«Appunti
per un pensiero comunitario»
Prefazione
Padre Alex Zanotelli
Africa usa e getta: condizioni
economico-sociali dell'Africa e consumismo occidentale
1. I volti dell'Africa
2. Il sistema dell'apartheid economica
3. Che fare?
Alberto Castagnola
Prospettive dell'economia
internazionale
1. Il mito dello sviluppo
2. Vecchi e nuovi meccanismi del sottosviluppo
3. Le prospettive dell'economia internazionale
APPENDICE
Giovanni Mazzetti
Oltre il Welfare: analisi
della crisi della società capitalistica contemporanea
1. La crisi e la sua natura
2. La Grande Crisi degli anni '30 e lo Stato
Sociale
3. La redistribuzione del lavoro
APPENDICE
Paolo Palazzi
Criteri di misurazione e prospettive
dello sviluppo
1. Sviluppo e crescita
2. Come misurare davvero lo sviluppo
3. Il rapporto fra popolazione e sviluppo
APPENDICE
Bruno Morandi
Ipotesi per un'alternativa
Premessa
1. Le scelte produttive alternative
2. Come lavorare?
3. Redistribuzione del lavoro
4. Nesso tra le trasformazioni su grande scala
e le trasformazioni su piccola scala
5. Come incidere su larga scala: la crisi delle
istituzioni pubbliche
Fabio Petri
Teorie economiche alternative: implicazioni per
la politica economica
Premessa
1. Le linee fondamentali della teoria classica
e della teoria marginalista
2. Le differenze: due diverse visioni della società
3. La solidità scientifica delle due teorie economiche
4. Le risposte ai problemi del debito pubblico
e della disoccupazione
Mario Pianta
Riconversione industriale e modelli di sviluppo
1. La guerra fredda: i tre mondi
2. Il muro Nord-Sud
APPENDICE
Augusto Graziani
La teoria della moneta: teoria dei mercati o
teoria del potere?
1. Le teorie della moneta
2. La creazione e la distribuzione iniziale della
moneta
3. La sovranità delle imprese
APPENDICE
Antonino Colajanni
La cooperazione Internazionale
1. Gli interessi che stanno dietro la cooperazione
2. Lo scricchiolio dell'ideologia dello sviluppo
3. L'analisi a livello delle comunità
APPENDICE
Daniele Archibugi
Democrazia alle Nazioni Unite
1. La democrazia: le ipocrisie del sistema delle
Nazioni Unite
2. Per la riforma delle Nazioni Unite
Questo volume è il risultato di un lavoro che ha impegnato
l'associazione Oltre
l'Occidente per un periodo
di quasi tre anni, nel corso dei quali abbiamo tentato di tenere
viva l'attenzione e di comprendere meglio i temi più scottanti
che la nostra epoca, quella del predominio dell'economia su ogni
cosa, ci ha in qualche misura imposto.
Tuttavia ci pare di essere sfuggiti al rischio che l'attenzione
ai temi dell'economia si tramutasse nella formulazione di un pensare,
sia pure alternativo, che comunque considerasse la sfera dell'economico
come materia tecnica, in qualche modo autonoma, con sue regole
date e inviolabili, neutrali. Crediamo invece che l'approccio
risultante da questo volume sia interessante proprio perché riapre
la discussione su tutta una serie di aspetti che sono spesso assunti
come dati: chi decide che cosa produrre, chi determina quali bisogni
soddisfare, quali sono i soggetti che concretamente determinano
le scelte di fondo sulle prospettive di una società, in che modo
una ideologia - quella del pensiero
unico - è stata capace di
strutturare la nostra identità sociale, di farci percepire come
naturali e immodificabili una serie di rapporti e di forme delle
relazioni sociali. Abbiamo dunque impostato il lavoro con l'idea
che il sistema capitalistico, per dirla con Pietro Barcellona
, non sia soltanto un modo di produrre, ma sia soprattutto un modo di
pensare.
Dal 1994 l'associazione Oltre
l'Occidente, presso il proprio
Centro per la Pace, la Solidarietà, i Diritti Umani,
ha promosso degli incontri-seminario con studiosi, economisti,
sociologi, antropologi, che contribuissero ad aprire lo sguardo
sulla realtà, che avessero dimostrato il desiderio di analizzare
la realtà con altri occhi rispetto a quelli che la società mediatizzata
ci fornisce, che si fossero sforzati di diffondere un pensiero
critico. Questo libro comprende dunque gli atti di questi incontri-seminario,
che l'associazione ha accuratamente registrato, filmato, trascritto
- senza che i testi finali fossero rivisti dagli autori. Per correttezza
verso gli autori, va detto che in molti casi si è stabilito di
suddividere l'esposizione in paragrafi, per rendere più facile
la lettura nel passaggio da una forma colloquiale a quella scritta,
ma tale suddivisione è quasi completamente nostra: i titoli dei
paragrafi sono desunti dal contenuto, ma non vanno presi alla
lettera (anche se ad ogni relatore era stato indicato uno schema
generale dell'intervento da svolgere; in questo modo si è evitato
che ogni relatore dovesse rispiegare da zero una serie di argomenti,
magari affrontati diffusamente da altri, e si è permesso ad ogni
relatore di andare più in profondità sul tema da lui affrontato,
sapendo di non dover parlare di ogni cosa). In alcuni casi si
è ritenuto importante riportare - sotto la dicitura Appendice
- anche alcuni stralci della discussione con il pubblico, soprattutto
quando le domande rivolte coglievano dei punti chiave permettendo
al relatore un ulteriore approfondimento. E' evidente, comunque,
che qualsiasi errore è da imputare ai redattori.
Il lettore non troverà una visione unica della realtà:
su alcuni punti, anche di un certo rilievo, i relatori hanno esposto
posizioni differenti, o differenti interpretazioni dei fenomeni.
Riteniamo che questo sia un punto di forza del volume, che vuole
proseguire criticamente una discussione ed una analisi, senza
cadere nel «soluzionismo».
Gli interventi sono pubblicati nell'ordine cronologico
con cui si sono svolti gli incontri-seminario, con l'unica eccezione
di quello di Padre Alex Zanotelli. Alex è stato fra noi durante
un breve periodo di permanenza in Italia, prima di tornare nelle
baracche della periferia di Nairobi, dove vive. Il suo intervento,
per la carica di umanità, per la forza, per il coraggio, per la
passione e l'amore che ha trasmesso ai presenti all'incontro con
lui - e siamo sicuri anche oggi al lettore - è stato collocato
all'inizio di questo libro. Non si tratta del prologo ad una discesa
agli inferi. E' solo la testimonianza della forza di un uomo,
che ci vuol suggerire la forza dell'uomo.
Missionario comboniano
17/03/1996
Una delle cose più
difficili della mia vita è stata la fede: il tentare di credere.
Gli incontri mi sembrano paradossali. Nella mia vita gli incontri
mi hanno segnato sempre molto. Dagli incontri ho imparato molto.
Il titolo che avete scelto, «Usa
e getta», mi ha impressionato. E' solo per l'Africa che vale
questa espressione usa e
getta? In fondo anche noi siamo merce per la società. Sono
qui per ricordare i volti, i vostri, ma anche quelli delle vittime
di questo impero usa e getta.
A Korogocho, nei pressi
di Nairobi, su una collina a schiena d'asino della larghezza di
due chilometri e per una lunghezza di un chilometro e mezzo, sono
ammassati 100.000 abitanti. Le statistiche non servono a nulla:
un volto forse può darvi l'impressione di tutto. Il volto di una
ragazzina che si chiama Vangoi, per esempio, che ho conosciuto
quando assistevo la sorella malata di AIDS. Due sorelle in due
baracche da sole con una mamma alcolizzata. Ho aiutato la sorella
di Vangoi soprattutto spiritualmente, si è fatta anche battezzare.
Il penultimo giorno, quando abbiamo pregato insieme, c'era anche
il suo bimbo. Non ho mai sentito pregare così un bimbo il suo
"papà" perché salvi la sua mamma. E' morta mentre tentavano
di portarla in ospedale. Decisi quel giorno di andarla a seppellire:
non lo faccio mai, altrimenti dovrei fare solo quello per tutto
il giorno. L'ho fatto per un gesto di solidarietà per la sorella
di Vangoi.
C'è uno spaventoso
commercio a Nairobi sui morti. Ricordo che sono andato al cimitero
dei poveri a seppellire Guerim. Quel giorno Vangoi piangeva come
una bambina. A 16 anni lei era rimasta sola con cinque bambini
a carico - tre della sorella e due suoi - senza nessuno, da sola.
Piangeva. Guardate che i poveri non piangono, è raro, perché è
inutile che piangano. Questa ragazzina è tornata alla sua baracca
ed è andata avanti vendendo liquore, un liquore che è proibito
dal governo. La polizia l'ha dissanguata: volevano soldi, c'è
una corruzione totale. La conseguenza era facile da immaginare:
le sue bimbe scappavano in città ad elemosinare. Un giorno mi
vidi Vangoi arrivare nella mia baracca, piangeva come una bambina,
e mi diceva: «Alex, anche
oggi i miei bambini sono scappati di casa. Sono andati ad elemosinare
in città. Lungo la strada hanno incontrato una donna che gli ha
regalato 100 scellini, però ha chiesto di lasciare il bimbo più
piccolo con lei fino a sera. L'hanno lasciato. Quando son tornati
non hanno trovato nessuno. Né donna, né bimbo». E' chiaro,
c'è un grosso mercato di bambini a Nairobi. Vangoi diceva:
«Alex aiutami a recuperare
il mio bambino». Abbiamo tentato con la polizia, ma è inutile.
Vangoi tentava di sopravvivere
recuperando pezzi di carta. Li otteneva in città e li vendeva
a Korogocho, nei negozietti. Dopo un po' era difficile trovare
anche la carta e le era rimasta solo una cosa da fare: prostituirsi.
Vangoi non aveva mai voluto farlo, però non c'era altra via. Noi
facilmente giudichiamo queste persone come delle ragazzine immorali.
A Korogocho mi è crollato anche il mito della moralità. Guardate
che spesso la nostra è una moralità borghese. Noi additiamo queste
ragazzine come prostitute, ma siamo noi che le obblighiamo a prostituirsi,
perché non lasciamo loro altra strada. Noi no, noi invece siamo
a posto, noi siamo i puri. Vangoi è andata a prostituirsi nei
locali della città. Io venni a saperlo e quando passò per la mia
baracca le dissi: «Vangoi
perché vai a prostituirti in città?». E lei, molto dura con
me, piccolina, con un volto molto bello ma sempre triste, mi rispose:
«Alex, ma dimmi te come posso vivere, dimmelo».
A volte parlo con queste
ragazze del pericolo enorme dell'AIDS. Loro dicono: «Guarda
Alex, prendi un pezzo di carta, scrivici sopra 'morte per fame'
e 'morte per AIDS': l'una vale l'altra».
Ricordo che Vangoi
tornò dopo qualche mese incinta. Mi diceva: «Alex,
voglio abortire; se non posso mantenere i tre bambini che ho,
figuriamoci se posso permettermene un altro». Notate che dei
cinque bambini ne aveva ormai solo tre perché uno l'aveva perso,
mentre un altro era morto di AIDS. A volte Korogocho mi macera
dentro, non so che cosa fare, sono troppi i casi disperati come
questo. Poi un giorno mi sono precipitato nella sua baracca e
lei mi ha detto: «Benvenuto,
siediti». Mi sono seduto. Non sapevo se avesse poi abortito,
che cosa avesse fatto. Mi ha sorriso, e quando lei sorride mi
ricorda la Monna Lisa, ha un viso molto bello. E' andata a letto
a prendere un batuffolino e me l'ha portato. Era il suo bambino.
Un bimbo bellissimo; l'ho guardato, l'ho cullato: era il bambino
di un turista bianco. Mentre lo cullavo mi venivano in mente i
versetti di Tagore, poeta indiano: «Finché
nasce un bimbo, è segno che Dio non si è ancora stancato di noi
uomini«. Ho tentato di farle riprendere il lavoro della carta.
Non so se ce l'ha fatta. Non credo. Sono venuto via da Korogocho
e ricordo che due sere prima della mia partenza, nella notte,
mentre andavo a pregare per un malato, ho sentito dietro di me
una voce che mi diceva: «Alex,
te ne vai». Era Vangoi.
«Ritornerò»; «Ma tu
te ne vai!» ed io incautamente:
«Vangoi ti ho detto che ritorno». Lei ha tagliato giù per
le baracche e mi ha lanciato nella notte questo messaggio:
«Tu te ne vai ed io muoio». E' tutto qui. E' un volto: non
sono numeri, non sono statistiche.
Sono volti che mi toccano
dentro perché - vedete - è la mia gente. E' gente che mi tocca
dentro, che mi vuol bene, che mi ama, con la quale cammino. Con
la quale sbatto la testa contro i muri... non ci sono soluzioni.
Non potete far niente. Il dramma è tutto qui. Sono volti come
i nostri.
Korogocho è una delle
tante baraccopoli di Nairobi, capitale del Kenya, bellissima nazione
nell'Africa Orientale. Il Kenya è davvero bello, con questi laghi;
e Nairobi è altrettanto bella. E' stata costruita dagli inglesi
a 100 metri sulle colline. Una bellezza tutta sua, come una città
del sole, con un'eterna primavera. Per
chi sta bene Nairobi è un paradiso terrestre.
Io non ho bisogno di
venire qui da voi a puntare il dito sul Nord: sono balle. Il Nord
io me lo trovo a tre chilometri di distanza da Korogocho. Dobbiamo
purificare il nostro vocabolario. Penso che essenzialmente c'è
un solo vocabolo che regge. Nord
e Sud sono ormai vocaboli che non hanno più senso. C'è un'unica terra
e c'è una forbice che si divide sempre più tra ricchi e impoveriti
- non semplicemente poveri . C'è un unico linguaggio per guarire.
Cooperazione ormai è
solo una parola oscena e
solidarietà, usata dalle destre sempre più, non è molto simpatica.
Penso
che ormai si possa parlare solo di giustizia, o meglio,
con un termine usato anche dal Papa prima del sinodo africano
- e ne sono rimasto sorpreso - di
restituzione.
E' forse l'unico vocabolo che tiene.
Nairobi è una città
ricca, è la città dei volti neri al potere, legati da totale corruzione
al mondo indiano che controlla ormai l'80% del commercio di Nairobi,
è una città che vive in un lusso sfrenato, e di fianco, accanto
a questo lusso, ha dei veri e propri inferni umani. Vi darò delle
statistiche: non sono statistiche né mie né del governo kenyano,
sono statistiche attendibili perché vengono dall'ambasciata americana.
Sono state ottenute fotografando Nairobi pezzo per pezzo con un
elicottero e sono state pubblicate.
Queste statistiche
dicono che il 60% della popolazione di Nairobi vive in baracche.
Pensate, il sindaco di Nairobi ammette che ci sono circa 3 milioni
di persone a Nairobi. Provate a pensare che tra 20 anni si raggiungeranno
i 18 milioni di abitanti. Capite l'Africa dove sta andando? Il
60 % significa che 1 milione e 800.000 persone vivono in baracche.
La cosa incredibile è che le baracche sono accatastate nell'1%
della terra disponibile a Nairobi, e di terra Nairobi ne ha a
non finire.
Questo 1% di terra
non appartiene ai baraccati, magari fosse così! Quando il governo
vuole, arriva con 24 ore di preavviso, con le ruspe - che montano
le mitragliatrici dietro - e spiana. E butta i poveri più in là.
Un'altra cosa, ancora
più sconcertante, è che l'80% di chi vive in baracca non la possiede
nemmeno: paga l'affitto per la baracca. La baracca costa: calcoliamo
che almeno 1/4 dell'entrata familiare va via per pagare la baracca.
Questo è il vero problema: è una situazione di degrado totale.
