppure il reddito fiscale necessario
e sufficiente per creare delle misure contro la disoccupazione.
Voi mi direte: "È semplice: sono governi legati al capitale,
fanno l'interesse del capitale e poi fanno il pianto del coccodrillo
sul fatto che i soldi non ci sono". Ma è un po' semplicistica
come obiezione, perché io a questo punto domando: perché nessuno
dei tanti che non sono capitalisti, imprenditori ecc., non fanno
una denuncia, non mettono uno di questi problemi in testa alle
rivendicazioni di carattere corrente, di fronte a un governo,
in campagna elettorale? Perché non si pensa davvero alla Tobin-tax
- che sarebbe la tassa sui movimenti di capitale? Perché non si
pensa alla richiesta di chiusura dei "paradisi fiscali"
ecc.? Sono delle cose per cui c'è da chiedersi come mai non debbano
avere diritto di cittadinanza. Mi piace parlare della creazione
di una società alternativa, ma sono anche abbastanza realista
per sapere quanto lunghi saranno i tempi per una costruzione di
questo genere e preferirei vedere anche un certo impegno in queste
questioni un po più "normali". Per esempio, perché
la sinistra non denuncia il fatto che Pirelli non ha più neanche
uno stabilimento in Italia, avendoli delocalizzati tutti, e che
pertanto ha diritto di vivere - nessuno lo vuole uccidere-, ma
non ha più diritto di parlare a nome degli imprenditori? Io vorrei
sapere perché queste cose nessuno le scrive. La creazione di un
movimento di questo genere renderebbe perlomeno meno pacifica
questa idea della delocalizzazione, della internazionalizzazione,
e darebbe spazio a chi avesse qualche idea, e ce ne sono, per
fare qualcosa di diverso.
Mi
è stato chiesto di rapportare la mia analisi con il mezzogiorno.
Se non ne ho parlato finora è perché questa non è una materia
propriamente mia, tuttavia cercherò di esprimere un parere.
Sembra quasi naturale, spontaneo, dire: se il capitale
se ne va via alla ricerca di manodopera più flessibile, meno pagata,
in aree più povere, perché non va nel mezzogiorno?" In realtà
non c'è nessun paragone fra la libertà che ha il capitale nei
paesi del sud-est asiatico, ma anche in Romania, in Slovacchia,
e i vincoli al capitale che ci sono nel nostro mezzogiorno. Non
c'è assolutamente paragone. All'interno del mezzogiorno ci sono
quelli che tengono il lavoro a
nero, negli scantinati - lo sappiamo bene, e così si evadono
tutte le tasse ecc.. Ma se si vuole fare una azienda alla luce
del sole si devono rispettare una certa quantità di normative
di tipo sindacal-fiscale che nessuno chiede di rispettare al capitale
quando esso si dirige in altre parti del mondo. Ecco spiegato
nella maniera più banale, per quello che è l'aspetto più volgare,
il perché i capitali che si delocalizzano preferiscono andare
fuori che non andare nel mezzogiorno. I capitali in questo mezzogiorno
e al nord d'Italia si trovano più o meno alla pari.
La differenza, semmai, fra nord e sud d'Italia - e so che
qui qualcuno non sarà d'accordo nel dare la croce addosso in questo
modo, ma io sono sempre stata disposta a parlar male dei padroni
- è che nel sud, generalmente e storicamente, manca una classe
imprenditoriale in senso moderno e cioè desiderosa e capace di
investire i suoi soldi a dispetto e nonostante una serie di normative, andando avanti a fare
quello che il capitale ha sempre fatto, cioè di espandersi. Quando c'è del capitale nel Sud, prevalentemente, preferisce
rimanere piccolo, nascosto, a nero e - possibilmente - addirittura
adoperare immigrazione nella maniera più nera e più selvaggia.
Io so che i tentativi che si stanno facendo adesso di fare emergere
il sommerso nel mezzogiorno stanno andando falliti: non c'è capitale
disposto ad emergere quando è sommerso. Io ho sempre avuto la
sensazione che questo aspetto giochi un ruolo fondamentale.
Mi ha sempre lasciata perplessa anche un altro elemento:
non solo i capitali
vanno all'estero invece che andare al Sud, ma il Sud è una delle
regioni d'Italia in cui più largamente si adopera quell'immigrazione
che non è in regola e che poi chiede un salario bassissimo. La
storia dei pomodori a Villa Literno è emblematica. Il pomodoro
è una di quelle produzioni che l'Italia avrebbe, in fondo, dovuto
lasciare ai Paesi del Maghreb. Non interamente, non ci sono divisioni
internazionali del lavoro rigide e ben delimitate, però l'idea
di mettersi a far la guerra con i produttori di pomodori del Marocco
o della Tunisia è un po' peregrina, un po' barbara, ci riporta
a epoche un po' primitive. Eppure sono importati gli immigrati
dall'Africa nera per poter produrre pomodori a un prezzo che facesse
concorrenza con quello del Marocco. Scusate ma davanti a questo
io ho la sensazione che ci troviamo davanti a un livello di sviluppo
e di capitalismo molto, molto primitivo. Non solo il capitale
va laddove trova manodopera che faccia concorrenza alla nostra,
ma questi capitalisti addirittura portano in Italia immigrati
che facciano, qui, sul posto, concorrenza ai lavoratori Italiani.
Io potrei, dunque, lasciare come indicazione quelle cose
pratiche che si possono fare, e ricordare che ho indicato come
per il momento - e per la stragrande maggioranza di persone che
vuole o deve comunque vivere e lavorare con questo regime oggi,
e per un tempo lungo, - si debba cercare di creare nuove convenienze.
Non basta farlo all'interno della sola Italia - perché sarebbe un po' troppo
poco, questo ambito non reggerebbe in alcun modo -, ma bisogna
farlo in un'area grande come l'Europa dell'Unione Europea o anche
nel caso di una prospettiva di ampliamento all'est, eventualmente.
Un'area che sia sufficientemente grande perché possa porre un
argine alla mondializzazione. Questa non è un'idea che ho inventato
io, che sembrava caduta in disuso, diciamo così, ma penso che
sia una idea sulla quale possiamo ancora un po' lavorare.
Raramente
in vita mia ho partecipato a un seminario dal titolo così lungo:
"La deriva dell'Italia del sud: effetti dei processi di globalizzazione
e (ri)costruzione di soggetti sociali protagonisti".
Ancora più lunga del titolo, che ricorda qualche film della Wertmuller,
è l'evocazione dei contenuti del seminario che il titolo dà, perché
- forse per ingenuità - ho preso sul serio il titolo. Ho preso
sul serio anche il "ri" tra parentesi di (ri)costruzione
e quindi ho avuto l'impressione che si volesse suggerire di fare
anche dei riferimenti storici. Questo nel senso che mi pare che
questo titolo ipotizzasse una situazione nella quale c'erano dei
soggetti sociali protagonisti, poi c'è stata una crisi e ora ce
ne sono altri, oppure c'è da compiere uno sforzo perché se ne
consolidino altri. A una domanda così larga non credo di avere
le forze per poter rispondere, quindi in una mezzora dirò solo
alcune cose e - tra
laltro - tenterò di intrecciare le due aree di studio che
io seguo in questo periodo, che sono quella dell'analisi della
disoccupazione, soprattutto nel mezzogiorno, e quella delle migrazioni
internazionali.
Proprio perché c'era quel "ri" tra parentesi,
di riferimento alla esperienza storica, io volevo cominciare da
Gramsci e dal blocco storico. (sospiri
del pubblico, N.d.R.) Sempre mezz'ora ci metterò, quindi state
tranquilli (risate, N.d.R.).
Nell'analisi gramsciana della questione
meridionale sono individuati due blocchi
- sostanzialmente contrapposti - cui si aggiunge la funzione
di mediazione della piccola borghesia intellettuale: un blocco
è costituito dagli agrari del sud e dagli industriali del nord
(che sono quelli che detengono il potere), blocco cementato nel
1887 con la Tariffa Protettiva che segna l'inizio di una fase
di protezionismo che in Italia favoriva i grandi proprietari terrieri,
quindi la borghesia terriero-fondiaria da un lato, e dallaltro
il capitalismo monopolistico industriale, che aveva bisogno di
protezione doganale per poter rafforzare la siderurgia, la cantieristica,
la grande industria metalmeccanica italiana che ancora - all'epoca
- non era competitiva.
Naturalmente il risultato di questa politica protezionista
era quello del prezzo elevato del grano e di conseguenza anche
del costo elevato del pane e dunque anche una politica contro
i salari della classe operaia. Ma si trattava - soprattutto -
di una politica contraria agli interessi dei contadini meridionali,
i quali non erano interessati alla cerealicoltura intensiva, ma
erano invece interessati a piccola produzione, articolata e differenziata.