Provate a pensare al
problema dell'AIDS. Oggi tutti riconoscono che nelle baraccopoli
di Nairobi già il 50% della popolazione è sieropositiva. Si tratta
di gironi danteschi. Il più grande giornale del Kenya, di proprietà
dei ricchi, ha definito Nairobi un sistema di apartheid economica. E' forse l'unica definizione azzeccata. Guardate
che in piccolo Nairobi è il paradigma dell'apartheid economica
mondiale: non c'è nessuna differenza.
A livello globale avete
il 20% del mondo che detiene l'80% delle risorse della terra,
che le sperpera in barba ai 2/3 dell'umanità (che diventa sempre
più povera). E' un sistema di apartheid economica, la peggiore
che esista, peggiore di quella razzista.
In fondo Korogocho
è l'emblema di questa Africa usa
e getta, l'emblema di una situazione incredibile: dell'Africa
non interessa più a nessuno. E' difficile trovare una notizia
di questo continente sui vostri giornali. L'Africa rappresenta
il 2% dell'economia mondiale, cioè del prodotto globale lordo.
La cosa importante
forse è che da queste macerie sta sorgendo una economia che guarda
più ai bisogni della gente che a quelli del mercato. Nigeria,
Zaire, sul piano internazionale sono crollate e ormai la loro
economia si rivolge di più alle esigenze della popolazione. E
forse questo fa ben sperare per il futuro perché è
proprio questo essere inseriti in un mercato globale che porta
alla rovina e uccide moltissime realtà.
La situazione politica
è facilmente immaginabile se pensate a che cosa è successo in
Ruanda, Somalia, Burundi, Liberia: è una situazione da guerra,
disastrosa.
E pensate alle armi
che l'Italia ha esportato in questo continente. La politica italiana
pensava di fare cooperazione con 1900 miliardi all'anno e nello
stesso tempo esportava 5000 miliardi all'anno in armi. Si cercava
di curare con 1900 miliardi la fame che era provocata dalla stessa
esportazione delle armi. Bisogna essere ipocriti.
Fino
a ieri i poveri servivano almeno per essere sfruttati: oggi non
servono neanche più a quello. Quest'Africa non è neanche 'usa
e getta': 'usa' si può anche togliere.
Voi sapete che io sono
un missionario silurato dalla redazione di Nigrizia
per quello che ho detto e fatto, ma questo non è importante, perché
io da sempre ho sognato un'immersione radicale tra la gente che
soffre, ne sentivo il bisogno, per diventare prima di tutto io
un uomo; un battesimo tra i poveri, un'immersione con i poveri.
Abbiamo anche noi una baracca, mangiamo quello che mangiano loro,
beviamo quello che bevono, siamo esposti alla violenza. E' solo
quando vivo queste cose che sento qualcosa dentro. Siamo un gruppo
che tenta di camminare con questa gente, che solo così può vedere
il volto di Vangoi.
C'è una discarica dinanzi
a Korogocho e qui ogni giorno centinaia di camion vengono a scaricare
ed ogni giorno centinaia di migliaia di persone vanno lì a cercare
tappi di bottiglia, carta, plastica, per rivenderli. Questa gente
emarginata, è presa a calci dai poveri stessi. Per favore non
dite che i poveri sono solidali tra di loro. E' stato il marxismo
a dire che i poveri sono buoni e i ricchi cattivi: non è vero.
Se c'è questo Dio è il loro Dio, non perché i poveri sono più
buoni, ma perché Dio è Dio.
Un altro dramma di
Nairobi sono i ragazzi di strada: a Nairobi sono minimo 30mila.
Sono disprezzati, presi in giro, con le loro bottigliette di colla
che usano per tirar via gli stimoli della fame. Sapete che la
colla rovina le cellule del cervello e quindi ci sono bambini
di 7-8 anni totalmente ebeti.
Se nascete donna a
Korogocho avete una sola via per sopravvivere: quella della prostituzione.
Con tutto quello che ciò comporta per queste ragazze: disprezzo,
violenza, turbe psichiche.
I malati di AIDS: se
considerate che per il 60-70% i nuclei familiari sono formati
da donne senza marito, provate a pensare che cosa succede se sono
anche malate di AIDS. Ecco, a questo gruppo di emarginati siamo
stati particolarmente vicini, facendo quasi nulla, ma dando dei
piccoli segni di speranza alla gente della discarica. Estrema
ricchezza ed estrema povertà portano ad estremo individualismo,
per questo a Korogocho non esiste una vera comunità.
Quello che riusciamo
a fare è grazie ad una piccola comunità cristiana. Abbiamo cominciato
con 40 uomini (le donne erano indesiderate), tutti ubriachi, a
leggere il Vangelo e a commentarlo. Oggi si sono costituiti in
cooperativa e riescono a fare un'economia alternativa lavorando
sul riciclato. La cooperativa fa lavorare la gente del posto,
i prodotti sono venduti ad un prezzo maggiorato e i profitti vengono
ripartiti tra tante persone. Soprattutto riescono a capire il
valore sociale del denaro.
Abbiamo insistito per
far specializzare una ragazza che ora lavora nella cooperativa
come infermiera. Gli ospedali di Nairobi infatti non fanno una
raccolta differenziata dei rifiuti, quindi alla discarica arrivano
siringhe sporche di sangue che possono infettare quelli che lavorano
nella cooperativa.
Ecco i piccoli passi
che stiamo facendo: le ragazze prostitute si sono costituite in
comunità (cosa difficilissima da fare per la violenza e la rabbia
che si portano dentro). Sono 50-60 ragazze che vendono collane,
per cercare di uscire dal giro della prostituzione. Alcune hanno
cercato adesso di vendere patate. Ci sono insomma vari tentativi.
Infine i malati: ai
malati di AIDS va la maggior parte del nostro tempo, cosa che
può sembrare strana in una società come la nostra dove tu vali
per quanto produci. Vuole
essere un gesto di tenerezza: se Dio c'è è il Dio di questa gente.
Alla sera ad esempio celebriamo la messa in una baracca, assieme
a 20-30 persone della comunità cristiana. Ed io con la mia fede
sento il mistero quando celebro: queste persone non sono oggetto
di carità, sono il soggetto. E' sconvolgente, non lo capisci.
Ricordo che Florence, una ragazzina che aveva 16 anni quando è
morta di AIDS, aveva iniziato a prostituirsi a 11 sui marciapiedi
di Nairobi e a 15 anni aveva già l'AIDS. Pochi giorni prima di
morire andai a parlarle. L'aveva abbandonata anche la madre pochi
giorni prima; era sola e le portai la mia compagnia. Aveva il
volto tutto scarnificato, le chiesi: «Florence
ma chi è il volto di Dio per te oggi?». Dopo un momento di
silenzio il suo viso si aprì in un sorriso e mi disse: «Sono
io il volto di Dio». Ecco il mistero.
I poveri sono schiacciati
da un mondo economico che sfavorisce sempre di più i 2/3 dell'umanità.
E' come una forbice che si allarga sempre più, c'è un muro che
divide sempre più nettamente i ricchi dai poveri.... anzi dagli
impoveriti. Saprete che la Banca Mondiale (dora
in poi BM
, N.d.R.) dice che al mondo ci sono 1 miliardo e 150 milioni di Vangoi
che non hanno futuro. Né lavoro, né assistenza medica, nulla:
sono arretrati. Di questi,
40 milioni all'anno muoiono di fame. Non c'è nulla da fare, non
sono più neanche buoni per essere sfruttati.
Capite come io senta l'obbligo di dire che questo è un sistema immorale
ed ingiusto.
Siccome mi colloco
nella categoria dei credenti che appartengono alla tradizione
biblica del Dio di Mosè, dei profeti, di Gesù, che dice che Dio
sta con gli oppressi, con gli schiavi, coi diseredati, io mi sento
obbligato a dire che questo sistema è immorale, di peccato. San
Paolo diceva che il peccato porta alla morte: più morte di così
dove la trovate?
Qualche giorno fa parlavo
con il giudice Caselli
e gli ho chiesto: «Voi
vi battete ogni giorno per arrestare i malviventi, combattete
la mafia. Benissimo. Ma chi porterà in tribunale i responsabili
di questo crimine all'umanità, del sistema economico? Chi? In
nome di quale legge? Chi fa le leggi a questo mondo?». Sono
domande che rimangono aperte.
Per me il sistema,
questo apartheid del sistema economico è costituito da 3 poli fondamentali:
il polo economico (dire finanziario è meglio), il polo militare,
il polo dei mass-media. Ed io, se permettete, questi fatti li
osservo dalla prospettiva di Korogocho e non voglio essere neutrale.
Non si può essere neutrali nell'analizzare qualcosa. Lo stesso
Vangelo: se io lo leggo a Korogocho ha un senso, se lo leggo in
un bel salotto ne ha un altro. Io voglio essere di parte nel commentare
questi fenomeni.
Il polo economico
- finanziario.
Se voi credete, andando
a votare il 21 aprile [siamo nel 1996, l'anno dell'Ulivo
N.d.R.], di eleggere
coloro che decideranno il vostro futuro siete degli emeriti illusi.
Non sono i politici a decidere il futuro di tutti, ma l'economia.
Ormai parliamo di primato dell'economia, la quale decide tutto,
ma proprio tutto. Meno male che è caduto il marxismo altrimenti
qualcuno sarebbe qui a dire che Zanotelli è marxista. Bisogna
essere ciechi per non vedere quello che accade. I politici sono
i burattini di turno che servono per farci digerire ora la stangata,
ora la stangatina dell'economia. Lo Stato non riesce a controllare
più questo mondo virtuale fatto di carta: i miliardi si spostano
da una parte all'altra e decidono tutto.
Il polo militare.
Dopo il crollo del
muro di Berlino sembra quasi che ci sia una ricaduta di attenzione
sul mondo militare. State attenti, non è uno scherzo. Se voi pensate
che le armi e l'esercito italiano servano per difendere il territorio
nazionale, siete degli emeriti illusi. Le armi servono solo per
mantenere sfruttamento e ricchezza, punto. L'economia è strettamente
legata al militare: oggi è difficile persino separarli. Pensate
che il 50% di tutta la ricerca, anche nelle università, è la ricerca
militare. E da qui capite alcune cose.
State attenti in chiave
italiana, per favore: è questo il vero governo di questo Paese.
Riflettete: in questi ultimi venti anni di storia italiana, chi
è che ha comandato? I governi che avete eletto? Anche in Italia
c'è un connubio fra economia, forze economiche, forze militari
coperte dai Servizi segreti, coperte dalle logge. Noi a Nigrizia
avevamo già intravisto qualcosa di Mani Pulite nell'85-'86, guardando
semplicemente la cooperazione. Ma c'è anche un'altra cosa: io
avevo affermato che il minimo che andava ai partiti in tangenti
sulle armi era il 10%. Non avete idea di quanti soldi ha fatto
l'Italia dall'80 al '90 sul traffico di armi. I soldi usati per
fare politica in questo Paese venivano dai proventi delle armi.
E tutto questo è coperto dai servizi segreti.
Io vedo pochissima
gente che reagisce a questo livello. Perché non protestate sul
fatto che hanno tagliato le vostre spese sociali, che hanno aumentato
il bilancio della difesa? Sapete che è passato da 25.000 miliardi
a 31.000 miliardi? Per fare che cosa?
Vi faranno ingoiare
il nuovo modello di difesa, per cui arriverete ad avere un esercito
di professionisti, ed in un momento in cui si parla di uomini
forti in questo Paese. E voi sapete che tipo di combinazione danno
un esercito di professionisti e uomini forti. Non prendetevi in
giro per favore. Tenete su la guardia sul fattore militare.
Il polo dei mass
media.
Il sistema economico
militare non si reggerebbe in piedi se non si desse quella facciata
bellissima che si dà con i mass media, che in Italia sono tutti
controllati da due grossi complessi economici. Negli USA, dove
si parla tanto di libertà, tutto è controllato da circa 10 grossi
complessi industriali.
I mass media servono
principalmente a due scopi:
1. Crearci l'ideologia
che questo è l'unico sistema possibile. Tenete presente che nessun
impero sta in piedi senza un'ideologia.
2. Renderci dei tubi
digerenti: produciamo, dobbiamo consumare e ci fanno consumare.
Ho comprato l'altro
giorno ad Assisi questo testo bellissimo, «Cristiani
in una società consumistica». Ascoltate quello che dice sulla
televisione: «Si calcola
che l'americano medio guardi la televisione almeno 26 ore alla
settimana, pari a 13 anni continui della nostra vita media, 13
anni passati davanti al televisore. Dato che la pubblicità occupa
circa il 27% della fascia oraria di maggiore ascolto, potenzialmente
potremmo trascorrere l'equivalente di tre interi anni della nostra
vita guardando unicamente pubblicità. Il suo implacabile messaggio
aggredisce l'autostima e la percezione di milioni di persone».
Qui capite quanto sia importante per il sistema la comunicazione
attraverso i mass media. «La
costrizione al consumo è diventata per noi tanto profonda quanto
il bisogno di sopravvivere, perché il modello consumistico rivela
che il nostro stesso essere è valutabile unicamente in termini
di ciò che possediamo».
Noi siamo solo finché
possediamo, siamo ciò che
possediamo. Di conseguenza siamo posseduti da ciò che possediamo,
prodotti dei nostri prodotti,
fatti a immagine e somiglianza della nostra stessa merce,
come dei veri e propri beni di consumo. L'idolatria esige da noi
il suo pieno prezzo, siamo derubati della nostra stessa umanità.
L'espressione "Usa e getta" non è solo per l'Africa,
è per noi. Questo
sistema ci rende merce. Siamo rifatti a immagine e somiglianza
non più del mistero, ma della nostra merce. Diventiamo cose, perché
adoriamo la cosa. E allora capite tutto il degrado sociale, umanitario,
personale. E' un sistema che ci deruba della nostra umanità, e
tutto il resto poi in conseguenza, fino alle assurdità che vedete:
mi hanno detto che in Emilia Romagna stanno spendendo miliardi
per comprare ansiolitici. E' follia collettiva la nostra.
Stiamo andando verso
la morte caotica. Gli scienziati americani dicono che se non cambieremo
direzione in 50-60 anni avremo già inquinate le falde ecologiche,
in maniera tale che le future generazioni non potranno più sopravvivere.
Il 20% del mondo ha fatto questo scempio. Provate a pensare se
l'altro 80% del mondo dovesse vivere come viviamo noi che cosa
succederebbe. La FIAT sta aprendo le sue fabbriche in Cina: pensate
che cosa succederà se tra qualche anno invece di un miliardo di
biciclette avremo un miliardo di macchine FIAT.
Questo sistema non
è più esportabile, non ha futuro. Gandhi
l'aveva espresso in una frase
lapidaria nel '38, prima dell'indipendenza dell'India, quando
un giornalista inglese gli aveva chiesto: «Mahatma,
quando avrai ottenuto l'indipendenza dell'India riuscirai a portare
l'India allo stesso livello economico dell'Inghilterra?»,
e Gandhi gli aveva risposto: «Se
ci son volute metà delle risorse di questo mondo per fare arrivare
l'Inghilterra lì dove è arrivata, di quanti mondi avrà bisogno
l'India per arrivare lì dove è arrivata l'Inghilterra?». Il
problema è tutto qui.
Questo
sistema deve essere radicalmente rimesso in discussione. Basta
ragionare un attimo, aprire gli occhi, guardarsi attorno. Voi
mi chiederete: «Che cos'è che posso fare?». Permettetemi alcune osservazioni.
Ritorno ai vostri volti,
sono partito dai volti, vi ho descritto il volto di una vittima
del sistema, ora ritorno ai vostri volti. Ognuno di voi è unico
e irripetibile. Per favore smettetela di andare in giro a dire:
«E' colpa di Dini
, è colpa di Maccanico
...». E'
colpa nostra, di ognuno di noi, di ognuno di voi. Se abbiamo il
sistema che abbiamo è perché noi lo vogliamo e se avete i partiti
che avete è perché voi li volete, voi li votate. E' inutile che
ci prendiamo in giro, che piangiamo lacrime.
Ognuno di voi ha una
potenzialità immensa, proprio perché è unico e irripetibile. Io
non dimenticherò mai la frase di Martin Niemöller
, uno dei grandi della Resistenza contro il nazismo, il quale, uscito
dal campo di concentramento di Dakau, rispose in questo modo ai giornalisti che gli chiedevano che cosa pensasse dei
tedeschi: «Siamo tutti colpevoli,
tutti». Era lo stesso Martin che aveva detto: «Quando
la GESTAPO è arrivata per arrestare i sindacalisti io non ho parlato,
perché non ero un sindacalista; quando la GESTAPO è arrivata per
arrestare i comunisti io non ho parlato, perché non ero comunista;
quando sono arrivati per arrestare i cattolici io non ho parlato,
perché non ero cattolico; quando infine sono arrivati per arrestare
me non era rimasto più nessuno che potesse parlare». E' tutto
qui.
Mi appello ad ognuno
di voi. Io davvero credo che il più grande peccato, dopo l'idolatria,
in questa società, sia quello dell'impotenza e del sistema che
vi rende impotenti. Smettiamola di dire che non possiamo farci
nulla, perché possiamo far tutto, è questione di rimetterci in
piedi e di sentire che abbiamo una potenzialità fra le mani. Gandhi
la chiamava la
forza della verità, Gesù la chiamava la
forza dell'amore: è la stessa cosa.
Prima di tutto vorrei
chiedervi una cosa. Sia che siate non credenti o che siate credenti,
coniugate
i vostri valori - o i valori del Vangelo per i credenti
- con
le vostre scelte economiche. Trovo incredibile trovarmi
ancora davanti ad una Chiesa che non sia capace di aiutare la
gente a coniugare il Vangelo con l'economia.
Vorrei attirare la
vostra attenzione su alcuni importanti elementi di speranza e
di cambiamento che si stanno diffondendo in Italia.
In questi giorni
è nata la Banca Etica
, è importante. Io penso che sarebbe importantissimo diffonderla. La Banca
Etica vi permette per la prima volta di coniugare banca ed etica.
Voi non sapete come vengono utilizzati i vostri risparmi. Smettetela
di dire che non potete farci nulla, non è vero. La Banca Etica
vi offre la possibilità di depositare dei soldi e di scegliere
il campo in cui devono essere investiti. E' una banca come qualsiasi
altra, non rompe con la logica del sistema, ma offre la possibilità
del controllo dei propri risparmi. E' già un primo passo importantissimo,
guai se fallisce.
C'è il commercio
equo e solidale, che
permette di coniugare i valori con il commercio, che oggi schiaccia
i poveri.
C'è poi un testo
che è uscito in questi giorni, Guida
al consumo critico. Lo stavamo aspettando da lungo tempo.
E qui avete per la prima volta in Italia notizie precise su tutti
i prodotti: pane, crackers, prodotti per la colazione, prodotti
conservati ecc. In Italia mangiamo ogni anno 12 chili di biscotti
a testa e consumiamo più merendine d'Europa, con 60 pezzi all'anno
pro capite, pari a quasi 2 chili e mezzo. Questo libro vi indica,
per ogni prodotto, tutte le notizie sulle compagnie che lo producono.
Voi saprete, quando andrete a comprare un prodotto, quale compagnia
produce il prodotto, chi ne è il proprietario, come paga gli operai,
se accetta l'esistenza dei sindacati, se non la accetta e così
via. Alla fine arrivate alla possibilità di formulare un giudizio
critico su quello che comprate. Oggi bisogna dire 'Consumatori,
unitevi'. I consumatori hanno una forza incredibile. Il colosso
contro cui combattiamo, io lo chiamo il Golia
imperiale, ha i piedi d'argilla.
Sta uscendo
in questi giorni il testo degli scienziati di Wuppertal
, che
hanno prodotto un rapporto in cui chiedono al popolo tedesco,
se vuole sopravvivere, di ridurre i propri consumi di energia
nei prossimi 50 anni...del 90%.
I
beati costruttori di pace hanno lanciato la campagna 'Bilanci
di giustizia', che è fatto per le famiglie che vogliano controllare
i propri consumi.
Questo dovrebbe portarvi
ormai ad un ragionamento su quello che potete fare. Questi discorsi
devono entrare nei consigli comunali, devono essere fatti nel
concreto della vita, ormai è questione di vita o di morte. Vedete
quante possibilità avete di incominciare a creare una mentalità
nuova. Si tratta davvero di una mentalità radicalmente nuova che
dobbiamo assumere, non si può più andare avanti in questa maniera.
Vi ho sottolineato
il primato dell'economico e del militare. Noi abbiamo ceduto sul
militare. Io rimango esterrefatto perché le chiese non sono ancora
riuscite a ritornare al principio fondante del Vangelo, che è
la nonviolenza. La violenza potrebbe diventare apocalittica ormai,
il gene della violenza ci è sfuggito dalla bottiglia. E' assurdo
che ci siano ancora ragazzi che vadano a fare il servizio militare:
dovrebbe diventare dovere di tutti, ragazzi e ragazze, fare un
anno a favore della comunità. Il Lazio è una regione in cui l'anno
di volontariato sociale non è decollato per nulla. Perché? Sono
queste le iniziative che devono decollare.
I mass media. C'è ancora
parecchia stampa alternativa in Italia: leggetela, fate girare
informazioni alternative, intervenite ovunque dove potete, diffondere
queste informazioni, sulle vostre radio locali, scrivendo ai giornali,
protestando. Rendetevi soggetti attivi.
E' incredibile la potenza
del mezzo televisivo: voi votate anche con il telecomando. E'
molto importante il digiuno televisivo. Avete delle possibilità
enormi.
Permettetemi una parola,
data l'importanza del momento politico che viviamo, sulla politica.
Guardate che il momento che viviamo è un momento molto grave,
e si potrebbe andare in tutte le direzioni. Ho parlato con molta
gente in Italia e davvero sembra che la situazione sia molto delicata,
per cui, per favore, state attenti. Proprio perché vi ho detto
che l'economico predomina, decide quasi tutto, questo non vuol
dire che dovete lasciare la politica. Vuol
dire che dobbiamo inventare una nuova maniera di fare politica.
Dobbiamo guardare in avanti: questo richiederà un grosso sforzo.
L'intervento del cardinale
Martini
per S.Ambrogio era ottimo,
soprattutto quando
affermava: «non è in gioco
la libertà della chiesa, è in gioco la libertà dell'uomo, in Italia
non è in gioco il futuro della chiesa, è in gioco il futuro della
democrazia» E' vero: c'è un tempo per tacere e un tempo per
parlare. E' giunto il tempo per parlare, per tutti. Dobbiamo tutti
costituirci in soggetti politici, l'uomo è essenzialmente un animale
politico, per cui ognuno deve dire quello che pensa.
Permettetemi due parole
sul giro che sto facendo in Italia: girando mi sto rendendo conto
di una cosa molto bella, e cioè che ovunque in questo Paese trovo
gente sana, tanta. E' una minoranza, ma è una minoranza consistente.
C'è della gente, anche nel cuore del potere, che sta ripensando
un po' a tutto. Poi c'è una realtà di base veramente bella in
Italia: la tragedia di tutta questa bellezza che sta alla base
è che nulla di tutto questo viene a galla, è tutto sommerso. In
chiave regionale bisogna cercare una via per far emergere quello
che c'è alla base. Questo tipo di sistema non è uno scherzo, da
soli non resistete più. Se voi pensate di fare resistenza dentro
questo sistema da soli dimenticatelo. Se siete non credenti costituitevi
in un gruppetto che rifletta; se siete credenti, vi collocate
entro l'alveo ecclesiale, costituitevi in piccole comunità di
base, con il primato della parola. La parola fa la comunità. Abbiamo
bisogno tutti di relazioni umane vere, autentiche, che potete
avere solo in una comunità. La parola vi porta all'analisi sociale
e vi porta all'impegno. Anche l'impegno per favore non disperdetelo
su tutti i fronti: ogni piccolo gruppo dovrebbe lavorare su un
piccolo impegno e poi connettersi. E' la lezione che viene dal
Nord America, dalle comunità di resistenza nel cuore dell'impero.
Un
aspetto fondamentale è legare il personale con il sociale.
I credenti hanno gioito quando è caduto l'Est. Il marxismo ha
sempre affermato che sono le strutture, è la società che fa l'uomo;
cambiate le strutture l'uomo cambia. All'Est hanno provato a cambiare
le strutture, ma l'uomo non è cambiato. I credenti hanno sempre
detto invece che cambia l'uomo e cambia la società. E' avvenuto?
No. Secondo me sta qui il cuore del problema: a livello cristiano
l'importanza non si dà alla persona, e qui penso che c'è una grossa
intuizione. Mi ricordo il mio dialogo con Curcio quando era in
carcere nel '91. Nel colloquio mi disse una frase bellissima:
«Lo sbaglio che noi abbiamo
fatto è quello di credere alla verità di Machiavelli
, che il fine giustifica i mezzi. Oggi sono arrivato ad una sola conclusione:
che ogni uomo, ogni donna è fine a se stesso e che io non posso
usare nessuno per qualsiasi altra cosa, per quanto nobile possa
essere».
E questa è l'intuizione di fondo cristiana: il volto, unico e
irripetibile. Nessuno può essere usato per qualcosa d'altro, per
cui se dobbiamo cambiare, è la persona che deve cambiare. Quindi
l'appello va alla persona.
Il Cristianesimo in
venti secoli ha cambiato profondamente gli uomini, però l'esperienza
cristiana non è stata capace in venti secoli di trasformare una
società con la logica del Vangelo, mai. Queste due intuizioni
hanno due grosse verità: la conversione deve avvenire in chiave
personale, è la persona che deve convertirsi, ma man mano che
la persona si converte dovrà capire che se non trasforma la struttura
sociale, politica, economica che gli sta attorno, la struttura
economica lo riporterà ad essere quel 'pagano' che era prima.
Guardate che queste due dinamiche sono fondamentali se volete
lavorare. Se non riusciamo a coniugarle non c'è nulla da fare.
Molta della spiritualità presente oggi nella Chiesa è una spiritualità
intimistica e schizofrenica.
Un altro invito è rivolto
al mondo femminile. Questo sistema di morte è un sistema maschilista,
legato al militarismo, legato all'economicismo che ci porta alla
morte. A voi donne chiedo di non vendervi a questo sistema. Voi
donne avete tre grossi valori: l'amore per la vita, la nonviolenza
e la tenerezza. Fate che questi principi, queste realtà fondamentali
diventino maggioritarie. E allora capite Balducci
, quando diceva che doveva nascere un uomo geneticamente nuovo, l'uomo
planetario. Quest'uomo planetario doveva essere in buona parte
più donna che maschio. Voi donne avete fra le mani qualcosa di
estremamente importante da portare avanti e vi chiedo davvero
che abbiate il coraggio di farlo, perché questa è la vera rivoluzione.
Concluderò con le parole
di un padre gesuita, ucciso in Salvador: «In
El Salvador anche l'estrema destra è arrivata nel suo complesso
a riconoscere che il problema principale del Paese non è la povertà,
ma la miseria, la quale colpisce più del 60% della popolazione.
Questo accade oggi a soli pochi chilometri da quello che è il
cuore stesso del capitalismo internazionale, gli USA». A ben
pensarci si tratta di una delle migliori constatazioni di che
cosa sia capace di offrire la civiltà del capitale. «Per
quanto possa continuare a concepire se stessa come civiltà cristiana
dell'occidente e modello di vita democratica, in realtà la verità
è tutto il contrario: non è civiltà cristiana, dal momento che
non si limita a convivere in maniera tranquilla con una molteplicità
di forme di povertà e di sfruttamento degli altri, ma ne è addirittura
la stessa causa. E non è un modello di vita democratica, dal momento
che non rispetta la volontà maggioritaria dell'umanità, né la
sovranità delle altre nazioni, né i dettami largamente maggioritari
delle Nazioni Unite o le sentenze del tribunale dell'Aia. E' a
partire da questa situazione che noi vogliamo contribuire, con
il nostro iter insieme a molti altri uomini della terra e a molti
altri popoli, all'edificazione di una civiltà realmente universale
e questa, lo comprendiamo assai chiaramente, non può essere altro
che la civiltà del lavoro».
Non la civiltà del
virtuale, ma la civiltà del lavoro, una civiltà della povertà,
che si contrapponga a quella civiltà della ricchezza che sta portando
il mondo alla propria consunzione, senza peraltro conseguire lo
scopo di dare agli uomini la felicità che loro spetta. Magari
il 20% del mondo fosse felice. Se la felicità è quella che vedo
in giro per l'Italia...Io affido a voi e ai vostri volti questo
impegno; io ritornerò nei sotterranei dell'impero a fare due cose:
ad aiutare la gente a morire e ad iniziare la lotta per la terra.
Voi sapete che chi tocca l'idolo poi muore: o ci sbatteranno fuori
o ci spareranno dentro.
Non ci si guarda mai
per caso in volto. Vi chiedo di portare il mio volto dentro il
vostro e io porterò i vostri volti nei sotterranei della vita.
Datevi da fare perché davvero in questo mondo possa vincere la
vita.
Ricercatore presso
l'Istituto Superiore per la Programmazione Economica
10/11/1994
Il punto dal quale
si può partire è questo: nel 1949 in un famoso discorso dell'allora
presidente americano Truman
(in particolare nel punto
4 di questo discorso) c'era un'affermazione molto importante:
abbiamo già oggi a disposizione tutte le conoscenze scientifiche
e i mezzi finanziari per permettere ai paesi arretrati di uscire
dalla loro situazione. Quindi c'era un'orgogliosa affermazione
di possibilità/capacità di lotta a quello che poi verrà chiamato
sottosviluppo. E stiamo
parlando del 1949. Dal 1950 in poi cominciarono una serie di iniziative
(l'attività del'ONU
- con tutte le sue agenzie, quindi ONU, FAO
, UNESCO
, UNICEF
, ecc. - è per oltre il 95% fatta di aiuti allo sviluppo; quindi in sostanza
il grosso dell'attività dell'ONU, con tutti i limiti che può avere
e le critiche che si possono fare, è diretta a realizzare iniziative
a favore dello sviluppo).
In realtà la situazione di oggi qual è? Dal 1990-91, cioè
con i dati che abbiamo cominciato ad analizzare in questi ultimissimi
anni, ci stiamo rendendo conto che la situazione di questi paesi
è per alcuni aspetti migliorata, mentre per altri è peggiorata
notevolmente; in ogni caso l'ipotesi di Truman
non si è verificata, cioè
il divario, la distanza tra i paesi industrializzati e i paesi
poveri, sottosviluppati, anziché ridursi sta aumentando. Quindi
un primo punto estremamente importante da tener presente è che
mentre noi ci riempiamo la bocca con tutte le valutazioni sugli
aiuti che inviamo, le collaborazioni, le iniziative ecc., poi
la realtà è che le due situazioni, cioè le situazioni dei paesi
già industrializzati e di quelli che stanno tentando di evolvere
in una maniera un po' più sana, continuano a divaricarsi, continuano
cioè a non andare insieme. Allora questa prima constatazione esige
che ci si renda conto di che cosa è successo in questi ultimi
50 anni.
Il primo punto da tenere
presente è il seguente: una delle acquisizioni culturali è che
ad esempio la stessa espressione «paesi arretrati» implicava una
valutazione importante. In sostanza si pensava: questi paesi sono
rimasti indietro su una certa strada in cima alla quale
ci sono i paesi industrializzati; noi dobbiamo aiutarli ad accelerare
il passo e a farci raggiungere. Quindi si pensava che fosse possibile
farsi raggiungere, cioè che questi paesi potessero recuperare
il tempo perduto, i passaggi non fatti, e che potessero avere
un modello di sviluppo
analogo a quello dei paesi industrializzati. Ed i passi in avanti
vennero fatti: nei primi anni '50 iniziarono ad essere pubblicati
libri molto interessanti sui problemi dello sviluppo, nei quali
si "facevano i calcoli", cioè si arrivava a prevedere
esattamente quanti miliardi di dollari si dovevano investire per
permettere a questi paesi di raggiungere i paesi industrializzati.