Oppure, nel modello gramsciano alternativo, a produzione moderna
con i mezzi tecnici forniti dall'industria e gestiti dai consigli
operai.
Insomma in questa analisi gramsciana c'è l'individuazione
di un blocco dominante che è costituito dagli industriali del
nord e dagli agrari del sud e di un potenziale
- da costruire - blocco sociale alternativo, costituito dai contadini
del sud - in lotta per la terra e per lo sviluppo dell'agricoltura
- e dagli operai del nord - con una funzione egemone, ma all'interno
di una concezione originale gramsciana che era quella non di egemonia
di classe degli operai sui contadini, bensì di unità
tra operai e contadini in questo blocco alternativo.
Non mi dilungo in particolare sulla piccola borghesia,
sul suo ruolo passato e sul suo ruolo potenziale, per arrivare
più velocemente all'oggi. Il blocco dominante va già in crisi
durante il fascismo con l'emergere della borghesia di stato, che
era un cuneo all'interno del blocco dominante, e soprattutto va
in crisi con le grandi mobilitazioni e le lotte contadine, che
danno adito alla riforma fondiaria - sicuramente parziale e limitata,
ma pur tuttavia capace di dare uno scossone a questa alleanza
di classe - e quindi il blocco dominante viene così denunciato:
la borghesia terriero-fondiaria scompare come classe al potere.
Questo non significa che i soggetti che la costituiscono scompaiano,
perché diventeranno - per esempio - i protagonisti della borghesia
di stato che poi governerà il mezzogiorno, oppure perché trasferiranno
i loro investimenti dalla terra alla speculazione edilizia delle
grandi città, determinando poi il blocco conservatore dominante
nelle città del mezzogiorno. Comunque: il vecchio blocco messo
in evidenza da Gramsci collassa. E per questo crollo è importante
sia il ruolo dei contadini, sia la scelta della borghesia industriale
del nord di rinunciare a un'alleanza e quindi di proporsi un nuovo
modello, che poi è il modello dell'Italia industriale del dopoguerra,
il modello dell'economia aperta, il modello dell'egemonia democristiana
nelle campagne tramite la Coltivatori Diretti, cioè non più tramite
una politica di ruralizzazione
repressiva come nel fascismo, ma attraverso una politica ruralistico-assistenziale.
Infine - naturalmente - questo nuovo modello portava una grande
trasformazione del ruolo del paese, all'interno della quale l'emigrazione
giocava un ruolo assolutamente determinante. Negli anni '50 e
'60 ci fu questa grande modificazione del paese .
Si tratta di una modificazione che, come dire, porterà
ai più alti momenti di unità di classe. L'emigrazione, sia all'estero,
ma soprattutto all'interno, in un certo senso determina un ulteriore
cemento di classe nel nostro paese oltre quello che Gramsci aveva
individuato nelle trincee della prima guerra mondiale. Con l'emigrazione
operaia meridionale nel triangolo industriale, forse uno dei più
alti momenti di unità si è avuto proprio nel ciclo di lotte intorno
alla fine degli anni '60, quando "nord
e sud, uniti nella lotta" non era uno slogan astratto,
ma era effettivamente una proposta politica concreta. Penso semplicemente
al contratto dei metalmeccanici e dei chimici del 1972, dove la
tematica degli investimenti al sud veniva posta come tematica
qualificante di un contratto di una categoria operaia: cioè una
categoria operaia si assumeva - direi quasi gramscianamente -
una responsabilità di politica economica per lo sviluppo del mezzogiorno.
Ma poi le cose non sono andate così bene come si sperava.
Certamente la prima fase di sviluppo dell'agricoltura, con la
bonifica e anche con la trasformazione dei contratti agrari, aveva
permesso un certo sviluppo, ma questo sviluppo non era comunque
tale da poter assorbire il potenziale di forza lavoro del mezzogiorno.
In altri termini, l'effetto spinta "continua ad emigrare!"
continua e gli Italiani vanno in Germania. Ci vanno più o meno
nelle stesse condizioni, e disprezzati allo stesso modo, di quelli
che arrivano oggi dall'Africa sub-sahariana, disprezzati allo
stesso modo con cui sono disprezzati i nostri fratelli proletari
che lavorano a Villa Literno. Se vedete il film Il
cammino della speranza (di Pietro Germi, N.d.R.) e vedete
com'erano laceri e sporchi e neri quei siciliani, o siete dalla
loro parte o effettivamente avrete difficoltà ad accettare le
situazioni di oggi. È sempre molto difficile la condizione dell'immigrato.
L'immigrato non è amato da nessuno e non è amato neanche dalla
classe operaia.
Apro su questo una parentesi: noi abbiamo sempre ritenuto
che la classe operaia fosse la classe più democratica, ma questo
non è vero: la classe operaia è la classe più democratica solo
qualora si determinino specifiche condizioni di presa di coscienza
che permettano di identificare il collettivo interesse di classe.
In America il passaggio dal sindacato di mestiere a quello basato
sull'operaio comune ha sicuramente implicato una differenza etnica
nella base di massa del sindacato: gli WASP (white, anglo - saxson,
protestant) hanno perso progressivamente peso e questi "buzzurri"
di italiani, questi "cattolici reazionari" di irlandesi
sono diventati la base di massa e di conseguenza anche la dirigenza
del sindacato americano si è adeguata. Quindi c'è sempre questa
grande difficoltà nel rapporto tra immigrati e classe operaia.
La classe operaia in realtà tende a difendere i suoi interessi
in un determinato momento e a vedere il nuovo arrivato con diffidenza.
Su questo tornerò verso la fine del mio intervento.
Riprendiamo il discorso sul mezzogiorno. Dopo le lotte
per la terra c'è la riforma agraria e soprattutto c'è l'emigrazione.
All'eccedenza di forza lavoro sulla terra, al carico eccessivo
di manodopera sulla terra, non c'è altra risposta di massa che
non sia quella dell'esodo e dell'emigrazione. L'Italia ha perso,
nei quindici anni che vanno dal '50 al '75 lo stesso numero di
addetti all'agricoltura che la Francia ha perso tra il 1890 e
il 1950: la Francia ha impiegato 60 anni per perdere il numero
di contadini e braccianti che l'Italia ha perso solo in 15 anni.
Questo vi dà lidea del ritmo delle trasformazioni sociali
e anche della liquefazione di un soggetto sociale. Quindi se si
tratta di ricostruire un soggetto è perché un soggetto è scomparso
dal quadro della scena politica meridionale.
Cè
stato poi un momento molto importante, che era quello che io avevo
definito con lespressione Nord e Sud uniti nella lotta,
e che è stato quello della industrializzazione. È stato un momento
sicuramente equivoco, ma quando si pensa agli anni dellindustrializzazione
si pensa sempre alla SIR di Rovelli, cioè al grosso investimento
sprecato, fatto semplicemente per poi poter dare origine a tutto
un giro di tangenti a prescindere dalla produzione, e non si pensa
invece a realtà ben più significative che pure ci sono state -
penso per esempio a quella che era lAlfasud di Napoli e
che poi è stato un moderno stabilimento Fiat, rispetto al quale
cè pochissimo da dire. Quindi in realtà cè stata questa
fase di industrializzazione, ma questa fase di industrializzazione
si è chiusa a metà degli anni 70. Cioè il grande momento
di progresso, di sviluppo, che si poteva intravedere nel mezzogiorno
negli anni 60, ha cominciato a vacillare e, negli anni 70,
la politica di sviluppo agricolo era finita mentre la politica
di sviluppo industriale, appena iniziata, era decisamente abortita.
Su questo centra la globalizzazione, ma io parlerò solo
degli effetti e non della cause. Centra la globalizzazione,
ma poiché ritengo che in qualche modo gli stati nazionali ancora
esistano, che esisteranno per un bel po e che avranno comunque
una loro autonomia, penso che oltre ai condizionamenti pesanti
della globalizzazione, a spiegare la crisi dello sviluppo del
mezzogiorno e linterruzione del processo di industrializzazione,
abbiano concorso anche scelte di politica economica nazionale.
Con la crisi del modello fordista, con la crisi cioè del modello di sviluppo basato sulla grande
impresa, in realtà si è tagliata la prospettiva di sviluppo anche
in quelle aree dove questo modello ancora non si era consolidato.
Anche dove cera stata forse lillusione di poter creare
le condizioni per un nuovo sviluppo attraverso i grandi investimenti
industriali, soprattutto di origine pubblica. In questo io vedo
lorigine della crisi del mezzogiorno di oggi: in questa
crisi economica basata su povertà di risorse, interruzione del
processo di industrializzazione, errori nel processo di industrializzazione
- e anche degenerazione del sistema politico - io vedo lorigine
della crisi in corso nel mezzogiorno.