Dopo una decina - forse
una quindicina - di anni si è iniziato a comprendere che il problema
era molto più complicato, che i meccanismi in atto erano completamente
diversi da quelli che sarebbero dovuti essere e che molte delle
cose che si facevano per questi paesi erano sostanzialmente controproducenti,
cioè peggioravano la situazione e non la miglioravano. In più
c'è una seconda constatazione (e questa presa di coscienza è più
recente): molte delle analisi che venivano fatte negli anni '60
erano legate al concetto di colonialismo, cioè in sostanza si
diceva: «la situazione di arretratezza dipende dal fatto
che per oltre 150 anni questi paesi sono stati sotto il giogo
coloniale di paesi come la Francia, l'Inghilterra ecc. Il solo
fatto che fossero delle colonie ha fatto sì che le loro economie
fossero orientate in maniera non corretta dal punto di vista delle
loro popolazioni e quindi se riusciamo ad eliminare il colonialismo
possiamo passare ad un modello di evoluzione più libero, più indipendente».
Negli anni '60 molti dei paesi africani arrivarono all'indipendenza
politica, nel senso che sembravano aver intrapreso un percorso
di liberazione del loro sistema politico-economico dal rapporto
coloniale, in modo da iniziare una rincorsa per superare l'arretratezza.
Questa idea di collegare
quello che poi verrà chiamato
sottosviluppo al colonialismo ha però un difetto fondamentale:
se anche sono vere tutta una serie di analisi che fanno questo
collegamento, però c'è un difetto: queste interpretazioni fanno
sì che la situazione di sottosviluppo venga considerata come una
condizione storica, cioè "vecchia" di 100/150 anni.
Anche il lavoro che è stato fatto per esempio l'anno scorso e
due anni fa sul cinquecentenario della conquista dell'America
Latina ha fatto capire che alcuni meccanismi fondamentali del
sottosviluppo possono essere fatti risalire a 500 anni fa. Su
questo non c'è niente da dire: come sappiamo tutti, qualcuno avrà
letto le lettere di Cristoforo Colombo
, era
molto chiaro che si cercavano delle materie prime preziose, che
allora erano spezie,
oro, argento e manodopera.
La descrizione delle popolazioni locali era fatta in chiave di
manodopera, cioè gli indigeni erano visti come capaci di lavorare
per un lungo periodo di tempo mangiando poco e producendo delle
cose. Vi era, in sostanza, la manifestazione di una economia di
rapina, poiché nessuno pensava di fare degli impianti nei paesi
dell'America Latina per produrre qualcosa: si prendevano l'oro,
l'argento, le spezie per portarli nei paesi occidentali. Quindi
è fin dall'inizio che il rapporto venne concepito in
termini di sopraffazione, sfruttamento.
Ma
qual è il limite di questo discorso? E' che se noi ci fermiamo
a considerare la condizione dei paesi sottosviluppati soltanto
in termini proiettati nel passato, quindi storici, succede qualcosa
di molto pesante: da un lato pensiamo che i meccanismi siano noti
e basti solo aumentare gli sforzi, aumentare le conoscenze per
poterli eliminare, per poterli ridurre; dall'altro che la soluzione
sia solo quella di insistere nel tentare di modificare certi meccanismi.
In realtà il sottosviluppo è una bestia molto più complicata: ci sono dei meccanismi di sottosviluppo
"nuovi". Il meccanismo del debito estero dei paesi sottosviluppati
è iniziato negli anni '73-'74 ed è diventato potentissimo: non
sappiamo ancora come modificarlo, ma sappiamo che non ha nulla
a che fare con il sistema coloniale. L'uso delle biotecnologie
può già essere considerato
un inizio del meccanismo di sottosviluppo per molti paesi,
dal momento che essi sono esclusi dal loro utilizzo. Allora occorre
assumere una visione molto più dinamica del concetto di sottosviluppo
e parlare di sviluppo del
sottosviluppo (se volete giocare un po' con le parole), per
capire che esso è il risultato di un meccanismo che si rinnova
continuamente.
Proviamo una sensazione
abbastanza drammatica: alcuni fenomeni ormai li vediamo nascere,
cioè siamo diventati abbastanza preparati per capirli e per
modificarli, ma poi in realtà non ci sono forze politiche
pronte: questi fenomeni li vediamo passare davanti agli occhi
e non sappiamo come intervenire. O, per lo meno, sapremmo come
intervenire, ma non esistono le forze per farlo. Questa è già
una visione molto più dinamica, molto più stimolante per certi
aspetti, nel senso che richiede un approccio più "divertente":
bisogna studiare, bisogna leggere, bisogna capire. D'altra parte
ogni avvenimento che si verifica, dalla crisi in Somalia fino
al Ruanda ecc., fa parte di una stessa logica. Quindi, se volete,
guardare la televisione o leggere il giornale diventa più interessante
se si pensa a questo schema di analisi dei rapporti Nord-Sud.
Questa è la premessa:
farò ora alcuni esempi. Se si parla del sottosviluppo, sarebbe
necessario parlare di 70-80 diversi meccanismi: io parlerò solo
di 2 o 3 di questi meccanismi e quindi gli altri bisognerà immaginarli,
cercando di capire quale logica seguano.
Le
materie prime
Partiamo da un esempio
classico, un meccanismo tradizionale che conosciamo tutti benissimo
e che negli anni '50 era l'elemento principe nella descrizione
dei paesi sottosviluppati: la famosa storia delle materie prime.
Questi paesi sono sostanzialmente produttori di materie prime,
intendendo come materie prime delle sostanze agricole o industriali
che servono ai paesi industrializzati.
Quindi con l'espressione
"materie prime" già si identifica qualcosa che gli altri
paesi trasformeranno. Molte volte queste espressioni sono pesanti
e dobbiamo fare attenzione al loro significato per non usarle
senza rendercene conto. In sostanza, alcuni dei prodotti sono
situati nei paesi sottosviluppati perché geograficamente nascono
lì e sono il rame, i minerali per l'alluminio, la bauxite ecc.;
gli altri sono molte volte delle materie prime che noi
abbiamo deciso che venissero coltivate nei paesi sottosviluppati
(cacao, caffè, cotone, arachidi, ecc.). Sono tutti prodotti che
si producono con facilità in questi paesi, ma siamo stati noi
che li abbiamo sviluppati, siamo stati noi che abbiamo deciso
che la specializzazione internazionale di questi paesi fosse su
queste materie prime.
In sostanza il problema
qual è? Mentre in un Paese come l'Italia, che esporta 100-150
prodotti in misura consistente, se uno di questi
sul mercato internazionale va male non succede niente,
quando va male il prezzo del rame, che costituisce l'80,
l'85, il 90% delle esportazioni di 2, 3, 4 paesi, è l'intera economia
di questi paesi che viene travolta. Se va male un raccolto - le
famose gelate sul caffè - in paesi come il Brasile, è l'intera
economia di quell'anno che viene sconvolta. Già questo crea una
distinzione fondamentale, poiché questi paesi sono fortemente
esposti alle crisi dipendenti dal clima e dal controllo del prezzo
internazionale di questi prodotti, in quanto una minima variazione
di questo prezzo internazionale può creare dei disastri paurosi
all'interno del Paese. Questo per gli altri paesi, cioè per paesi
come l'Italia, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti ecc.,
non succede. Quindi ci troviamo di fronte a due gruppi di paesi
che rispondono a delle logiche economiche diverse.
C'è un altro problema,
anch'esso legato a queste materie prime: questi prodotti possono
talvolta essere sostituiti. Si potrebbe fare una storia dei paesi
sottosviluppati raccontando come il cosiddetto progresso tecnologico
dei paesi industrializzati abbia causato la sostituzione di questi
prodotti. Un esempio: la produzione delle gomme per automobili
fatta con mezzi chimici ha causato la "sparizione economica",
cioè la perdita di valore economico, di tutte le piantagioni degli
alberi della gomma ecc. C'è una ripresa dei prodotti di questi
paesi in questo momento, negli ultimi 2/3 anni, per la produzione
di preservativi. Questo è un dato positivo, ma purtroppo è l'AIDS
la fonte di modifica del rapporto economico. Un altro di questi
meccanismi si verifica, per esempio, con il rame: da alcuni anni
sono in funzione e hanno superato la fase sperimentale le cosiddette
fibre ottiche, che hanno una portata, cioè una capacità di trasmissione
di informazioni, dati, elettricità ecc., di gran lunga maggiore
dei fili di rame; il valore economico del rame sta decrescendo.
Con le biotecnologie si stanno studiando dei prodotti che sono
mille volte più dolci dello zucchero a parità di peso; appena
entreranno nel mercato, alla Pepsi-Cola e alla Coca-Cola saranno
felicissimi, perché potranno dolcificare le loro bevande con un
quantitativo molto ridotto. Di conseguenza ci saranno decine di
milioni di posti di lavoro perduti nel Terzo Mondo perché quel
prodotto non sarà più necessario.
Questo fa già capire
che tipo di collegamenti pesanti
ci siano tra i meccanismi
che hanno specializzato questi paesi e il resto del problema del
sottosviluppo. C'è inoltre un altro aspetto del discorso, più
economico: storicamente si è visto che il valore di queste materie
prime tende ad abbassarsi, nel senso che i prezzi che vengono
pagati per queste materie prime sono sempre più bassi. I prezzi
che vengono pagati dai paesi sottosviluppati per acquistare i
nostri prodotti industriali, quindi le automobili, i trattori
ecc., tendono invece ad aumentare. Questa tendenza non è, secondo
me, una tendenza di mercato. Se si ha una posizione liberista
si ritiene che sia il mercato che determina questi livelli.
La mia posizione non
è questa: la mia sensazione è che invece questa tendenza dipende
dal meccanismo di controllo su questi paesi, poiché per ognuna
delle materie prime c'è la possibilità di controllare il prezzo
internazionale da parte di un numero molto ristretto di imprese
multinazionali. Dall'altra parte le grandi imprese italiane, francesi,
tedesche ecc., che esportano questi prodotti industriali, sono
in grado di imporre un certo prezzo. Quindi in pratica c'è questo
meccanismo di andamento diverso che tecnicamente è espresso attraverso
quelli che si chiamano i termini di scambio e che vede i
rapporti di scambio tendenti al peggioramento per i produttori
di materie prime. Negli ultimi 10 anni, cioè negli anni '80 -
questi sono dati ufficiali dell'ONU
- il prezzo delle materie prime complessivamente è diminuito
del 40% ; il caffè è diminuito del 50%.
Allora cominciamo già
a vedere come queste economie siano basate su prodotti che
tendono nel lungo periodo a diminuire di prezzo: questi
paesi devono produrre sempre maggiori quantitativi
di questi prodotti ottenendo però sempre meno. Può sembrare
molto complicato, oppure banale, però in realtà questi sono i
meccanismi. Il problema è che questo tipo di meccanismi sono nati
negli anni ' 50, li conosciamo benissimo.
Nel 1962 c'è stata
una grande riunione, una grande assemblea del cosiddetto gruppo
dei 77 che chiedeva
già allora la stabilizzazione del prezzo delle materie prime:
fate attenzione, non chiedevano un prezzo giusto o un prezzo in
aumento o di garantire certi livelli, chiedevano la stabilizzazione,
cioè chiedevano che il prezzo internazionale fosse calibrato,
fosse tenuto sempre, o per lo meno per lunghi periodi di tempo,
a livelli conosciuti in anticipo. Questo comportava
una certa tranquillità nell'utilizzazione delle risorse
naturali. Dovevano essere creati 40 gruppi a livello internazionale
relativi a 40 diverse materie prime, ne sono stati creati 4, hanno
effettivamente funzionato solo 2 di questi gruppi: uno dei due
gruppi che ha funzionato è quello sul grano (nel quale sono presenti
anche gli USA che sono i maggiori produttori di grano) che ha
orientato l'andamento
dei lavori in favore
dell'economia americana. E' inutile andare a spiegare il motivo,
però non è casuale che questo gruppo abbia funzionato. Dunque
per questo settore abbiamo una situazione analoga a quella degli
anni '50: chiedersi perché questi paesi sono ancora sottosviluppati
mi sembra abbastanza superfluo.
Il debito estero
Vediamo un altro problema,
un altro meccanismo: in questo momento i paesi sottosviluppati
hanno un debito con l'estero di oltre 1350 miliardi di dollari
ancora da pagare. Praticamente, tanto per darvi un'idea, tutte
le spese militari fatte negli anni '80, quando USA e URSS si confrontavano,
erano dell'ordine di 900 miliardi di dollari in un anno. Se facessimo
un confronto, anche qui con una cifra annuale, quella degli aiuti
che mandiamo ai paesi sottosviluppati, scopriremmo che questa
è dell'ordine di 48 miliardi di dollari all'anno; se poi andassimo
a vedere l'ammontare del pagamento
degli interessi e della quota di capitale, vedremmo che negli
ultimi 5 anni sta succedendo una cosa molto banale: l'ammontare
degli interessi e delle quote di capitale da pagare in un anno
supera i 120 miliardi di dollari, cifra superiore ai nuovi finanziamenti
che vengono concessi ai paesi sottosviluppati. In sostanza i soldi
che escono sono molto più dei soldi che entrano in questi paesi.
Il
meccanismo reale che sta dietro a queste cifre qual è? Se si considera
come prendono i soldi questi paesi per pagare le loro quote semestrali
di interessi, si scopre che più del 60% del risparmio accumulato,
per esempio, dai paesi dell'America Latina va a pagamento della
quota di interessi. Il meccanismo è ancora più drammatico di un
semplice esborso di denaro, perché se un Paese o un gruppo di
paesi deve destinare gran parte del risparmio a pagare il vecchio
debito, non può fare nuovi investimenti. Queste economie sono
quindi tenute basse.
E' drammatico il fatto che vengano drenate delle risorse finanziarie
essenziali per lo sviluppo, il che frena moltissimo ogni tentativo
di svilupparsi .
Come è nato questo
processo? L'inizio è molto semplice: c'è stata la cosiddetta
"crisi energetica" del '73/'74. Uso il termine cosiddetta perché all'epoca, questo anche da sinistra, si parlò di
crisi come se non ci fosse più petrolio, o ce ne fosse molto poco,
e le riserve stessero esaurendosi. La realtà era molto diversa:
era un'operazione economica fatta dagli USA e dalle imprese multinazionali
in accordo con i paesi produttori, per innalzare il prezzo internazionale
del petrolio. C'era un problema strategico degli USA che si trovavano
a ricevere troppo petrolio proveniente dal Golfo: la guerra ha
dimostrato che la preoccupazione degli USA era fondata in questo
senso.
Con questa operazione,
che quadruplicò il prezzo del petrolio nell'arco di circa
sei mesi, i paesi produttori e le multinazionali che controllano
il settore si sono trovati a disporre di una quantità notevole
di liquidità. Questi soldi vennero versati in banche americane
e inglesi che furono costrette a cominciare a fare prestiti. Incominciò
quella che viene definita una politica del denaro facile: i paesi sottosviluppati avevano bisogno
di soldi e ricevettero questi prestiti.
Il primo punto da considerare
è: a quali condizioni? Le condizioni sono drammatiche. Il
tasso di interesse per i prestiti concessi ai Paesi in
via di sviluppo [d'ora in poi PVS, N.d.R.]
è molto spesso uguale, se non superiore, a quello imposto ai paesi
industrializzati. Io
vorrei che non fosse dato un giudizio sull'entità del tasso, come
se il 18% fosse meglio del 10%. Imporre un tasso uguale o superiore
a quello in vigore nei paesi industrializzati, significa
non rendere possibile un rendimento adeguato per i PVS
e quindi non permettere un ripagamento. Sto cercando di chiarire
questo aspetto piuttosto che il fatto che questi tassi di interesse
siano troppo alti.
Il secondo passaggio
è che gran parte di questi prestiti sono a breve termine: alcune
volte questi paesi devono restituire i soldi entro un anno; poi
eventualmente li richiedono e vengono concessi un'altra volta.