È
una crisi in corso che si esprime innanzitutto attraverso i livelli
di disoccupazione assolutamente spaventosi che noi abbiamo davanti..
Daltra parte molti di voi sono giovani e il mercato del
lavoro lo conoscono meglio di quanto non lo conosca io che lo
studio ormai da trentanni. E da questo punto di vista lItalia
rappresenta un caso particolare. Esiste a mio avviso - e oltretutto
ho scritto un libro su questo - un Modello
italiano della disoccupazione: per me esiste un modello
italiano della disoccupazione che è rappresentato dal fatto che
la disoccupazione nel nostro paese è innanzitutto disoccupazione
giovanile, in secondo luogo disoccupazione femminile, in terzo
luogo disoccupazione meridionale. Potete immaginare, non scendo
nei dettagli, come sia felice la situazione di una giovane donna
del sud (risate del pubblico,
N.d.R.). Cè
poco da ridere veramente.
Silvia Boba - E per una donna meno giovane è peggio ancora!
Pugliese - Per una meno giovane è peggio ancora, ma per altri motivi! Perché la
giovane è disoccupata, mentre la meno giovane lascia il mercato
del lavoro perché si ritira, perché ha perso la battaglia per
il lavoro.
Direi che in questo momento la disoccupazione è il principale
problema del mezzogiorno e allinterno del paese essa è un
problema essenzialmente meridionale. Se è così, allora anche il
discorso sulla natura e la causa della disoccupazione merita di
essere visto sotto una luce particolare. Voi sapete che nel nostro
paese, ma anche in Francia, cè un ricchissimo dibattito
sulla questione della nuova disoccupazione, della fine del lavoro.
La gente avrà letto il modesto libro di Rifkin, che aveva un titolo
lungo come questo convegno e che poi è stato tradotto in italiano
col titolo più mercatizzabile La
fine del lavoro. Rifkin ritiene, sostanzialmente, e
molto modestamente - perché è un libro modesto sia di livello
che di tono, cioè non è un libro arrogante - che siamo ora in
una situazione di tale sviluppo precario, di tale precarizzazione
dei rapporti di lavoro, che in qualche modo bisogna inventarsi
una via duscita. Il libro di Rifkin non è un libro sulle
grandi prospettive della società del futuro senza lavoro, in cui
tutti potremo essere più allegri e contenti, bensì è un libro
molto preoccupato di un signore che dice: guardate, il mercato
del lavoro si sviluppa secondo un processo crescente di precarizzazione
della forza lavoro. I lavori stabili e garantiti e sindacalizzati
diventano sempre meno frequenti, aumentano i lavori precari, i
lavori a breve termine, i lavori sui quali non si può fare affidamento.
In questo è la fine del lavoro. Testi anche più brillanti,
più colti, come quello per esempio di Lunghini La
società dello spreco, mostrano che cè questa grande
caduta della domanda di lavoro nel settore capitalistico delleconomia.
In questo senso Lunghini riprende Marx e ancor più Ricardo sul
tema della disoccupazione tecnologica e presenta questo mondo
capitalistico nel quale un infinitamente modesto numero di lavoratori
è capace di produrre una infinitamente crescente quantità di merci.
La tesi di Lunghini è sicuramente interessante - per fortuna
non ha del tutto ragione perché poi, come dire, non a caso i paesi
meno sviluppati sono pure quelli che hanno più alta disoccupazione,
e quindi il suo è un modello interessante per la linea di tendenza
- però la tesi di Lunghini mette sotto i riflettori questo problema:
il problema, di grande rilievo ora, della jobless
growth o della jobloss
growth, cioè della crescita senza
occupazione o peggio ancora della crescita che
distrugge occupazione. Io personalmente sarei attento a sposare
questa tesi fino in fondo, sarei attento a spiegarvi tutta la
disoccupazione di oggi - tutta la disoccupazione meridionale ad
esempio - come disoccupazione da sviluppo tecnologico. Perché
in realtà, secondo me, cè anche una vasta area della disoccupazione
- e questo riguarda soprattutto il mezzogiorno - che è la disoccupazione
che Keynes avrebbe chiamato disoccupazione
strutturale, disoccupazione dalla carenza della domanda, dovuta
al fatto che sono deboli le forze produttive. Non disoccupazione
ciclica, da sostenere attraverso lattivazione della domanda
aggregata, ma una disoccupazione dovuta a una sostanziale povertà
di risorse, o forse, se si vuole, di cattivo indirizzo delle risorse
e di spreco.
Tornando al mezzogiorno oggi, effettivamente abbiamo avuto,
negli anni che vanno dal 74 alla fine dellintervento
straordinario nel mezzogiorno, una politica di spesa dissennata
sul mezzogiorno che ha avuto degli effetti nefasti anche nella
politica e nella cultura del nostro paese. Quello che hanno fatto
Ciarrapico, Cirino Pomicino, Andreotti, quello che ha fatto il
CAF al mezzogiorno è stato di una gravità inaudita, perché ha
significato uno storno infinito di denaro investito in operazioni
ad elevatissimo contenuto clientelare e a scarso contenuto produttivo,
sia dal punto di vista dello sviluppo economico sia dal punto
di vista dello sviluppo occupazionale. Napoli è stata distrutta
letteralmente da Cirino Pomicino e Scotti, è stata distrutta non
perché non è arrivato un flusso di risorse, ma perché quel flusso
di risorse è stato avviato allo spreco organizzato, non solo attraverso
il foraggiamento delle clientele - che è cosa grave, ma non la
più grave - ma anche e soprattutto attraverso lo spreco in opere
inutili a discapito di un possibile di sviluppo. Dico questo per
dire che nel mezzogiorno, in realtà, noi siamo ad un livello tale
che è necessaria anche una politica di sviluppo. Non solo bisogna
affrontare i nuovi e difficili problemi determinati dalla jobless
growth, determinati dai temi che Rifkin e Lunghini e quantaltri
hanno messo in evidenza, cioè non solo i problemi della povertà
da sviluppo, ma anche i problemi della povertà da sottosviluppo.
Questo cocktail esplosivo non si affronta con grande facilità,
ma attraverso un disegno articolato di politica economica nel
quale ci sia sicuramente il rispetto dellambiente, nel quale
ci sia anche il problema delluscita dal lavoro capitalistico,
per esempio con lavoro fuori mercato, il terzo settore e quantaltro.
Ma badate, secondo me cè anche un problema di sviluppo e
cè anche un problema di sviluppo industriale. Io sarò scemo,
ma ho limpressione che la disoccupazione non cè nel
nord-est, dove ci sono le industrie, e guarda caso la disoccupazione
cè nel mezzogiorno dove le industrie non ci sono. Se uno
mi spiega che il problema è un altro, mi deve innanzitutto rispondere:
come mai a Pordenone cè la piena occupazione e si producono
quelle cose materiali che si chiamano manufatti, che si fanno
dentro certe strutture di cemento armato con la ciminiera che
si chiamano industrie e come tutto ciò non avvenga invece nel
mezzogiorno, dove dal 1975 si è arrestato il flusso di investimenti
industriali?
Ma aggiungerei di più. Nel mezzogiorno, non so quanti di
voi hanno votato No o Si allabolizione dellintervento
straordinario . Noi abbiamo votato, agli inizi degli anni 90,
un referendum che era basato su una decisione o ingenuamente tecnocratica
o di razzismo, o comunque di egoismo sociale: la fine dellintervento
straordinario. Mai si è visto che una forma di intervento a vantaggio
di unarea sottosviluppata venga eliminata, sulla base poi
di un referendum popolare, senza che ci sia un programma alternativo.
Non si è votato per dire passiamo dallo sviluppo tradizionale
basato sullintervento straordinario a una nuova forma basata
su unaltra cosa". Certo i referendum nel nostro paese
sono solo abrogativi, però nel frattempo si poteva proporre una
nuova linea dintervento nel mezzogiorno che non fosse questa
risibile legge 44, che è servita moltissimo allo sviluppo della
carriera della famiglia Borgomeo, ma che ha avuto una funzione
leggermente più modesta per quel che riguarda le centinaia di
migliaia di disoccupati dellindustria nel mezzogiorno.
Allora, noi ci troviamo in questa situazione: abbiamo una
grande ricchezza, rappresentata da una forza lavoro scolarizzata
- la valorizzazione della forza lavoro è stato sempre uno degli
obiettivi del movimento operaio - ma abbiamo sostanzialmente un
calo della domanda, oppure una perversione, un fenomeno regressivo
della domanda di lavoro. Da questo punto di vista noi ci troviamo
in condizioni molto simili a quelle dei paesi del terzo mondo
da dove arrivano gli immigrati. Da noi non arrivano immigrati
i quali siano, come dire, sottoqualificati. C'è tanta retorica
sulla formazione degli immigrati... Chi di voi va a cena a Trastevere
e trova un cameriere egiziano nota sicuramente che avrà perlomeno
il diploma di perito agrario, diploma sicuramente necessario per
lo sviluppo - eventualmente - dellagricoltura del suo paese,
ma diploma superfluo rispetto al lavoro di cameriere. Noi abbiamo
una condizione della forza lavoro immigrata estremamente complessa,
che va da livelli alti di analfabetismo a livelli alti di istruzione.
Anzi, la prima grande ondata italiana si è caratterizzata proprio
per questi alti livelli di istruzione. La conversazione tra le
due signore dei Parioli relativa alle cameriere era del tipo la
tua in che cosa è laureata?. Le filippine erano trilingui e i loro datori di lavoro - professori universitari, macellai
e altri cafoni - in realtà erano monoglotti,
parlavano solo litaliano, mentre le cameriere parlavano
tagalog, italiano e inglese. Noi ci siamo trovati con questa ricchezza.
Una ricchezza che poi spesso, tra laltro, significava anche
spreco di risorse per quei paesi, perché significava un grande
investimento sullistruzione che poi non veniva capitalizzato
nei paesi che facevano questo sforzo, allo stesso modo con cui
sta avvenendo ora nel mezzogiorno. Io sono stato a fare tre anni
fa una conferenza alla Bocconi, ero a questo dibattito e alla
fine sento dodici domande. Alla fine si alza il tredicesimo: posso
fare una domanda? "No - rispondo io - la può fare solo
se non ha laccento meridionale", perché i dodici che
avevano parlato prima avevano tutti laccento meridionale.
Questo vuol dire che ormai anche linvestimento sullistruzione
si va a fare al nord, poi magari si prosegue con un altra formazione
superiore e si resta comunque nel nord. E questo perché? Perché
la domanda di lavoro non tira, nel mezzogiorno, come tira al nord.
E d'altra parte la domanda di lavoro non tira nei paesi sottosviluppati
del terzo mondo dal quale proviene la nostra immigrazione ed è
per questo che lItalia diventa uno dei punti di arrivo dellimmigrazione.
E in realtà, come dire, limmigrazione va vista in questo
quadro che noi ci troviamo davanti. Capire le condizioni degli
immigrati a Napoli o a Caserta o a Reggio Calabria o a Latina
significa vedere limmigrazione in questa nuova cornice,
che io definisco di accelerata
internazionalizzazione dei mercati del lavoro unita a una
accentuata segmentazione
dei medesimi.
Solo
se si tiene conto della internazionalizzazione e della segmentazione
si può capire come mai in province del mezzogiorno dove cè
una disoccupazione reale - perché nessuno crederà a quelle fesserie
del sommerso che ogni tanto vedete scritte da Pirani su La
Repubblica, perché la disoccupazione nel mezzogiorno c'è,
è vera ed è dura e non è certo corretta da quel 3% di sommerso
- c'è immigrazione contemporaneamente alla disoccupazione. C'era
uno che ora sta ad Hammamet, e che non è un tunisino, che si chiamava
Craxi, che il 26 dicembre 1986 scrisse un articolo molto arrogante
e volgare - nella sua prepotenza - contro lISTAT. Nell'articolo
si sosteneva che lISTAT non sapesse fare il suo mestiere
- era un'abitudine frequente di Craxi dire agli altri, per esempio
a Nerio Nesi, "non sai fare il tuo mestiere" - e che
lISTAT non si rendeva conto che in Italia non ci potevano
essere tanti disoccupati e questo per la ragione che in Italia
avevamo un milione di lavoratori immigrati. Ora, chi gliela avesse
raccontata questa frottola relativa al milione di lavoratori immigrati
non possiamo sapere - visto che all'epoca (parliamo di 11 anni
addietro) gli immigrati provenienti dal Terzo Mondo potevano essere
al massimo 250 mila - ma, in realtà c'era qualcosa di molto interessante
in tutto questo, perché la cosa - che Craxi valutava assurda -
poteva essere possibile. Anche se avessimo avuto 900 mila immigrati
avremmo potuto avere benissimo 3 milioni di disoccupati, perché
c'è la segmentazione del mercato del lavoro.
Quando un paese si sviluppa in senso terziario, come gli
Stati Uniti d'America che cosa avviene? Consideriamo ad esempio
la produzione di pomodori negli USA: la produzione di pomodori
negli Stati Uniti si può realizzare solo perché c'è la miseria
del Messico. Arrivano gli immigrati dal Messico in condizioni
di sottosalario, perché in condizioni di mancata protezione devono
accettare qualunque salario, e di conseguenza quella produzione
si espande. Questo, negli USA, non riguarda solo la California
o solo i pomodori, ma riguarda anche, per esempio, una vasta area
del settore della ristorazione - e questo lo vedete anche in Italia,
con una aggravante: che in Italia gli immigrati trovano anche
un'altra forma di domanda, che è la domanda per i lavori domestici
o per i servizi agli anziani.
Ora, nella pratica di assumere principalmente lavoratrici,
ma anche lavoratori, extracomunitari nei servizi domestici o nei
servizi agli anziani, non si esprime solo un'arretratezza culturale
del sunnominato cafone professore universitario o macellaio dei
Parioli, che vuole la cameriera o il cameriere magari un po' neri.
Questo è sicuramente vero, figuriamoci, il modo è pieno di cafoni,
ma non è questa la spiegazione prima. La causa prima è nella carenza
del sistema italiano di welfare.
Una madre che lavora ha bisogno di una cameriera a tempo pieno,
altrimenti non saprebbe a chi lasciare la bambina o il nonno.
Quindi c'è questo complesso meccanismo che io chiamo del
"modello mediterraneo dell'immigrazione" per cui ci
si trova, in maniera molto facilmente comprensibile, con altissimi
livelli di disoccupazione e altrettanto alti livelli di immigrazione.
E qui devo dire una cosa: le politiche di chiusura, che saranno
aggravate dalla legge Turco-Napolitano, quindi la chiusura delle
frontiere, produce due effetti. Uno è quello di ridurre effettivamente
gli ingressi. L'altro è quello di trasformarli da ingressi regolari
in ingressi irregolari e clandestini. E quindi quando noi vediamo
gli immigrati di Villa Literno o di Latina, troviamo spesso questa
situazione. E guardate che si tratta di gente civilissima, molto
colta. Io ho lavorato con loro e si tratta di gente dignitosissima.
Certo, hanno dei padroni un po' sottosviluppati, ma abbiamo già
fatto l'esempio dei signori dei Parioli.
Tutto questo avviene per via dei processi spinti di internazionalizzazione
e per i processi di segmentazione. E guardate che la segmentazione
del mercato del lavoro, come chiave di interpretazione dei nuovi
modelli migratori, è già nota da una ventina d'anni. C'è un libro
bellissimo di Michael Priore, che è uno dei principali studiosi
della segmentazione a livello internazionale, libro che l'autore
ha non casualmente dedicato a sua nonna emigrante in America,
che si chiama Birds of passage
(Uccelli di passo), in cui si descrive sia la grande tradizione
della emigrazione, sia la nuova situazione dei movimenti migratori
che operano in condizioni di molto maggiore difficoltà rispetto
a quelli di una volta. Anche perché, una volta, nel modello fordista,
c'era comunque questa prospettiva di una collocazione stabile.
Gli italiani andavano in Germania e lavoravano nell'industria.
E se non lavoravano nell'industria lavoravano nei lavori pubblici
e nell'edilizia, ma comunque in una società in cui l'elemento
trainante dello sviluppo e dell'occupazione - ma anche dell'organizzazione
complessiva della società - era l'industria, che significava il
sindacato, che significava il Welfare, che significava le garanzie
dei lavoratori. Tutto questo, con la crisi del Welfare non c'è
più.
Si discute se in Italia gli immigrati abbiano una funzione
sostitutiva oppure complementare rispetto alla forza lavoro locale.
Io dico che questo non è un problema - certe volte hanno una funzione
sostitutiva, concorrenziale, ma nella maggior parte dei casi si
collocano in aree nuove determinate dalla modificazione della
domanda di lavoro dovuta alla crisi del modello fordista.