Facendo però in questo modo, succede che non funziona quello splendido
meccanismo del sistema economico predominante, ossia quello dei
vantaggi dell'inflazione sull'indebitamento di lungo periodo.
Ogni volta che si contrae un mutuo, si sposta in avanti il pagamento:
il primo anno incide molto sullo stipendio, al dodicesimo o ventesimo
anno la quota del pagamento diventa molto piccola, perché gli
stipendi sono man mano lievitati, mentre lievitavano i prezzi;
per questo si ha la sensazione di pagare molto di meno.
Questo meccanismo non
ha funzionato in favore dei paesi sottosviluppati, ha funzionato
in favore delle banche, che ogni volta hanno ridefinito le condizioni
del prestito e i tassi di interesse in base all'andamento dell'inflazione.
Ci sono stati altri
fenomeni: tra il 1979-'80 e per 5/6 anni, gli USA hanno tenuto
alto il prezzo del dollaro per loro motivi interni. I paesi sottosviluppati
si sono trovati a dover pagare il debito e gli interessi sulle
quote di capitale con un dollaro che costava molto di più di quando
loro l'avevano ricevuto. Questa cosa è stata sconvolgente; in
quegli anni c'è stata un'impennata del meccanismo di accumulazione,
cioè questi paesi si sono trovati improvvisamente nella condizione
di non poter pagare. Non casualmente il primo Paese che denunciò
l'impossibilità di pagare fu il Messico nell'agosto '82.
Vorrei però chiarire
altre due cose. Quello descritto fino ad ora è il meccanismo finanziario.
Vorrei invece farvi cogliere anche l'aspetto di economia reale
sottostante: e cioè che cosa hanno fatto con questi soldi i paesi
sottosviluppati. Questo lo dico anche perché c'è un obiettivo
preciso nelle mie parole; noi siamo in un Paese in cui ancora
oggi l'idea di avere dei soldi in prestito e doverli ripagare
è un fatto abbastanza normale. Per questo, qualche volta, all'idea
di cancellare il debito dei paesi sottosviluppati, c'è una specie
di riluttanza psicologica: malgrado tutto i soldi li hanno avuti. Io fornirò qualche informazione
sugli usi dei fondi ricevuti da parte di questi paesi nella speranza
di far cambiare questo atteggiamento.
Per oltre un terzo
i prestiti sono stati concessi a paesi sottosviluppati affinché
acquistassero armi nei paesi industrializzati. Non casualmente
i paesi più indebitati erano l'Iran, l'Iraq, l'Argentina. Il punto
fondamentale qual è? A parte la repulsione verso le armi, manteniamoci
sul piano puramente economico: capirete che le armi non possono
essere usate a fini di sviluppo. Gli interessi, però, vengono
pagati come se questi soldi fossero usati per costruire degli
impianti, o delle strade o degli ospedali.
Capite immediatamente
perché questi paesi hanno avuto e continuano ad avere difficoltà
a pagare: grossa parte di questi fondi non sono stati utilizzati
a fini economici, cioè per avere un rendimento. Dall'altra parte
questi fondi sono serviti ad alimentare produzione ed esportazione
delle industrie di armamenti italiane, francesi, statunitensi.
Diamo ora una seconda
cifra: da una stima del FMI
(Fondo Monetario Internazionale, N.d.R.) sappiamo che tra il 10% ed
il 20% del debito estero dei PVS è costituito da tangenti, mazzette, pizzi. L'ordine di grandezza di questa
cifra è di circa 250 miliardi di dollari. A questo punto si impone
una riflessione. Una prima interpretazione di questo fenomeno
può essere: le classi dirigenti di questi paesi sono corrotte.
Il passaggio successivo in genere è: finché non cambiano le classi
dirigenti non c'è niente da fare, dal momento che in questi paesi
c'è una corruzione così diffusa che continueranno a rimanere sottosviluppati.
Il passaggio successivo è razzista: sono talmente corrotti, sono
così per natura, non cambieranno mai. L'altro ordine di riflessione
che si può fare invece è: l'ammontare del debito è talmente rilevante
che può essere meglio concepito come finanziamento
di una classe dirigente. In sostanza abbiamo finanziato i
governi dittatoriali, i governi militari; abbiamo fatto delle
operazioni di controllo a livello internazionale tramite questo
meccanismo del debito. Questo non significa che i singoli funzionari
o ministri fossero degli stinchi
di santo. Il problema, però, non è risolvibile, secondo me,
semplicemente in termini di giudizio morale, cioè di condanna
morale della corruzione.
Permettetemi una parentesi
sulla situazione italiana, cioè su Tangentopoli: gran parte degli
investimenti pubblici è stata fatta per dei motivi che non sono
economici; sono state emanate numerose leggi con stanziamenti
di centinaia di miliardi, che sono stati canalizzati in tempi,
modi, e secondo logiche che con l'economia in senso stretto non
avevano nulla a che fare. Dato cioè per scontato che i politici
hanno rubato dei soldi, andiamo a vedere come sta l'economia,
cioè quali scelte sono state fatte e come. Siccome si parla di
interventi pubblici di alcune decine di anni, ci sarebbe da rifare
tutta la storia dell'intervento dello Stato nell'economia. Rende,
per esempio, molto di più una bella autostrada piuttosto che un
argine costruito su un fiumiciattolo alpino, magari per evitare
allagamenti e piene.
Tornando ai paesi sottosviluppati,
c'è un'altra componente da analizzare: quella di tutti gli interventi
che sono stati finanziati e
che non avevano una base economica. Sto parlando ad esempio
dell'impianto nucleare che si doveva costruire nelle Filippine
alle pendici di un vulcano. Non è stato poi costruito
perché qualcuno si è opposto a questa iniziativa, ma l'attuale governo delle
Filippine sta pagando quote di capitale e tassi di interesse su
quel prestito, a fronte del quale non c'è niente.
Fatta questa considerazione
si può tranquillamente dire che i 2/3 dei prestiti elargiti ai
paesi sottosviluppati non davano rendimento. Se accettiamo questo
ordine di grandezza (60% circa) possiamo dire che la impossibilità
a pagare non è una impossibilità derivante da sprechi, follia
ecc. I motivi sono economici, è stato cioè innescato un meccanismo
che non permette il ripagamento. E' per questo che l'ipotesi di
un'eventuale cancellazione del debito, idea che ci disturba un
pochino, è concepibile nella misura in cui i prestiti non avevano
base economica. In sostanza si è trattato di un matrimonio non
consumato, poiché non è stato consumato l'atto economico sottostante.
Allora la cancellazione dovrebbe essere un atto amministrativo,
neanche di giustizia. Se mi si permettete una battuta, anche quando
il Papa dice che non possiamo esigere il pagamento perché ciò
costerebbe lacrime, sangue e miseria, è ancora una forzatura in
questo senso e non è accettabile, perché non è questo il problema.
Va bene che il Papa abbia chiesto la cancellazione del debito,
ma questa scelta è qualcosa di più, e cioè il riconoscimento del
meccanismo negativo messo in piedi, ed ovviamente per questo motivo
è molto difficile da ottenere. Quello che sto dicendo, ovviamente,
non deve essere preso per oro colato: sto cercando semplicemente
di rendere più complessa la valutazione del problema fornendo
degli elementi di riflessione sui quali ciascuno potrà fare le
proprie valutazioni. E' importante però cominciare a vedere che
cosa c'è dietro i
problemi, le statistiche, i meccanismi di questo genere.
Le politiche delle
istituzioni economiche internazionali
Altro passaggio da
analizzare: quando si parla dell'ipotesi della cancellazione del
debito, FMI
, N.d.R.] e BM
gli contrappongono quelle
che si definiscono politiche
di aggiustamento strutturale. Queste politiche consistono
essenzialmente in questo: si offre al singolo Paese di non pagare
subito e di pagare con delle scadenze diverse. Si tratta di riscadenzamenti,
termine tecnico che si usa proprio per queste situazioni. Essi
consistono nello spostamento in avanti del pagamento. Descritto
così il fenomeno potrebbe sembrare positivo; il problema però
deriva dal fatto che FMI
e BM
impongono delle strategie
economiche ben precise a questi paesi, affinché si mettano in
condizione di pagare alle scadenze stabilite. Queste politiche
sono di austerità, di contenimento della spesa pubblica: «non
spendete troppo per i vostri investimenti interni, ma mettete
da parte per pagare fra 3-4 anni».
Un'altra imposizione
che viene fatta è l'apertura agli investimenti esteri, alle importazioni
e alle esportazioni del mercato: questi paesi devono cioè aprirsi
il più possibile in base alla impostazione liberista della politica
del Fondo. Le politiche di aggiustamento appaiono sempre molto
complicate, ma in realtà sono procedure che vengono attuate normalmente
anche in Italia: non casualmente i funzionari del Fondo vengono
due volte l'anno anche in Italia.
C'è però un particolare:
una diminuzione delle pensioni, un aumento delle tasse o dei ticket
sanitari in una situazione come quella italiana è poco tollerabile
politicamente, anche
se fisicamente non muore nessuno. Nei paesi sottosviluppati, invece,
un intervento di questo tenore incide immediatamente sui livelli
di sopravvivenza. Qualche anno fa, quando venne proposta una politica
di aggiustamento in Venezuela, Paese produttore di petrolio, quindi
apparentemente ricco, il prezzo del pane quadruplicò immediatamente.
Ci furono quasi 200 morti perché la gente scese in piazza, dal
momento che non riusciva a sopravvivere. Normalmente noi non teniamo
conto della distanza, della divaricazione, che significa proprio
questo: le misure di politica economica hanno una incidenza diversa
data la diversità della situazione.
Altro elemento da considerare
è che queste politiche di aggiustamento del FMI
. sarebbero accettabili se per questi paesi fosse realizzabile un aumento
consistente del reddito e di tutti i parametri positivi del sistema
economico. In sostanza, per questi paesi si dovrebbe ottenere
una crescita del reddito del 5-6% all'anno. Se questi paesi fossero
in grado di avere uno sviluppo di questo genere, sarebbero in
grado di pagare il debito secondo le norme del FMI
. Peccato che negli anni '80 il reddito dei paesi dell'America Latina
sia diminuito del 20% e il reddito pro-capite nei paesi africani
sia tornato ai livelli degli anni '50. In questa situazione ipotizzare
che nei prossimi anni ci possa essere un aumento del 5 o 6% annuo
(deve essere così alto per compensare anche l'aumento della popolazione)
è folle, è inadeguato, è irreale. Il FMI
può continuare a dire e sostenere queste cose, però è irreale.
Questo significa che non sono d'accordo con la politica del FMI
., e questo non per motivi ideologici, politici (liberismo-sì, liberismo-no), ma perché è irrealistica.
Su queste politiche
di aggiustamento si può aggiungere ancora una cosa: negli ultimi
anni la BM
ha destinato il 25% delle
sue risorse a quei paesi che hanno politiche di aggiustamento
in atto. Questo dato può essere letto in questo modo: un quarto
dei fondi destinati a sostenere infrastrutture per lo sviluppo
[la funzione istituzionale dei fondi della BM
, N.d.R.), è stato destinato
ad altri scopi, a favorire il ripagamento del debito. Proprio
nel momento in cui molti paesi avrebbero avuto bisogno di un aumento
ingente di risorse, un quarto delle risorse stanziate dalla BM
è stato destinato ad altri
scopi e quindi c'è stata una sostanziale diminuzione delle risorse
destinate ai meccanismi di sviluppo reale. E' su questo dunque
che si innestano tutti i meccanismi di valutazione negativa, di
opposizione alle politiche del FMI
. e della BM
..
Un ultimo punto di
cui è necessario tenere conto: quando prima ho parlato della possibilità
di cancellazione del debito estero, qualcuno può aver pensato
alla richiesta di cancellazione totale fatta da Fidel Castro
circa dieci anni fa. Vorrei
ricordare una cosa: due anni fa, ed è ancora una proposta aperta,
è stato Major
, primo ministro inglese, a proporre - sostanzialmente - di cancellare
tutti i debiti dei paesi al di sotto di un certo livello di reddito,
per salvare almeno una sessantina di paesi sottosviluppati. I
contenuti di questa proposta sono noti come i Termini
di Trinidad
, perché
la proposta è stata elaborata a Trinidad in una riunione della
BM
e del FMI
. Ancora l'anno scorso la BM
nel suo rapporto annuale
sul debito diceva: «vi presentiamo
la proposta, vi indichiamo i costi e le conseguenze». Possiamo
affermare - sulla base dei precedenti - che questa proposta non
sarà accettata.
Si può quindi dire
che un meccanismo che ha avuto inizio negli anni '73-'74 è a tutt'oggi
ancora operante e non c'è nessun tentativo a livello internazionale
di modificarlo, tranne quei riscadenzamenti di cui si parlava in precedenza. Questa è la cosa
più grave, poiché il meccanismo dopo vent'anni è ancora intatto
e nessuno manifesta seriamente l'intenzione di modificarlo. Gli
unici spostamenti che ci sono stati consistono in alcune cancellazioni
che ha fatto la Svezia nei confronti di alcuni paesi africani
disastrati e la cancellazione di 120 milioni dell'Istituto S.Paolo
di Torino. Si tratta di reazioni estremamente modeste di fronte
alla cifra totale del debito.
Le interdipendenze
Si potrebbe continuare
a parlare per ore di questi ed altri problemi quali il ruolo delle
multinazionali, la politica della ricerca scientifica, la politica
degli investimenti esteri e tutti i problemi ambientali. In particolare
questi problemi ambientali sono sempre più connessi tra loro:
noi siamo abituati a vedere i problemi ambientali come danni in
sé. Nessuno si rende pienamente conto, per esempio, che per pagare
gli interessi sul debito ogni sei mesi, paesi come il Brasile
sono costretti ad esportare il più possibile, quindi a tagliare
foreste più in fretta possibile, ad estrarre materie prime il
più velocemente possibile. Non si tratta quindi di danni ambientali
casuali o derivanti da stupidità o malvagità umana: ci sono dei
meccanismi economici che portano in direzione negativa. Quindi,
dal punto di vista verde,
ogni volta che si fanno denunce solo dicendo che i boschi sono
belli, gli uccellini sono carini ecc,
non si tocca l'anima del sistema, sembra non ci si renda
conto del fatto che ci sono dei meccanismi economici che spingono
nella direzione della distruzione ambientale.
Quando si parla del
disboscamento nelle foreste del Terzo Mondo, in genere si pensa
ai contadini che hanno fame, non sanno bene che cosa fare, tagliano
gli alberi per seminare qualcosa. Ma i danni arrecati dai contadini
alle foreste sono meno del 2% del totale, e a loro volta i contadini
non lavorano da soli: fino a due anni fa il Brasile aveva previsto
degli incentivi per i contadini che disboscavano. Per il resto
si tratta o di grosse imprese o di meccanismi pubblici. Non capire
che ci sono dei meccanismi economici di grosso spessore da smontare,
significa proprio non affrontare la questione e quindi non risolverla.
L'altro elemento importante
è che abbiamo cominciato a tracciare uno schema nel quale non
si parla più di meccanismi Sud , cioè di mero sfruttamento del Nord sul Sud; cominciano
a prevalere i meccanismi
a circuito. Tutto il discorso sull'ozono o sui pesticidi è
un discorso complessivo sul sistema-mondo, come anche quello sul
debito. Non c'è più il Nord tranquillo che sfrutta il Sud. Ci
sono il Nord ed il Sud coinvolti in un numero sempre crescente
di meccanismi comuni. In questa ottica, considerate come vere
le cose di cui stiamo discutendo, non ci possiamo più permettere
il lusso di difendere l'ambiente solo da
noi o di difenderlo solo da
loro. Il problema è che bisognerebbe attaccare il meccanismo
da tutte le parti: bisognerebbe colpirlo lì,
ma bisognerebbe colpirlo anche qui.
Penso di poter dire che nell'arcipelago verde, al di là delle
posizioni politiche, questo passaggio non sia stato ancora fatto.