Ma concludo citando Ejszenstejn. No, non si tratta di Prodi sulla
carrozzina Potemkin. In una sceneggiatura di Ejszenstejn c'è questo
dialogo di una madre che dice alla figlia che vuole sposare un
prigioniero di guerra tedesco nella Russia del '17: "Come
è possibile? Tu vuoi sposare un tedesco?" E la ragazza: "Chi
io? Un tedesco?" "Certo! Quello è tedesco!". E
la ragazza: "No, lui non è tedesco: lui è un calzolaio".
In realtà la ragazza risponde alla madre che l'identificazione
prima di un nuovo soggetto è la sua collocazione di classe, e
cioè il fatto che si tratti di un calzolaio, e non che sia tedesco.
Quindi la ragazza non è stupida o inconsapevole del fatto che
sta per sposare un tedesco, ma ritiene - come diceva Bruno Trentin
- che prima di decidere che pelle abbia un lavoratore, bisogna
considerare il fatto che è un lavoratore. I braccianti vengono
difesi in quanto braccianti: è del tutto secondario se a Latina
o a Veroli essi siano braccianti ciociari o dell'agro pontino
oppure braccianti tunisini, marocchini o del Senegal.
Non
sono sicuro di avere una conoscenza reale dellItalia del
Sud, oggetto dellanalisi del vostro seminario. Dovete sicuramente
occuparvene, perché si tratta di uno dei maggiori problemi sociali
del vostro paese. Ma questanalisi può essere utile anche
ad altri paesi i quali non conoscono forse precisamente le localizzazioni
geografiche di ricchezza e povertà, ma che conoscono, sotto altri
aspetti, la progressione galoppante delle nuove povertà che si
nascondono anche allinterno di masse relativamente privilegiate,
e che nondimeno indicano lo scandalo di uningiustizia inaccettabile
e una minaccia evidente per la pace sociale.
Ora, io penso che per comprendere realmente quel che sta
succedendo sia necessario risalire allorigine, fino alle
cause profonde, alle cause ideali delle derive odierne che si
aggiungono le une alle altre.
Non è certamente con la brevità di questo intervento che
possiamo esaurire lanalisi del pensiero
unico, o della legge
del mercato, o del neoliberalismo:
chiamiamoli come vogliamo, ma in ogni modo si tratta della stessa
cosa. In effetti si tratta di analizzare il pensiero
unico, un sistema di riferimento oggetto dun consenso,
il quale pretende di generalizzarsi. Un sistema di riferimento
considerevolmente impoverito proprio nella misura in cui pretende
di generalizzarsi.
Non ho ancora visto un libro o unanalisi scientifica
del fenomeno. Non sono un economista, ma a dire il vero non è
necessario essere un economista per constatare come oggi leconomia
abbia il primato sulla politica e che la conseguenza di questo
primato sia una terribile sequela di guasti, che fanno del nostro
mondo un mondo dingiustizie e ingovernabile.
Possiamo enumerare questi guasti, e mi limito ad indicarli
senza alcuna analisi:
A. Sul
piano generale il disequilibrio
crescente tra il Nord e il Sud del nostro pianeta terra: lultimo
rapporto del UNDP afferma che in 30 anni il 20% dei ricchi hanno
occupato l80% delle ricchezze. Un disequilibrio che mette
in crisi tutti gli strumenti messi in atto dopo la seconda guerra
mondiale per porvi rimedio, e che hanno finito per aggravare la
situazione. Si vede bene che il peso dei debiti accumulati nei
paesi del Sud - e presto anche da quelli dellEst
è diventato intollerabile e che questo debito è ampiamente irrecuperabile.
B.
Nel mondo intero la disoccupazione
non cessa di estendersi e tende a diventare endemica; in ogni
caso essa ha generato sempre più nuova povertà. Di
fronte a questa situazione, apparentemente incoercibile, le nostre
società tendono ad abbassare le spese ed a rinunciare progressivamente
alle protezioni sociali che sembravano essere state definitivamente
conquistate. Inoltre la legge del mercato costringe evidentemente
al mantenimento di riserve di manod'opera a buon mercato!
C.
Regno schiacciante della moneta: osservate la cristallizzazione
per laccesso allEuro. Vediamo bene che tutto questo
siscrive nel pensiero unico della legge del
mercato, perché si tratta di diventare più competitivi, e lEuropa
saffanna a firmare questo patto. Un altro aspetto dello
stesso fenomeno è il fatto che non sono nemmeno le competizioni
commerciali a determinare (nel senso più forte) le sorti delle
società e delle loro componenti sociali, ma a determinare tali
sorti è il gioco speculativo finanziario che ha ormai raggiunto
un volume mostruoso. Si stima che ogni giorno le transazioni finanziarie
a livello globale rappresentino la somma di 1.500 milioni di dollari
al giorno (Samir Amin interviene
a dire che si tratta di cifre almeno da triplicare, N.d.R.),
somma che eccede enormemente le riserve delle banche centrali.
Si pensi allesempio ben conosciuto delle speculazioni che
si permettono i manager dei fondi pensionistici degli Stati Uniti.
È così che il mondo diventa progressivamente ingovernabile.
Non è dunque sorprendente osservare che la politica
larte di governare scompaia di fronte "alleconomia
e alle sue costrizioni.
So bene che quando si evocano i guasti delleconomia,
il coro indignato di quanti sostengono il pensiero unico
si leva per sostenere che la causa dei guasti non è questo ruolo
delleconomia, ma anzi, che la causa è il fatto che non cè
ancora sufficiente libertà dazione per il liberalismo economico.
Tanto sono forti i pensieri suicidi odierni!
In ogni modo è così che lessere umano si vede privato
di ogni vera considerazione ed è visto soltanto come un utensile
che si butta via quando non è più necessario. Ho appena finito
di leggere un libro che ha provocato in Francia qualche soprassalto
in questultimo anno, scritto da unautrice di talento,
Viviane Forrester dal titolo Lorrore economico (Il titolo francese è Lhorreur
éconmomique 1996 Fayard ed.). Ne cito un passo: (
)
Lestinzione del lavoro passa per una semplice eclissi, quando
invece, per la prima volta nella storia, linsieme degli
esseri umani è sempre meno necessario al piccolo numero di coloro
che fanno leconomia e detengono il potere. Scopriamo
che di là dallo sfruttamento degli esseri umani, cè di peggio
e che davanti al fatto di non essere nemmeno più sfruttati, la
massa umana vista come superflua può tremare, e così ciascun singolo
di questa massa. Dallo sfruttamento allesclusione, dallesclusione
alleliminazione
Mi
addentro ora in campo che non è forse molto abituale, per riflettere
sulle cause lontane del pensiero unico che in passato
era da considerare a livello teologico o filosofico.
Lespressione pensiero unico non mi sembra
neutra. In un certo modo si può sostenere che nella sua pretesa
unitaria abbia qualche cosa a che vedere con il Dio unico,
con il monoteismo quale si è elaborato nelle civiltà mediterranee
e cristallizzato nelle tre grandi religioni monoteiste: il giudaismo,
il cristianesimo e lislamismo. E bisogna riconoscere che
la dinamica unitaria o diciamo unitarista iniziata
dal monoteismo ha largamente prodotto delle spinte imperialiste,
militari e culturali. Dico questo perché è quasi ovvia lidea
che la dinamica unitaria abbia il suo avvio a partire
dal contenuto della fede monoteista. Per citare qualche esempio:
è proprio questo che è successo allinizio di questo millennio
con le Crociate, che fecero guerra agli infedeli
nel nome del Dio unico. Così come le civiltà indiane dAmerica
sono state schiacciate e rase al suolo dai Conquistadores, sempre
in nome del Dio unico. Tutti sappiamo quali abominevoli azioni
sono state commesse.
Potremmo ancora sostenere che è questa dinamica unitaria
che in un certo modo, ha dato vita alla filosofia illuministica
nel XVIII secolo., nella quale il Dio unico è rimpiazzato dalla
Ragione universale, riferimento unificante.
Io sostengo che si
possa verificare come questa spinta verso lUnità porti con
sé un reale imperialismo culturale. La Dichiarazione universale
dei diritti delluomo, che possiamo vedere come esito
positivo della filosofia illuministica, in realtà, con quali termini,
con quale materiale concettuale è stata formulata, se non con
il concetto del primato dellindividuo? È stata certamente
una conquista della filosofia illuminista, ma diventa difficilmente
utilizzabile allorquando si tratta dei diritti di tutti i popoli,
che è la vera sfida odierna. Infatti, la convenzione di Ginevra
del 1951, che si propone di proteggere i rifugiati politici, li
definisce soltanto come persone obbligate a fuggire dal loro paese
per ragioni politiche o religiose, mentre oggi, non soltanto degli
individui sono costretti allesilio, ma popoli interi devono
fuggire.