Si continuano a fare delle denunce complessive, ma non si denuncia
il meccanismo in quanto tale: le azioni che proponiamo sono ancora
delle azioni di tamponamento. Lo smontamento del meccanismo, la
negazione della tecnologia che non va bene, ancora non la stiamo
chiedendo.
Ultimo punto è quello
delle prospettive: il quadro fin qui proposto è piuttosto negativo;
le prospettive sono ancora peggiori. C'è una previsione demografica,
elaborata dall'ONU
con dati piuttosto sicuri,
che prevede da oggi al 2005 il raddoppio della popolazione mondiale.
L'87 % di questa popolazione sarà concentrata in zona urbana,
quindi un altro fenomeno molto importante è che alla fine del
decennio metà del Terzo Mondo sarà in area urbana. Io parlo di
area urbana, perché
non si può più usare il termine città, che per noi ha un significato
positivo, indica un posto dove ci sono cose belle, c'è una produzione
culturale, si fa cinema, si fa teatro,
ci sono i mezzi di comunicazione, tanti negozi. Se si va
nel centro di San Paolo, con 15 milioni di abitanti e 4 milioni
di favelas, il quadro cambia in maniera rilevante; e la San Paolo
di oggi sarà una piccola città tra dieci anni.
Un altro fatto da valutare
è che solo per questi motivi, riguardanti l'incremento demografico,
la popolazione in zona fame dovrebbe triplicare. Fermo restando che aumenterà la produzione
agricola, l'aumento demografico supera però le previsioni dell'introduzione
di alimenti e quindi la popolazione in zona fame dovrebbe triplicare in rapporto alla cifra più bassa della
stima della FAO
(500 milioni) sulle persone che oggi sono in situazione di fame.
Un dato del genere per un economista è pauroso perché significa
che si può fare un programma oggi e mentre lo si progetta la popolazione
su cui si deve agire è triplicata.
Ultimo dato: l'ONU
parla di 900 milioni di posti
di lavoro da creare nel Terzo Mondo, cifra che per le dimensioni
è difficile da concepire. Comunque è evidente che dietro al fenomeno
dell'immigrazione, dietro alle analisi e alle proposte che si
fanno, c'è una pressione crescente della popolazione del Terzo
Mondo, ed è una pressione molto più forte di quanto noi riusciamo
ad immaginare. Questo
avviene anche a sinistra: chi parla in favore degli immigrati
e della società multiculturale, sottovaluta il fenomeno, non si
rende conto che l'Italia nei primi 10 mesi di applicazione della
legge Martelli
ha espulso 18.000 persone
e ne ha fermate alla frontiera 75.000: il ritmo con cui arrivano sembra crescente.
Nel
1990 la BM
ha pubblicato il rapporto
Povertà con copertina
nera e scritta color oro, in cui si afferma che ci sono nel Terzo
Mondo un miliardo
e 350 milioni di persone al di sotto della soglia della povertà
(con circa 400 lire al giorno di reddito pro capite). La BM
dice anche che per queste
persone si possono prevedere solo interventi di assistenza e di
istruzione, cosa quest'ultima molto importante perché le donne
istruite fanno meno bambini (in effetti è vero che nella storia
dei paesi occidentali c'è una correlazone tra il grado di istruzione
e il numero dei bambini che nascono,
ma non si può sottovalutare che nei paesi occidentali è
aumentato anche il reddito); se ciò avverrà si spera di poter
stabilizzare la popolazione del Terzo Mondo nel 2040. La BM
forza un po' la mano, ma
anche dando per buone le sue affermazioni, ciò che preoccupa è
la stabilizzazione al 2040, che significa l'impossibilità di intervenire
sul meccanismo demografico. Ma la cosa più grave è che la BM
, che sostiene la necessità di prendere una serie di misure molto impegnative,
prevede che se esse saranno attuate con successo ciò farà
uscire dalla soglia di povertà circa 300 milioni di persone.
La BM
non dice che cosa succede
agli altri 850 milioni di persone.
Gli altri rapporti
degli organismi Internazionali non toccano questo tema e la BM
, nel 1990, per la prima volta ha messo in discussione un'idea guida fondamentale:
che ci sarà lo sviluppo per tutti (cfr. discorso di Truman
). La BM
- sostanzialmente - afferma
che oggi sappiamo che lo sviluppo non ci sarà per tutti. Viene
messo in discussione tutto il concetto del recupero:
per 1/5 della popolazione dei paesi sottosviluppati non sappiamo
che cosa fare; questa è una cifra preoccupante perché indica che
il sistema internazionale nel suo complesso non sarà interessato
a questa fascia di popolazione.
Fino ad oggi abbiamo
ragionato nell'ipotesi che il sistema controllasse tutto, che
fosse in fase di espansione, che dovunque un
po' di Coca-Cola qualcuno la comprava. Secondo i dati della
BM
questa fascia di popolazione
non sarà in grado né di consumare né di produrre.
Tutti gli schemi su
cui si è discusso finora prevedevano la copertura teorica per
tutti, anche se non era mai chiaro a che livello; anche il concetto
di economia sostenibile continua a basarsi sull'idea che tutti
saranno nel gioco, anche con ruoli diversi; l'ultima analisi della
BM
mette in dubbio questi schemi.
1.
Distinzione tra FMI
e BM
La parte delle politiche
d'aggiustamento e controllo sulle politiche economiche dei singoli
paesi è fatta dal FMI
; la BM
si dovrebbe occupare di creare
infrastrutture nei paesi sottosviluppati. La BM
è composta da azionisti:
il 25% delle azioni appartengono agli USA, gli altri paesi industrializzati
hanno quote in proporzione alla loro economia, i paesi del Terzo
Mondo hanno piccole quote. Il controllo
dei flussi di finanziamento della BM
è praticamente in mano ai
paesi industrializzati. La stessa cosa avviene per la FAO
e l'UNICEF
; con l'UNESCO
ci sono stati dei problemi, perché nel suo statuto era previsto
che all'Assemblea Generale ogni Paese avesse un voto, mentre negli
altri organismi esso è in funzione delle quote di capitale detenute.
Dunque c'era una maggioranza di paesi del Terzo Mondo. Gli USA
hanno quindi tagliato i fondi e la stessa cosa è avvenuta per
l'ILO
(l'Organizzazione Internazionale
del Lavoro), poiché essa si è autonomizzata dal punto di vista
politico, però le sono stati tagliati i fondi. Quando la FAO due
anni fa fece la proposta di finanziare due piccoli progetti agricoli
nei Territori Occupati in Palestina, gli Usa minacciarono di ritirarsi
dalla FAO; questi organismi non sono da considerare come sovranazionali
in senso reale, perché
di fatto essi risentono delle logiche di potere di cui abbiamo
parlato.
In ogni missione di
15 esperti della BM
ci sono tre americani, due
inglesi, due francesi e poi in proporzione tutti gli altri: è
una lottizzazione tipo Manuale
Cencelli in proporzione delle quote. Queste cose non sono
casuali perché il singolo esperto controlla i suggerimenti sulle
commesse che saranno date alle imprese del proprio Paese donatore
in funzione della sua quota; tutto ciò è esplicito. Se un organismo
così largamente controllato incomincia
a dire che non ci sarà lo sviluppo per tutti, io mi preoccupo.
2.
Le politiche di aggiustamento e l'Italia
Queste politiche vengono
applicate ai paesi indebitati verso l'estero: in Italia non vengono
adottate perché l'Italia non è particolarmente indebitata verso
l'estero. Due volte l'anno arriva la missione del FMI
, con gli economisti di settore che si occupano dell'Italia. In genere
c'è almeno un economista senior
che si occupa e che conosce la situazione dell'Italia meglio del
Primo Ministro. Certe volte ci sono delle critiche che spesso
servono a sostenere la linea del governo in quel momento. Le misure
consigliate in caso d'inflazione per l'Italia e l'Algeria sono
dello stesso tipo perché la logica del Fondo è la stessa: liberista.
A noi tolgono il 3% delle pensioni, in Algeria le pensioni non
ci sono, per cui raddoppiano il prezzo del pane; la misura in
termini economici è la stessa (tendente a ridurre la spesa pubblica),
ma gli effetti sono diversi. I singoli paesi sottosviluppati non
riescono ad opporsi alle politiche di aggiustamento perché dovrebbero
mettersi d'accordo tutti quanti, coalizzarsi.
Le
alternative esistono dal 1975: si sa ciò che si dovrebbe fare
e ciò che si dovrebbe evitare, ma non ci sono forze che lavorino
in questa direzione. Spesso basterebbe sottrarre la nostra presenza
dal momento che molti meccanismi del sottosviluppo dipendono dal
fatto che noi occidentali siamo troppo presenti. Alcuni meccanismi
di sottrazione della nostra presenza non si possono però attuare
immediatamente, perché i problemi immediati aumenterebbero, non
essendo ancora operanti sistemi alternativi.
Docente di Economia
Politica, università di Roma "La Sapienza"
23/11/1994
Mi avete chiesto di
parlare di un argomento molto delicato e complesso e cercherò
di fare del mio meglio per evidenziare i molti problemi che sono
collegati con questa questione. Il titolo della conferenza è «Oltre
lo stato sociale, oltre il Welfare State: analisi della crisi
della società capitalistica contemporanea». Per poter parlare
di questo argomento, la prima cosa sulla quale bisognerebbe convenire
è che ci sia una crisi della società capitalistica, o che ci sia
una crisi che non è solo della società capitalistica, ma della
società nel suo insieme, che include lo stato sociale. La società
nella quale viviamo è anche detta società
del benessere perché contemporaneamente si articola attraverso
l'intervento attivo e massiccio dello Stato e, accanto ad esso,
attraverso una forte espansione del settore capitalistico, nel
quale prevale l'accumulazione. Che esista una crisi è una cosa
sulla quale, secondo me, si può abbastanza facilmente convenire,
almeno a livello degli indicatori sociali generali. Dal momento
in cui in tutti i paesi del mondo occidentale abbiamo un tasso
di disoccupazione che si aggira fra l'8 e il 13%, abbiamo una
misura delle difficoltà che si incontrano a far partecipare le
persone all'attività produttiva; e l'attività produttiva è quella
attraverso la quale noi contribuiamo alla vita della società.
Quando noi lavoriamo, noi diamo vita alla società; quando noi,
per esempio, lavoriamo come insegnanti, come infermieri, come
medici, soddisfiamo i bisogni della società, cioè facciamo vivere
la società. Se il 10, l'11, in alcuni paesi il 13%, di quelli
che potrebbero lavorare è condannato a non lavorare, se c'è qualcosa
che lo impedisce, c'è una crisi dell'organismo che non permette
a questi individui di agire attivamente e di contribuire a determinare
la vita della società. Però non sono solo gli indicatori sociali
generali a dirci che è in corso una crisi, ci sono anche altre
cose.
Un altro indicatore
sociale generale, che non riguarda solo l'Italia, è il debito
nel bilancio dello stato: due milioni di miliardi di lire indicano
uno squilibrio che noi percepiamo come manifestazione di una crisi;
lo Stato è intervenuto pesantemente nel sostenere l'economia,
e ora si trova "esposto".
Come fare? Non è solo
questa verifica di alcuni indicatori di tipo generale che ci preoccupa,
perché se la crisi fosse solo a questo livello, la crisi sarebbe
una cosa esterna. Che la nostra società (e quando dico "la
nostra società" non parlo certamente dell'Italia, ma anche
di come viene sperimentata la cosa in Inghilterra, in Germania....
perché c'è un sentimento comune in questa situazione) sia in crisi,
è vissuto nella vita quotidiana delle persone: le persone sperimentano
un disorientamento e non sanno che cosa fare. Quindi noi abbiamo
una situazione nella quale non si riesce ad anticipare il futuro.
Quando avevo 18 anni, ricordo molto bene il sentimento sociale
dominante, un sentimento di fiducia nel futuro: si riusciva in
qualche modo ad anticipare che, nel giro di qualche anno, le condizioni
di relativa povertà nelle quali ci trovavamo all'inizio degli
anni '60 sarebbero state superate. C'era quindi un'anticipazione
del futuro positiva. Ora il sentimento dominante è invece quello
di un'oscurità per quanto riguarda il futuro: non c'è più quel
sentimento che c'era allora. E perché succede questo? Perché la
vita della società nella quale viviamo presenta degli elementi
di notevole incertezza, cioè lascia trasparire i segni di una
crisi. Crisi significa che l'individuo, l'organismo così com'è,
non riesce a riprodursi, c'è qualcosa che glielo impedisce, e
allora il suo modo di essere è messo in discussione.
Direi che sul fatto
che stiamo attraversando una crisi, si può abbastanza facilmente
convenire. Allora bisognerebbe comprendere le ragioni di questa
crisi, ed è qui che le cose cominciano a diventare più difficili,
perché in genere noi abbiamo un atteggiamento semplificatore:
la crisi è sempre colpa di qualcuno, «i disoccupati sono disoccupati
perché i capitalisti non vogliono occuparli, è così chiaro, pensano
solo al profitto e non pensano al benessere della società. A questo
punto è colpa loro».
Questa
analisi coglie in una maniera molto distorta il fenomeno che sottostà
alla crisi, perché se fosse solo una questione di volontà, una
volta eliminata la controparte, le cose dovrebbero cominciare
ad andar bene, dovrebbero cominciare a procedere positivamente,
cioè il senso di frustrazione che proviamo dovrebbe scomparire,
ma non è così. Pensate per esempio a quello che è successo negli
Stati Uniti dopo la vittoria di Clinton
: sembrava che finalmente le cose, dopo 12 anni di oscurantismo tra Reagan
e Bush
, dovessero cominciare ad essere rimesse a posto. Invece, non appena ha
cominciato a procedere nella sua azione concreta, poiché non pensava
in maniera così diversa da coloro i quali lo avevano appena preceduto
- perché leggeva la maggior parte dei fenomeni in maniera sostanzialmente
analoga ai suoi avversari - Clinton
, piano
piano, ha finito col trovarsi in una situazione nella quale non
sa che cosa fare, "non sa che pesci pigliare". Se non
ci fossero state le variazioni congiunturali dell'economia, che
gli hanno dato una mano immediatamente dopo che è diventato presidente,
si sarebbe trovato in una grandissima difficoltà, perché non sa
come far fronte al problema della crisi dello Stato Sociale e
continuamente avanza proposte contrastanti, come per esempio quella
di togliere il sussidio alle madri giovani, non sposate, perché
in quel modo si favoriva una forma di parassitismo (e questa è
una tipica proposta dei repubblicani). Quando Clinton
ha cercato di far fronte
al problema dello Stato Sociale, qual è stata la misura fondamentale
che ha adottato? Quella di prevedere un taglio della spesa pubblica
di svariate centinaia di miliardi nell'arco dei prossimi 5 anni
(altra soluzione tipicamente repubblicana).
Se
noi giriamo ovunque nei paesi capitalisticamente avanzati, troviamo
che le parti sono opposte, si scontrano sul mercato politico per conquistare il potere
in parlamento, ma le differenze
tra di loro sono marginali.
Pensate, per esempio, all'attuale questione delle pensioni [siamo
nel 1994, ancora in carica Berlusconi
, N.d.R.], che è emblematica per quanto ci riguarda: è vero, il governo
ha introdotto il blocco delle pensioni e ha praticamente abolito
le pensioni di anzianità, ha proposto la riduzione del tasso di
rendimento della pensione stessa e questo è ciò contro cui si
sono ribellati in massa i cittadini italiani. Se però andiamo
a vedere le proposte sindacali, sono molto vicine a questi provvedimenti,
soltanto che invece di farli arrivare tutti insieme, cercano di
distribuirli nel tempo, tanto è vero che l'inizio dell'intero
processo risale al governo Amato
. Con quel governo, infatti, i sindacati hanno sottoscritto il primo accordo
di blocco delle pensioni per un certo periodo, di slittamento
delle possibilità di andare in pensione con le pensioni di anzianità
e non con quelle di vecchiaia, insomma il processo era già avviato.
Il contrasto di oggi è sulla gradualità
con la quale questo processo deve essere portato avanti, ma tutte
e due le parti convergono sul fatto che sul piano pensionistico
bisogna andare ad una stretta. La differenza è che uno prende
direttamente il collo e lo stringe, l'altro abbraccia il corpo
e lo blocca; quando qualcuno è preso al collo si ribella immediatamente
come è successo in Italia, però anche nel momento in cui vengo
placcato per le spalle, mi trovo comunque a partecipare ad un
processo di impoverimento.
Questo processo di
impoverimento è necessario, si pensa, perché la crisi è questo:
la crisi assume come manifestazione plateale e immediata la
convinzione diffusa che noi abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità
ed ora dobbiamo rientrare nei ranghi, dobbiamo abbassare il nostro
livello di vita, dobbiamo accettare di limitare le risorse che
utilizziamo nella nostra vita quotidiana.
Lo Stato Sociale c'entra moltissimo con questo problema,
perché una situazione assolutamente analoga era quella che si
impose nel corso degli anni '30: anche allora, in Inghilterra,
c'era una situazione di disoccupazione molto elevata (un milione
e mezzo di disoccupati dal 1921, il 10% della popolazione) e ancora
al momento della crisi non era scesa al di sotto di quel livello.
C'era quindi una situazione stagnante. Nel '29, con la Grande
Crisi, le cose precipitano ulteriormente e la disoccupazione sale
addirittura al 18%, al 21% in alcuni anni. Quindi ci fu un impoverimento
sostanziale della società: la ricetta che veniva suggerita dagli
economisti ortodossi, appartenenti al filone dominante, era: «bisogna
fare sacrifici, bisogna risparmiare, abbiamo consumato troppe
risorse». Lo Stato sociale
emerge dal rovesciamento di questo assunto: «noi, in realtà, siamo
più ricchi di quanto i rapporti sociali non ci consentano di essere;
c'è, cioè, una limitazione artificiale nelle nostre condizioni
di esistenza, che deriva dal fatto che come società ci diamo dei
vincoli che ci impoveriscono, che non ci fanno produrre e consumare
cose che potremmo produrre e consumare». Questa cosa, mi rendo
conto che suona strana; io, dovunque giro, anche nei Consigli
di Facoltà dove dominano gli economisti, sento ripetere il luogo
comune che veniva ripetuto anche nel corso degli anni '30, cioè
che è finito il tempo delle vacche
grasse ed è cominciato il tempo delle vacche
magre, che bisogna fare sacrifici.
Il movente del profitto
Un economista inglese,
diventato poi molto famoso, John Maynard Keynes
, dimostrò
molto semplicemente che le cose stavano esattamente all'opposto,
che non si soddisfacevano bisogni, non si facevano partecipare
i lavoratori all'attività produttiva costruendo case, scuole,
ospedali ecc., perché c'era una condizione che prevaleva nell'occupazione:
le persone potevano lavorare
solo se, nel momento in cui lavoravano, producevano anche un profitto.
Il rapporto sociale dominante attraverso il quale si soddisfacevano
i bisogni era il rapporto capitalistico: l'imprenditore avrebbe
dato lavoro solo se da quell'attività produttiva fosse scaturito
un profitto. Questo è il rapporto capitalistico che, nella storia
dell'umanità, è un rapporto assolutamente rivoluzionario, assolutamente
positivo. Se i capitalisti non avessero acquisito l'egemonia all'interno
della società attraverso un periodo molto lungo di trasformazioni,
che va, nella sua parte più significativa, dal 1500 al 1800, non
saremmo qui a parlare come stiamo parlando oggi. Il movente del
profitto ha rivoluzionato completamente la realtà sociale, ha
sottratto le piccolissime risorse disponibili al consumo corrente
per impiegarle nella produzione di mezzi di produzione su scala
allargata. Il profitto, il capitale, è questa forma della ricchezza,
comporta che tutta la ricchezza sia finalizzata alla produzione
per la produzione: lo scopo è quello della continua crescita della
capacità di produrre.
Questo movente ha consentito,
in qualche modo, che gli uomini superassero le loro condizioni
di miseria. Se andiamo a vedere le condizioni di vita della fase
precapitalistica e della prima fase capitalistica, vediamo che
sono condizioni di assoluta miserevolezza. Nella prima fase il
capitale aggrava queste condizioni, naturalmente, perché sottrae
risorse al consumo corrente per destinarle all'accumulazione,
impoverisce nell'immediato la popolazione lavoratrice, ma attraverso
questo movimento, crea le condizioni per una capacità produttiva
che sarebbe stata impensabile nelle epoche passate. Le altre classi
sociali, contro le quali la borghesia ha combattuto, non avevano
lo scopo di attuare tale cambiamento, poiché, essendo dominanti,
si accontentavano del loro consumo superfluo, del godimento nel
lusso.
Il capitale non persegue più questo scopo, persegue lo
scopo dell'accumulazione della ricchezza e in qualche modo crea
delle condizioni assolutamente nuove. Questo meccanismo di sviluppo
è positivo solo fintanto che domina la miseria, solo fino a che
la condizione umana è in generale una condizione di penuria; ma
se il capitale dà forma
alla struttura della società crescono continuamente
i mezzi di produzione, e questa crescita corrisponde ad
un parziale superamento delle condizioni di penuria, diventa possibile
costruire ferrovie, strade, abitazioni, fabbriche, navi, aeroplani,
mezzi di comunicazione come il telefono, la radio: cambia il mondo.
Non resta più il mondo di prima, dominato da forme di produzione
locali dalle quali l'innovazione tecnica viene considerata con
sospetto e viene ostacolata: nasce un mondo completamente diverso,
e quindi quando la penuria
recede, quel tipo di rapporto,
e il suo dominio, non svolge più la funzione che svolgeva
prima, cominciano ad emergere nuovi problemi.
Se noi siamo in grado
di produrre sempre di più, di creare una ricchezza materiale,
se per un certo periodo possiamo dire "continuiamo su questa
strada" e quindi facciamo ritornare la ricchezza materiale
in questo processo di continua crescita dei mezzi di produzione,
poi c'è un momento in cui la ricchezza monetaria o trova uno sbocco
nel consumo, nella vendita, oppure il capitale stesso è stato
dissipato.
Il
capitale non è una entità sociale che è in grado di sostenersi
al di là del consumo, pretende di riuscirci, crede di riuscirci,
pone la ricchezza nella forma solo del valore
di scambio; ma il problema è che la merce o si trasforma in
valore d'uso e soddisfa
bisogni nel consumo, o la ricchezza monetaria non si realizza.
Infatti in tutto il secolo scorso noi abbiamo continui squilibri
tra l'offerta e la domanda: i prezzi crollano, c'è la disoccupazione
di massa, l'impoverimento di massa, una parte del capitale va
distrutta, e bisogna ricominciare di nuovo, su una scala più ampia.
Questo processo di impoverimento deriva proprio dal fatto che
ad una capacità di produrre non corrisponde una capacità di consumare.
Per tutto il secolo scorso questi squilibri si trascinano, ma
l'espansione continua.
Dal 1920, e soprattutto dal 1929, le cose sono molto diverse.
I tassi di disoccupazione massimi di tutto il XIX secolo sono
dell'11% e del 12 % e durano un anno-due anni; in quei periodi
la crisi manifestava tutta la sua intensità, poi la disoccupazione
scendeva al 4, al 3, al 2%. L'organismo dunque andava avanti in
maniera un po' sussultoria, ma andava avanti. Dal 1929, invece,
le cose mostrano una tendenza al ristagno strutturale:
ancora nell'immediato anteguerra, nel '38, la disoccupazione
in molti paesi superava il 15%; allora, a questo punto, non si
trattava più del normale ciclo, poiché si manifesta una strutturale
tendenza al ristagno. Gli imprenditori, i capitalisti, non erano
in grado di precedere sulla via dello sviluppo, come hanno fatto
per tutto il secolo scorso. Il loro modo di far funzionare la
società non era più in grado di mediare uno sviluppo, ed è qui
che Keynes
dice che se noi pretendiamo di utilizzare le risorse solo in
una continua espansione della capacità produttiva, solo come capitale,
non le usiamo: le sciupiamo, le sprechiamo, le lasciamo giacere
inutilizzate. Invece, visto che le risorse
ci sono, visto che le fabbriche sono lì, chiuse, visto
che i lavoratori esistono e sono disoccupati, visto che le materie
esistono e non vengono utilizzate, se noi le usiamo anche quando
non producono un profitto,
allora saremo in grado di assicurare un nuovo sviluppo: il consumo
deve diventare il volàno
dello sviluppo, bisogna far crescere la propensione
al consumo della società, bisogna insegnare agli uomini a
godere ed avvantaggiarsi di quelle capacità che sono state nel
frattempo prodotte dal capitale, che ci ha condotto alle soglie
dell'abbondanza, ma che ha paura di entrare nelle stanze dell'abbondanza perché l'abbondanza corrisponde alla distruzione
del potere del capitale. Se il capitale continua a produrre anche
quando non c'è un profitto, in realtà nega se stesso, non agisce
più come capitale, quindi deve limitare la produzione.
L'intervento dello
Stato
Ci si domandava: chi
può fare questo? I capitalisti non lo faranno. I capitalisti potranno
far crescere i loro consumi, ma la spinta del capitale è quella
di considerare il consumo come una cosa distruttiva e quindi non
c'è da aspettarsi una forte crescita dei consumi (sto parlando
degli anni '30, non di oggi: la società è cambiata da allora
grazie a Keynes
). Se
i capitalisti non lo faranno, deve farlo lo Stato: lo Stato deve
prendere le risorse e impiegarle nella soddisfazione dei bisogni,
deve dare case ai lavoratori facendo produrre gli edili, deve
dare scuole agli alunni, facendo lavorare i maestri, deve fare
strutture di collegamento
fra le varie città, facendo lavorare i costruttori di ferrovie,
ecc.
In conseguenza di ciò
l'intervento dello Stato, che in quegli anni incideva solo per
l'8%, il 9% sul prodotto
complessivo della società, cominciò a crescere fino ad arrivare
ai giorni nostri al 50% e in alcuni paesi come la Svezia al 60%:
di tutto quello che viene prodotto, la spesa pubblica contribuisce
alla produzione complessiva sociale all'incirca per la metà dell'intero
prodotto. A questo processo corrispose un generale arricchimento
della società. Prima vi ho descritto i miei anni giovanili quando
era facilissimo andare a lavorare in Germania o in qualsiasi altro
Paese d'Europa prendendo il treno la mattina, arrivando là e bussando
ad una qualsiasi porta. In Germania nel corso degli anni '60 -
nel 1964 - c'era una domanda insoddisfatta di 700.000 lavoratori,
cioè non solo c'era la piena occupazione, ma c'era una gravissima
carenza di manodopera (io sono stato a lavorare in Germania per
circa un anno, ho cambiato lavoro 8 o 9 volte trovandolo nell'arco
di una settimana).
Dunque, in conseguenza
del mutamento teorico promosso da Keynes
, il
mondo cambia; la disoccupazione,
che si era presentata ciclicamente per tutto il secolo
XIX, e strutturalmente nel corso degli anni '20 e '30, scompare:
in Inghilterra per 20 anni la disoccupazione non supererà mai
il 3%, in Germania non supererà mai il 2% per 20 anni, cioè un
periodo inimmaginabile in epoche precedenti.
La politica del pieno
impiego, che è tutt'uno con l'affermarsi del Welfare State, per
un periodo storico riesce a garantire un grandissimo arricchimento
della società; questo è il periodo in cui l'Italia passa dall'essere
un Paese con un'industria rilevante, ma ancora per metà agricolo,
ad un Paese pienamente industriale. Non so se voi avete idea di
quello che ci separa dal passato: secondo me oggi una città come
Frosinone consuma tanta energia in un anno quanta ne consumava
tutta l'Italia nel corso degli anni '30. Abbiamo avuto una trasformazione
radicale della società; l'analfabetismo, che ancora nel dopoguerra
era al 38%, crolla al 6%, il 50% dei ragazzi ha tra i 13 e 18
anni, e oggi frequenta le scuole superiori, abbiamo quindi una
situazione completamente nuova. Pensate all'aumento della vita
media, che è cresciuta di vent'anni in un arco di tempo di circa
quarant'anni: questa è una ricchezza, ed essa deriva dal semplice
fatto che le persone hanno potuto, in massa, curarsi.
Nel complesso possiamo
affermare che c'è una ricchezza della società che interviene e
che muta profondamente le condizioni generali. Noi però abbiamo
uno strano comportamento nei confronti della vita sociale: quando
c'è uno sviluppo lo consideriamo vero
sviluppo solo se non crea mai problemi. Questo è un atteggiamento
assolutamente fuorviante poiché qualsiasi
sviluppo conduce ad una condizione nuova, con la quale, come
individui sociali, non sappiamo fare i conti. Poiché la condizione
nuova presenta una serie di problemi, perché è il risultato di
un processo di trasformazione, noi non sappiamo dominarla.
Quando è stata introdotta
la televisione, noi non potevamo sapere quello che avrebbe significato
nella vita comune; quando abbiamo cominciato a produrre le automobili
all'inizio del secolo non sapevamo quello che avrebbero comportato
nella vita comune. Lungo la strada, quindi, sono emersi un insieme
di problemi, e lo sviluppo è un processo di creazione di nuovi
problemi. Noi però ancora dobbiamo imparare ad essere uomini "adattativi",
uomini che si trasformano mentre fanno la società, che seguono
il processo e imparano dal processo che hanno messo in atto. Karl
Marx
nel II volume dei Lineamenti
fondamentali della critica dell'economia politica dice che
il comunismo non è altro
che quel processo attraverso il quale gli uomini imparano a cambiare
se stessi continuamente, in rapporto ai cambiamenti che essi determinano
all'interno della società. Gli uomini che sono cresciuti all'interno
della società capitalistica, e ancor meno gli uomini dei secoli
precedenti, non sanno farlo, perché considerano i loro stessi
meccanismi sociali come un qualcosa di naturale.
Allora, quando emergono dei problemi li considerano come qualcosa
di arbitrario, come
qualcosa che non dovrebbe esserci, e non come una cosa normale:
invece di considerare gli eventi che si sono accumulati in questi
trent'anni - ad es. l'inflazione accanto alla stagnazione che
è esplosa nel corso degli anni '70, il deficit del bilancio dello
Stato, il problema della reale soddisfazione dei bisogni attraverso
l'attività generata dalla spesa pubblica, il problema ambientale,
ecc.- come problemi inevitabilmente connessi con lo sviluppo,
li considerano isolatamente. Noi, che siamo individui incapaci
di riconoscere questa realtà, perché mette in discussione le nostre
capacità come individui, vorremmo eliminare questi problemi, e
tutta la crisi deriva proprio da questa opposizione tra il processo
sociale che abbiamo posto in essere e la nostra incapacità di
trasformarci.
La nostra identità
sociale
Sostanzialmente, da
questo contrasto tra una dinamica oggettiva che corrisponde allo
sviluppo dello Stato Sociale,
e un'incapacità soggettiva di cambiare, interviene un
contrasto, un blocco, dunque la situazione di crisi di
cui stiamo parlando. Se noi, invece di opporci ai problemi, cominciassimo
ad approfondirli come problemi, con tutta la sofferenza che implicano,
forse qualcosa potrebbe cambiare. Certo è molto difficile, per
l'individuo singolo, riconoscere di essere una sorta di animale.
Faccio un esempio: tutti noi usiamo continuamente il denaro in
ogni momento della nostra esistenza, ne siamo consapevoli o meno,
sia questa cosa presente alla nostra coscienza o meno: il denaro
media continuamente la nostra vita. Entriamo più nel concreto:
voi di notte dormite in un letto; il letto è stato comprato, le
lenzuola pure, il materasso pure; vi alzate la mattina con una
sveglia che è stata comprata, dopodiché accendete la luce e dovete
pagare la bolletta dell'ENEL;
andate al bagno, aprite l'acqua e pagate la bolletta dell'acqua
(non la pagate subito, non state sempre con i soldi in mano, perché
ormai ci sono delle convenzioni sulle transazioni, ma sono tutti
atti di acquisto), dopodiché accendete il fuoco e pagherete all'ITALGAS
la bolletta; il caffè e la macchinetta li avete comprati; vi mettete
il vestito, l'avete comperato. Quindi noi viviamo di merci, la
nostra vita è continuamente mediata dal denaro.