Mi sembra dunque, che possiamo chiederci se il pensiero
unico non sia lultima dimostrazione di questa spinta
unitaria che attraversa i secoli, ma non necessariamente i continenti.
Si tratta dellultimo fenomeno dellimperialismo occidentale
che intende una volta di più dettare al resto del mondo il vero
modo di pensare. E mi domando allora se davanti alle disgrazie
causate da questi ultimi sviluppi e per far pulizia prima
davanti alla propria porta non sia necessario interrogarci
sulle responsabilità del Cristianesimo (o piuttosto delle chiese,
perché non bisogna ogni volta confondere tra fede Cristiana e
chiese!)
Per prima cosa si può sostenere e non mancano le
persone capaci di farlo che le chiese si devono rallegrare
per lemergere della mondializzazione, poiché
essa va nel senso di una pace internazionale e che dunque la spinta
verso il pensiero unico sarebbe conforme alla loro
convinzione dellunicità della famiglia umana!
Prima di tutto vi voglio ricordare che nella Bibbia cè
almeno una pagina che non parla in maniera positiva di questa
spinta verso lunità: si tratta della storia della Torre
di Babele (Ge.11) che la presenta come la pretesa di volersi fare
uguali a Dio. Posso ancora segnalare che spesso nella Bibbia ciò
che è presentato, dato come segno di forza, di vita e dunità,
ha una costante tendenza a diventare mortifero, portatore
di morte.
Faccio solo tre esempi:
1
Il serpente di rame innalzato da Mosè nel deserto quando
il popolo si era rivoltato contro il suo Dio ed era stato assalito
da serpenti velenosi. Il serpente di rame è un segno, uno strumento
di vita, perché chiunque guarda verso di lui è guarito. È anche
un segno di unità per il popolo riconciliato con il suo Dio. Otto
secoli dopo ritroviamo il serpente di rame, oggetto della peggiore
idolatria, in una cappella adiacente al tempio di Salomone. Allora
diventa un segno di morte e di separazione perché fa parte della
coorte degli dei stranieri, il cui culto è imposto per il piacere
delle mogli straniere di Salomone.
2
Il tempio. Il re Salomone si sente autorizzato a rimpiazzare
la tenda del tabernacolo, che manifestava laccompagnamento
nomade di Dio per il suo popolo nomade, con un tempio di pietre.
È là, al centro della capitale Gerusalemme, per aiutare il popolo
a ritornare sempre verso il proprio Dio e riunirsi intorno a lui,
sua unica ragione dessere. Là, dopo alcuni secoli, il tempio
è preso di mira dal profeta Geremia come occasione di tutte le
false sicurezze dun popolo che si crede per sempre il proprietario
di questo Dio protettore, solo perché possiede la sua dimora.
Non rimarrà pietra su pietra proclama Geremia ed è
per aver rimarcato questo avviso che Gesù sarà condannato dal
Sinedrio e crocifisso dai romani.
3
La stessa Legge. La Legge trasmessa da Mosè dopo averla
ricevuta sul Sinai è stata anche data per assicurare la vita del
popolo in armonia con Dio e in se stesso. Noi sappiamo bene che
al tempo di Gesù, la stessa Legge, era diventata, nelle mani di
coloro che gli evangeli indicano come dottori della legge e farisei,
un terribile strumento di oppressione e di morte!
Potremmo anche verificare nella storia della Chiesa come
il male costante sia proprio nella legge, che mentre dovrebbe
essere ascoltata, vissuta come pratica dellamore e della
benevolenza, si tramuta sempre in unideologia chiusa, in
uno strumento privilegiato nelle mani dei poteri oppressivi. È
qui che noi abbiamo la fonte di tutte le ingiustizie e di tutti
i totalitarismi. Labbiamo visto bene nella guerra nella
ex-Jugoslavia. Mi ricordo il mio spavento quando allinizio
della guerra ho sentito per radio larcivescovo di Zagabria
affermare che bisognava per forza comprendere che quel conflitto,
che faceva stragi, in fondo serviva anche a fare avanzare
le frontiere della cristianità occidentale.
Allorquando la fede si degrada in ideologia o idolatria
del suolo, del sangue o dellappartenenza etnica, essa non
è mai lontana dalla sua sequela di disgrazie. È necessario, ad
ogni prezzo, non fidarsi del prét à penser. Ancora
di più quando si tratta del pensiero unico. Non dobbiamo
fidarci soprattutto quando il prét à penser ha un
coefficiente religioso, perché a quel punto il conflitto che genera
è portato ad assolutizzarsi.
Si dirà: non è fatale che lEvangelo sia trasformato
in dogmi, vale a dire in ideologia? Perché bisogna
pure esprimere quel che si testimonia. Ma lEvangelo diventa
dannoso quando non se ne vede più il fine. Fine che non è quello
di servire ciecamente i poteri, soprattutto quelli economici.
Al contrario si deve esercitare una grande vigilanza rispetto
a tutti i poteri. Perché i poteri tendono sempre ad escludere
ciò che lEvangelo chiama apertura verso tutti
in particolare verso i più poveri. Il Dio unico si è fatto conoscere
al suo popolo con degli atti liberatori verso i poveri: come la
vedova, lo straniero, lorfano, i prigionieri. E a Mosè,
che gli domandava quale fosse il suo nome, Dio risponde: Io
sono quel che sarò,
per sempre.
Ciò che ho detto sul cristianesimo,
sulle sue derive e sulla sua autenticità lo potremmo dire anche
delle altre religioni. È per questo che il dialogo tra le religioni
è diventato urgente. È perché nel loro incontro ciascuno non sia
aiutato ad andare verso il pensiero unico - il quale non sarebbe
altro che un sincretismo confessionale - ma tutti siano aiutati
a staccarsi dalle proprie verità quando siano diventate mortifere
e non indichino più il cammino della vita. E questo perché è il
cammino della vita che bisogna sempre riscoprire fuggendo tutte
le schiavitù portatrici di morte, ed io temo che il pensiero unico
sia una di queste schiavitù.
Dalle
relazioni fatte a questo tavolo e da alcune osservazioni che mi
paiono importanti - provenute dalla sala - ho annotato cinque problemi,
anzi, cinque insiemi di problemi che rientrano direttamente nella
problematica del che fare?, del come rispondere alla
sfida dellutopia neoliberale che ci è imposta, di come fare
a trasformare le forze della resistenza in forze di controffensiva.
Su questi cinque punti non vi propongo affatto delle risposte
che appaiano definitive nellindicare delle azioni
da compiere. Io credo che questo sarebbe troppo arrogante, dato
che non siamo né io né voi nelle condizioni di fare,
e che sarebbe molto pericoloso cercare di fare ad ogni
costo. Vorrei semplicemente fare una riflessione che dovrebbe aiutare
a dare vita ad un dibattito attorno a queste questioni.
Prima
di tutto vorrei rispondere sulla questione dello sganciamento
che è stata introdotta e commentata da Silvia Boba, ma che è stata
toccata in forme diverse anche nel dibattito.
Io non sono di quelli che utilizzano in modo abusivo i termini:
nelle scienze sociali lutilizzo di una espressione piuttosto
che unaltra ha sempre un significato ben preciso, che è sempre
a rischio di essere frainteso se lo si interpreta con un approccio
differente. Il termine sganciamento ha una sua storia
che non è iniziata ieri, e non è utilizzato nel senso che gli si
attribuisce nel linguaggio comune. Ma, ciò che è più importante,
è che dobbiamo metterci daccordo su che cosa stiamo indicando.
Per me lo sganciamento non è affatto sinonimo di autarchia
e ancor meno è sinonimo di fuga nello spazio. Esso non descrive
assolutamente neppure un ripiegamento culturale o culturalista
su se stessi, o la rottura delle comunicazioni con gli altri. Lo
sganciamento è un principio di strategia politica, che
consiste, e lo definisco nella maniera corretta - anche se tutto
è relativo in politica - nel
sottomettere le relazioni esterne alla logica delle esigenze di
sviluppo interne democratiche e popolari. Questo principio è
esattamente lopposto di quello che ci viene imposto con lideologia
dominante del liberalismo mondializzato, che ci dice Siete
voi che dovete adeguarvi alle esigenze dello sviluppo mondiale,
senza preoccuparsi di chi lo domini ed in quale direzione esso vada.
Dunque a questa forma di aggiustamento io oppongo linverso:
obbligare il sistema mondiale ad aggiustare se stesso alle nostre
esigenze. Queste esigenze, beninteso, sono diverse da paese a paese,
e non per ragioni culturali, ma per ragioni che derivano da uno
sviluppo ineguale, per ragioni attinenti alla storia delle strutture
sociali specifiche, e alla maturità ed alla capacità delle forze
politiche progressiste. Attribuendo il contenuto corretto allespressione
sganciamento si comprende come - trattandosi di un principio,
in quanto tale valido per ogni epoca - non sia possibile affermare
ciò che sosteneva Silvia Boba, e cioè che poiché le forme e le strategie
in cui si metteva in atto lo sganciamento di ieri (quelle
dellUnione Sovietica, della Cina o dei paesi del Terzo Mondo)
non corrispondono più alle condizioni di oggi allora il principio
ha perduto il suo valore. Il
principio resta valido, ma le condizioni della sua messa in atto
sono, evidentemente, molto differenti, per non dire totalmente
differenti da quelle per la sua messa in atto nelle tappe anteriori
dello sviluppo capitalistico.
La seconda serie di problemi, anchessa sollevata da
Silvia Boba, con la quale su questo sono più daccordo, è la
questione relativa allallargamento o meno della base produttiva
dellespansione capitalista.
Non dobbiamo esagerare, né in un senso né nellaltro:
la stagnazione è relativa, come la crescita è relativa, ed esse
sono sempre, entrambi, ineguali. E sarebbe una caricatura dire che
il sistema mondiale è stagnante nel suo insieme - beninteso, non
è così. Non solo i tassi di crescita sono differenti da un paese
allaltro, ma bisogna aggiungere che laccumulazione avviene
effettivamente con lallargamento della base produttiva di
alcuni settori - che sono i settori
di punta - mentre si ha stagnazione o regressione di altri
settori. In ogni caso, senza troppo semplificare, cosa che dobbiamo
comunque fare per esigenze di tempo, noi costatiamo che il
nostro mondo, nella fase attuale di questa crisi è diviso -
e non si tratta della solita divisione tra est e ovest: il continente
americano (America del Nord e America Latina), lEuropa (sia
occidentale, quella dellUnione Europea, ma anche lEuropa
Orientale che comprende lex - Unione Sovietica), lintero
continente africano (la parte araba e quella sub-sahariana, incluso
il Sud Africa), la parte occidentale del continente asiatico (diciamo
dal medio oriente arabo, turco e iraniano fino allAfganistan
e al Pakistan) ed il Giappone - dunque linsieme
del centro sviluppato dellAmerica del Nord, dellEuropa
Occidentale e del Giappone e
alcune regioni periferiche o semiperiferiche - sono, effettivamente,
in una situazione di crisi, di stagnazione. In tutti questi paesi,
proprio in tutti, i tassi di crescita sono infinitamente più bassi
di quelli che si sono avuti nella belle epoque dei trentanni
gloriosi. I tassi di investimento nei settori produttivi sono inferiori
alla metà di quelli che cerano stati nei 30 gloriosi. Qui possiamo dunque parlare di stagnazione. Ci sono,
evidentemente, dei settori nuovi - come quelli legati allinformatica
- che conoscono tassi di crescita favolosi, ma questi si verificano
comunque in un quadro di stagnazione, la quale è effettivamente
rimarcata dalla disoccupazione - molto alta da più di ventanni
- , e di disuguaglianza enorme nella ripartizione del reddito.
Ma bisogna ricordare che in termini di popolazione non si
tratta che della metà della popolazione mondiale.
Se guardiamo allaltra metà, quindi alla Cina (con 1
miliardo e 200 milioni di abitanti), alllIndia (più di 1 miliardo
di abitanti), allAsia del sud-est (più di 600 milioni di abitanti),
ecco che abbiamo, in queste tre piccole regioni, quasi
la metà dellumanità. In queste zone non abbiamo alcuna caratteristica
che sia sintomo della stagnazione. Abbiamo, invece, dei tassi di
crescita che sono cresciuti, al contrario di quanto è avvenuto nelloccidente
- sono cresciuti moltissimo per quel che riguarda la Cina, la Corea,
Taiwan, e in una maniera più discutibile per quel che riguarda lAsia
del sud-est. Non abbiamo affatto alti tassi di disoccupazione, né
una iniqua ripartizione del reddito così netta. Lungi da me lidea
di definire queste società come società ideali. Alcune di esse sono
sempre state fortemente ineguali e lo sono restate, altre
- come la Cina - vanno delineandosi sempre più come società
che, in linea di tendenza, si spingono verso una visibile ineguaglianza.
In ogni caso non abbiamo i medesimi fenomeni che riscontriamo nellaltra
metà di mondo. In questa parte abbiamo unaccelerazione del
processo di industrializzazione, di modernizzazione, di urbanizzazione,
competitivo sul mercato mondiale - con diversi gradi di competitività,
naturalmente - ma competitivo e non solo grazie ad un costo del
lavoro a buon mercato. Infatti
se abbiamo manodopera a buon mercato, abbiamo anche alti livelli
di produttività, una organizzazione efficace ecc.
Allora si delineano due interpretazioni alternative relative
a questo contrasto. La prima è quella che ritiene i paesi dellAsia
e del sud - est asiatico in questione abbiano cominciato a ridurre
gli svantaggi accumulati nella storia in un quadro di mondializzazione
aperta, e che cioè abbiano giocato il gioco della mondializzazione
e della competitività, che insomma abbiano fatto quello che si intende
con lespressione cogliere la chance offerta dalla mondializzazione
aperta - ovviamente sulla base di rapporti di produzione capitalistici
o che tendono a divenirlo - e che questo proverebbe la correttezza
della tesi neoliberalista, che sostiene che chiunque voglia, possa
effettivamente trarre profitto dalla mondializzazione. La conseguenza
di questa interpretazione è che se ci si trova in condizioni di
marginalizzazione, di stagnazione, di crisi, bisogna fare come la
Corea, come la Cina e si uscirà dalla situazione di crisi attuale.
È quello che univocamente si dice.
Ora vorrei invece ribadire più chiaramente quello che abbiamo
detto brevemente ieri, ma in modo più dettagliato, a proposito delle
nuove forme della polarizzazione.
I paesi che risultano vincenti (successful
per dirla in inglese) dellAsia dellest non sono
in un trend di recessione, ma tendono a mio avviso a stabilirsi
in una posizione periferica domani, quindi ciò significa che il
trasferimento del mezzo di dominazione dellantico monopolio
- dellindustria competitiva a livello mondiale - è solo una
fase di passaggio, dato che la polarizzazione opera oggi attraverso
i 5 monopoli. Questo è un punto molto importante. Questi paesi non
sono in un trend di ripiegamento su se stessi, ma è il sistema nel
suo insieme ed il rapporto centro
- periferia che si sta trasformando: il
vecchio contrasto paesi industrializzati - paesi non industrializzati
è sparito, cancellato, ma un nuovo tipo di contrasto si sviluppa:
paesi che beneficiano dei 5 monopoli e paesi che non ne beneficiano.
In queste condizioni ci si deve domandare se il successo
di questi paesi, nel quadro del capitalismo mondializzato attuale,
sia dovuto effettivamente alla mondializzazione, allapertura,
o se sia dovuto a ciò che, con precisione, essi hanno negoziato.
Questo nel senso che in questo momento, per ragioni diverse - e
ci vorrebbe unora per analizzare queste ragioni diverse e
prendere i paesi uno per uno - tra cui la rivoluzione cinese - essi
sono al momento capaci di imporre un certo grado di controllo su
questa mondializzazione che gli altri paesi non sono più capaci
di imporre. Questo vale soprattutto per la Cina. In questo senso
questi paesi ci indicano una via, che non è quella del discorso
neoliberale dell adeguatevi alla mondializzazione:
sono solo dei paesi che riescono a imporre al sistema mondiale di
adeguarsi alle loro esigenze
di sviluppo interne - e si tratta, beninteso, di uno sviluppo
capitalistico.
La seconda serie di problemi che si pone ora per questi paesi
- e parlo di questi paesi in generale - deriva dal fatto che questa
strategia si può giustamente inserire in una certa concezione dello
sganciamento. Infatti si tratta di paesi che sono sganciati,
anche se partecipano fortemente al sistema mondiale. Sganciarsi
non vuol dire andare sulla luna, ma imporre, attraverso la negoziazione,
al sistema e agli altri di adeguarsi alle proprie esigenze anziché
linverso. In questo senso io continuo a usare il termine sganciato
(deconnecté) anche se la parola rischia di essere fraintesa, perché
in francese, ma in tutte le lingue, deconnecté vuol dire tagliare.
Bisogna intenderla nel senso di tagliare alcuni
legami per stabilirne di altri.
Il punto importante, infine, è che bisogna stabilire se questa
strategia possa iscriversi nella visione della lunga transizione
verso il socialismo di cui ho parlato ieri o se, al contrario, essa
sia nata come espressione di una fase allinterno dello sviluppo
capitalistico.
Su questo punto ci sono dei dibattiti molto forti, molto
importanti, in Cina. Questo disscussione in Cina è cominciata come
espressione di tuttaltra posizione rispetto a quella dellideologia
dominante. È incominciata, al contrario, in maniera superempirista,
ed è piena, come tutti i grandi dibattiti, di ambiguità, ma esiste.
Proprio in questo momento la Cina è arrivata al conseguimento
di quelle che sono definite le tre positive: e cioè ad
una accelerazione della crescita con:
1. il
mantenimento di un sistema di distribuzione
sociale del reddito gigantesco, che riguarda 1 miliardo e 200
milioni di abitanti, e questo sebbene in Cina abbiano dei nuovi
ricchi. Infatti non hanno dei nuovi poveri. Hanno
molta povertà, ma le condizioni di questa povertà sono relativamente
in via di riduzione.
2. una
redistribuzione interprovinciale
del reddito e degli investimenti che è gigantesca. Pensate che
una provincia della Cina può avere 120 milioni di abitanti, non
è certo la provincia di Frosinone. Persino le provincie che hanno
un tasso di crescita più debole non hanno comunque un tasso di crescita
inferiore al 5%.
3. Il
grado di controllo delle
relazioni esterne è ragionevole. Gli americani si arrabbiano,
e non a torto. Essi dicono: i cinesi barano con il neoliberalismo
e ciò è vero; ma perché non barare con il neoliberalismo, visto
che si è barato con il socialismo e con molte altra cose?
Queste sono le tre
positive. Il potere (o forse le forze dominanti nel potere)
pensa che queste tre positive
permettano e dovrebbero permettere alla Cina, di mantenere questa
crescita - se non per sempre per un lungo periodo - e ritengono
che sia fondamentale, per ora, lunita cinese, lunità
dello stato.
Noi critichiamo questa analisi perché sosteniamo che ad essa
manca un quarto punto che
è negativo: il potere pensa
di mantenere queste tre positive
attraverso il canale esclusivo di una gestione burocratica dello
stato, con il sistema che conosciamo bene del parrtito unico, del
partito-Stato ecc., senza
democrazia popolare. E non parlo di democrazia in termini di
multipartitismo, di elezioni ecc., ma di democrazia intesa come
partecipazione autonoma, come organizzazione autonoma delle espressioni
delle forze popolari.
La risposta che sarà data dalla storia, nel corso dei prossimi
ventanni, è se si tratti di una fase della lunga transizione
per la costruzione del socialismo mondiale o se al contrario si
tratti di un fenomeno che potrà essere ricondotto alla logica della
mondializzazione capitalista.
La
terza questione, sollevata da Jacques Maury, è quella riguardante
la separazione tra politica ed economia, come elemento fondamentale
dellideologia dominante. Lideologia dominante neoliberalista
ci dice: viva la democrazia!
intesa come sistema - il quale ha elementi che non sono certo
antipatici, come il rispetto del diritto, dello stato di diritto,
il rispetto dei diritti umani ecc. - che si esprime attraverso elezioni
e pluripartitismo per la gestione politica della società. Leconomia,
in questa ideologia dominante, è, daltra parte, un alto dominio
governato dal mercato e non dalla democrazia. E il mercato è la
concorrenza, la competizione, è lautomatismo delle regole
economiche. Insomma cè una separazione. Non cè nulla
di nuovo, questa è lideologia della borghesia delle origini,
degli albori. Ma a ciascuna delle tappe della storia del capitalismo
si accompagnano delle forme diverse.
Questa separazione del politico e delleconomico annulla
la portata trasformatrice della democrazia e la trasforma in quella
che io definisco in maniera un po polemica una democrazia a bassa intensità. Intenderla in questi termini è come
dire: viva la democrazia
per coloro a cui non serve!. Lavvenire, più che
determinato dal fatto che si voti a destra o a sinistra, è dettato
dalla spontaneità del mercato, il che rende inutile il voto democratico.
Il nostro problema è, dunque, come passare da questa logica - che
può essere definita come quella del pensiero unico -
ad una logica che rileghi la democrazia e la gestione delleconomia.
Il tempo non permette di dare completezza di analisi per tutti gli
elementi e questo è un problema fondamentale del nostro dibattito.
Unaltro
punto importante del nostro dibattito che ritengo necessario sottolineare
è il tema di come passare alloffensiva a livello europeo,
cioè a livello dei paesi dellUnione Europea. Dirò solo due
parole. Io credo che la costruzione europea sia di fronte ad una
scelta fondamentale: una possibilità è quella di concepire la costruzione
europea come quella di un mercato comune, con una moneta comune,
che possa essere competitivo con gli Stati Uniti o con il Giappone
allinterno del liberalismo mondializzato. Questa è una delle
due possibili opzioni ed è quella in vigore e che malauguratamente
i pochi governi di sinistra in Europa mettono in opera esattamente
come gli altri. Questa opzione, a mio avviso, condurrà allesplosione
del progetto europeo. È un progetto senza avvenire, che deriva da
una utopia reazionaria e pericolosa. Laltra alternativa non
mi pare affatto impossibile in lEuropa, perché è contenuta
nella storia dellEuropa, che non è certo la più brutta allinterno
dellla storia dellumanità, dato che ad essa appartiene una
tradizione progressista, democratica e socialista. E di conseguenza
pensare ad un progetto societario europeo che sarebbe effettivamente
non certo il socialismo, ma una tappa importante della lunga
transizione al socialismo mondiale non mi pare impossibile
ed è questa la sfida su cui la sinistra europea deve confrontarsi.
In una parola: lEuropa sarà di sinistra o non sarà.
Lultimo
punto, che tratterò molto brevemente, è come combattere i 5 monopoli.
Se la tesi che io propongo è corretta questi cinque monopoli sono
la forma attraverso la quale si manifestano oggi - e si manifesteranno
sempre più in futuro - le forze che producono, riproducono e approfondiscono
la polarizzazione mondiale. Come combatterli? Con scelte politiche
nazionali? Sì, certo, visto che la responsabilità politica dello
stato non può essere eliminata. Ma anche - e direi sempre di più
- attraverso le politiche regionali delle grandi regioni. Fortunatamente,
nel nostro mondo, le diversità non impediranno affatto la nascita
di grandi unioni regionali. Cè lUnione Europea, ma anche
quella latino - americana, come pure possiamo immaginare ci possa
essere ununione araba, ununione dellAfrica sub
-sahariana, o dellinsieme dei paesi del sud-est asiatico -
che è quello che chiamano Asean - cè il blocco della Cina
e quello degli Stati Uniti. Dunque si può tranquillamente pensare
a delle strategie regionali. Questi insiemi regionali sono differenti
- come lo sono in genere tra di loro i paesi che li compongono -
in termini di livello di sviluppo, in termini di natura della sfida
che hanno di fronte e anche in termini di storia, di cultura e di
composizione di blocchi sociali alternativi possibili. Ma nonostante
queste differenze si può benissimo immaginare - e non è difficile
farlo - un tipo di strategia dello sganciamento, non
nel senso che ciascuna di queste regioni si diriga in pianeti differenti,
ma sganciamento
in rapporto alla mondializzazione capitalista attuale e,
quindi, negoziazione dei rapporti reciproci in termini finanziari,
economici, di cambi tra le valute, di tecnologia e ovviamente di
cultura.
Si potrebbe essere portati a pensare che la scelta strategica
sia tra due alternative
1.
Difendere lo stato nazionale capitalista così comè - cioè
difendere lo stato senza condizioni - dalla mondializzazione che
lo minaccia, oppre alternativamente
2.
Accettare che la mondializzazione operi lo smembramento e la sparizione
di questo stato, la sua distruzione su base etnica, religiosa, linguistica
ecc, attraverso la privatizzazione di tutta una serie di funzioni
che sono state svolte prevalentemente dallo stato.
In
realtà porre il problema nei termini di questa alternativa non mi
pare il modo più efficace di discutere di strategie alternative.
Si tratta invece di portare la lotta - nel quadro ed in nome delle diversità, della democrazia,
del rispetto delle diversità - ed
il confronto su un terreno mondializzato, sulla base del conflitto
di classe, della lotta delle comunità locali, dei movimenti ecologisti
ecc. Bisogna contribuire
a costruire un altro tipo di stato, il più democratico possibile,
profondamente rispettoso di tutte le differenze reali, ma che sia
comunque uno stato forte, capace
cioè di costruire una mondializzazione a propria misura e non
uno stato che sia costretto ad accettare quanto impostogli dalla
mondializzazione. Uno stato che sia capace di fare questo ha bisogno
di essere relativamente grande e questo pone immediatamente la questione
dei processi di regionalizzazione.
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