Ma questo rapporto
(perché il denaro oltre ad essere una cosa che ci portiamo in
tasca è un rapporto),
che noi pratichiamo come un rapporto naturale,
al punto che lo pratichiamo né più né meno come respiriamo, cioè
senza pensarci. Questo rapporto per noi non ha un significato,
non ne conosciamo l'origine, non ne conosciamo i limiti, non ne
conosciamo le implicazioni, non sappiamo a che forma dell'individualità
corrisponda, che cosa è un individuo quando usa il denaro, che
politica sociale pone in essere.
Queste sono tutte cose
che sfuggono completamente alla
nostra percezione, non le sappiamo: accettare queste cose
è come scoprire improvvisamente l'esistenza del cuore quando incomincia
a battere velocemente, e noi sentiamo questa cosa strana che non
è la nostra normalità, della quale ci spaventiamo. Allora che
cosa facciamo? Allontaniamo la cosa perché approfondirla significherebbe
mettere in discussione il nostro stesso essere, e ciò ci spaventa:
è molto più comodo e molto più naturale continuare ad esser come
siamo e ad esteriorizzare i problemi. Fintanto che ci va bene,
fintanto che i soldi arrivano in tasca, il denaro è un rapporto
del tutto ragionevole, molto conveniente, efficacissimo e produttivo
(infatti sul piano della storia dell'umanità, il denaro è un rapporto
assolutamente produttivo). Però il denaro ha i suoi limiti: esso
non consente di per sé la soluzione di molti problemi, tanto è
vero che a un certo punto deve intervenire lo Stato, che interviene
sì sulla base del denaro, ma, per esempio, secondo i suggerimenti
keynesiani, acquisendo un relativo potere di creare moneta; già
questa cosa è del
tutto sconosciuta agli economisti normali,
che hanno letto Keynes
in maniera molto conservatrice.
Allora il fatto di
trovarsi in una situazione nella quale ci sono una serie di problemi
che per essere compresi richiedono una
messa in discussione della nostra identità sociale, è una
cosa che ci fa rifiutare i problemi stessi; se noi però rifiutiamo
i problemi non c'è speranza di uscire fuori dalla situazione di
crisi in cui siamo piombati. E allora qual è la via da percorrere?
Io direi che il bandolo della matassa, oggi come negli anni '30,
sta nel problema della disoccupazione.
La disoccupazione
La
disoccupazione è l'esclusione di una parte della società dalla
vita della società. La vita della società non la facciamo
attraverso il consumo, ma attraverso l'attività produttiva, e
solo chi produce partecipa alla riproduzione della vita della
società. Quindi la disoccupazione è il problema centrale.
Ma come affrontarlo?
Qui c'è il passaggio-chiave di tutto; si sentono spesso ripetere
un sacco di luoghi comuni sulla disoccupazione. Anche dirigenti
sindacali di alto grado, segretari confederali, hanno spesso sostenuto
che il problema della disoccupazione è un problema di volontà,
che se i capitalisti agissero in maniera da occupare le persone
e da non considerare il lavoro come un residuo, il problema della
disoccupazione potrebbe essere affrontato; se il Governo manifestasse
una volontà politica di affrontare il problema della disoccupazione,
esso sarebbe risolvibile. Ma così tutto è semplice, non c'è da
capire nulla: la cattiva volontà è la causa della disoccupazione!
Le cose non stanno così: la disoccupazione ha cominciato a crescere
nuovamente in tutti i paesi quando la Thatcher in Inghilterra,
Reagan
in America, Kohl
in Germania, Amato
da noi e così anche altri,
hanno cominciato a praticare una forte restrizione dell'intervento
dello Stato, quando si è cominciato a dire « basta con lo Stato
Sociale, è andato al di là delle sue previsioni, lo Stato ha assunto
una funzione pervasiva, e siccome è un disastro, il suo intervento
va limitato». Nessuno può negare sostanzialmente che da alcuni
punti di vista lo Stato Sociale sia un disastro, ma io dico anche
che non è un disastro, perché la scolarizzazione di massa è una
cosa realizzata dallo Stato sociale, come l'allungamento della
vita media, che è il risultato delle cure: non dobbiamo usare
misure grossolane e buttare giù lo Stato Sociale, ma riconosciamo
che sono intervenuti una serie di mutamenti
profondi, e che c'è bisogno di altri mutamenti, ma non
neghiamo quei mutamenti.
Comunque, nel corso
degli anni '70, si è passati ad una forte restrizione dell'intervento
dello Stato, e appena è intervenuta questa forte restrizione,
la disoccupazione lentamente ha iniziato a crescere. In Francia,
per esempio, al momento dell'elezione di Mitterrand
c'era una disoccupazione
di circa il 4-4,5% e lentamente
in un anno è passata dal 4,5% al 5,5%. Mitterrand
ha fatto degli interventi
di tipo keynesiano di sostegno della domanda, ma poi c'è stato
il problema del deficit del bilancio dello Stato, quindi ci sono
stati dei tagli, e di conseguenza la disoccupazione ha cominciato
a salire fino ad arrivare a livelli superiori a quella italiana
(la Francia oggi ha più disoccupati di noi, ha il 12,7% di disoccupati).
Allora, lentamente, là dove è stato inibito l'intervento dello
Stato, la disoccupazione è tornata a salire, ed è ovvio che sia
così. Keynes
è stato chiarissimo: la sfera
pubblica sostiene direttamente l'occupazione, perché fa lavorare
le persone, e la sostiene indirettamente perché, dando un salario
ai dipendenti pubblici, consente a questi di comperare altre merci,
e quindi garantisce uno sbocco alla produzione di automobili,
telefoni, televisori ecc. Tagliate la spesa pubblica e ci saranno
disoccupati diretti e disoccupati indiretti, è un'equazione matematica
di una semplicità banale.
Ma che cosa ci dicono
Thatcher e compagni, che cosa ci dicono i conservatori dell'ultima
ondata? Ci dicono: «se noi limitiamo l'attività dello Stato, gli
imprenditori, che sono stati inibiti dall'intervento dello Stato,
torneranno ad investire su scala allargata e il problema di un
nuovo sviluppo sarà risolto e con esso il problema della disoccupazione».
Ma come è possibile, se lo Stato era intervenuto proprio perché
l'accumulazione aveva mostrato tutti i suoi limiti? L'accumulazione
aveva dimostrato quei limiti perché ormai la società era entrata
in uno stadio di relativa abbondanza media (anche se poi c'erano
molti strati sociali che ancora erano poverissimi), e su questa
base lo Stato ha garantito un ulteriore arricchimento della società.
Come potrà mai essere possibile che un nuovo movente accumulativo
guidi un nuovo sviluppo? E' come se dicessimo che si sono create
le condizioni per tornare indietro.
Certo, un problema
esisteva: è vero che all'interno dello Stato si è sviluppata una
forma di parassitismo e di lassismo e dunque si è pensato che
la coercizione, tipica del rapporto interno allimpresa,
potesse garantire un comportamento diverso di una parte dei lavoratori,
costringendoli a fare quello che non facevano. Ma questa è un'illusione,
nel senso che non si riconosce che lo spreco, il parassitismo,
il lassismo, sono elementi che, laddove non si affronta il problema
essenziale, centrale, connesso con le crisi, sono inevitabili.
Keynes
disse addirittura, nel corso degli anni '30: «mettiamo gli uomini a fare delle buche e a riempirle di nuovo». Affermò
questo noi non cogliamo i meccanismi sociali, non comprendiamo
che anche quell'attività, del tutto inutile, sostiene la produzione
attraverso le spese di quelli che scavano buche e le riempiono.
C'è stato, anche grazie a loro, un arricchimento, e quindi noi
abbiamo goduto anche dell'arricchimento che scaturiva indirettamente
da certe forme di parassitismo. Mi rendo conto che le persone
pagano le tasse e dicono: «io pago le tasse e quindi voglio scambio
di equivalenti, non posso pagare allo Stato il 35-40% del mio
reddito e poi avere tutta una serie di attività che sono qualitativamente abbastanza scadenti, non avendo addirittura la soddisfazione
di alcuni bisogni essenziali». Ma in realtà se fosse scomparso
del tutto l'intervento dello Stato, avremmo avuto un'occupazione
e una soddisfazione dei bisogni ancora minore, perché lo spreco
era un elemento funzionale alla continuazione dello sviluppo.
Qual è il problema
che genera questa situazione complessa? Il capitale realizza una
trasformazione fondamentale, positiva, che è alla base dei nostri
problemi attuali, introducendo sistematicamente innovazioni tecnologiche
e innovazioni organizzative: il capitale trasforma continuamente
la produttività del lavoro. Allora accade che per soddisfare i vecchi bisogni è necessario sempre meno lavoro.
Fintanto che si è in
una condizione di povertà, il lavoro che viene reso superfluo
dall'aumento della produttività, può essere impiegato nuovamente
nell'accumulazione: cresce la capacità produttiva, procede l'accumulazione,
quindi l'aumento della produttività del lavoro è la condizione
dello sviluppo e lo sviluppo è mediato da questa continua crescita
della capacità produttiva. Io non so se voi avete la misura di
come cambia la produttività dell'uomo. Il capitale impiega i lavoratori
liberati dall'agricoltura per fare altre cose. Quando arriviamo
agli anni '30, il capitale non riesce più a impiegare i lavoratori
che libera: li rende superflui e rimangono superflui, cresce la
massa delle persone superflue. Allora a questo punto Keynes
dice: «invece di farli stare lì senza far niente facciamogli
fare delle strade, scuole, ospedali, facciamoli insegnare ai ragazzi,
facciamogli costruire delle cose che sono necessarie».
Ci sono i mezzi, c'è
tutto. E nessuno venga a dire che non ci sono, nessuno venga a
dire che non ci sono impianti industriali disponibili. Abbiamo
chiuso lo stabilimento di Bagnoli non appena era stato realizzato
il laminatoio: con una spesa di 1400 miliardi, appena realizzato, il laminatoio è stato chiuso. Perché? Perché in
tutta Europa c'è una sovrapproduzione di acciaio di circa 15 milioni
di tonnellate; la stessa Taranto si dice che debba ridurre significativamente
i propri dipendenti, e tra poco provvederanno a diminuire gli
occupati delle fabbriche di Taranto. Hanno chiuso altre fabbriche
oltre a quella di Bagnoli, quindi noi abbiamo una situazione in
cui tantissime industrie nuove di zecca non hanno mai cominciato
a funzionare. Voi conoscete la situazione di Crotone: hanno fatto
un accordo secondo cui dovevano produrre racchette da tennis in
fibra di carbonio: è stato un imbroglio, hanno rubato una trentina
di miliardi e se ne sono andati. Dopo una lunga trattativa, propongono
dei progetti di riconversione. Uno di questi prevede la creazione
di una grandissima fabbrica di patatine. Notate bene che a non
più di 80 km. c'è una fabbrica di patatine enorme, che può produrre
tonnellate di patatine, che non è mai stata aperta, realizzata
7 anni fa. Adesso vogliono fare una fabbrica di patatine a 80
km dall'altra, che non funzionerà mai, perché tra l'altro c'è
una tale capacità produttiva di patatine in Italia, che onestamente
un'altra fabbrica non serve, anzi sono in corso ristrutturazioni.
Allora, questo è il
quadro: le vacche magre non esistono, ci sono vacche grassissime
che non si sa come mungere, questo è il problema. Allora a questo
punto Keynes
dice: «mettiamoli al lavoro
e procediamo alla soddisfazione dei bisogni senza continuare a
dar prevalenza a questo meccanismo accumulativo». Ma l'accumulazione
prosegue, il capitale non scompare: cresce il peso dello Stato,
ma cresce relativamente mentre cresce la ricchezza complessiva,
e quindi cresce anche il capitale. L'intervento dello Stato non è contro, ma è a sostegno del capitale.
Allora la produttività continua a crescere e raggiunge nella nostra
epoca delle dimensioni tali che l'incremento di produttività sopravanza
la stessa espansione dei bisogni mercantili: la domanda cresce,
ma la crescita della capacità produttiva è maggiore in proporzione
di quanto non cresca la domanda. A questo punto, se si continuasse
a espandere l'occupazione pubblica, avremmo una situazione in
cui bisognerebbe inventarsi lavori totalmente fasulli; ce ne sono
già moltissimi, non solo nell'occupazione pubblica, ma anche in
quella privata. A questo punto lo Stato sociale crollerebbe travolto
dai suoi stessi problemi.
Come si possono immaginare,
senza giungere ad una bancarotta, interventi attivi dello Stato
che realmente facciano fronte al problema della disoccupazione
in Italia considerando che un intervento serio - tale da ridurre
la disoccupazione dall'11% al 6-7% - dovrebbe essere nell'ordine
di 100-150mila miliardi? Immediatamente questo corrisponderebbe
alla catastrofe, perché si pone il problema della liquidità .
Se si seguisse la via non dell'aumento del debito, ma di stampare
cartamoneta, avremmo un'esplosione dell'inflazione ed è una cosa
che non sappiamo comprendere e dominare (e fra l'altro c'è una
disposizione di legge che lo impedisce). Allora la strada è apparentemente
chiusa: certamente non accadrà che il capitale riesca a realizzare
uno sviluppo, anzi la tendenza è quella di ridimensionare l'occupazione.
Certo può aumentare la crescita delle vendite, ma questo non significa
niente: noi stiamo parlando del problema fondamentale della partecipazione
degli individui al processo di produzione, e gli individui sono
in crisi perché non riescono a partecipare alla vita della società,
perché la società sta là come un ammasso di caos, di problemi,
che gli individui non riescono in alcun modo a comprendere e a
dominare. Questa è la radice della crisi.
Lo Stato non può ulteriormente
procedere sulla via sin qui seguita e allora qual è la strada
da percorrere? La strada è quella di procedere ad una generale
redistribuzione del lavoro,
alla riduzione del tempo individuale di lavoro, che si accompagni
alla concomitante redistribuzione del lavoro fra tutti. Questo
che cosa significa? Al di fuori del lavoro, che cosa c'è nella
nostra vita quotidiana? Il consumo. Se andiamo a vedere i conti
economici nazionali, troviamo che la produzione è tale solo ogni
volta che non garantisce direttamente una soddisfazione al soggetto
(ad esempio l'attività della casalinga che cucina dentro casa,
non fa parte del prodotto, della ricchezza nazionale italiana
e questo perché questa attività è svolta per soddisfare i bisogni
dei familiari, è fine a se stessa - non produce denaro - e conseguentemente
non costituisce ricchezza materiale: questa attività non è iscritta
nei conti perché è in contraddizione
con la forma sociale). All'interno della nostra società dominano
un insieme di relazioni che spingono a considerare ricchezza solo
quella che è prodotta all'interno del rapporto di lavoro salariato.
Al di fuori di questa unica forma di produzione c'è solo il consumo.
Per fare un esempio, il volontariato soddisfa bisogni;
allora se la soddisfazione dei bisogni è possibile anche al di
fuori del rapporto di lavoro salariato, certo si pongono tutta
una serie di altri problemi: bisogna cominciare ad affrontare
il problema di come entrare in possesso delle risorse, cioè bisogna
affrontare il problema della proprietà. Io posso produrre al di
fuori del rapporto di lavoro salariato, ma i mezzi e gli strumenti
come li acquisisco? Come entro in possesso delle condizioni per
produrre? I bisogni che cerco di soddisfare come li individuo?
Il volontario semplifica le cose, si guadagna da vivere in qualche
altro modo o ha altri mezzi a disposizione, per questo procede:
qualcun altro gli fornisce i mezzi, magari la parrocchia o un
organismo altro, e lui dà solo la sua attività.
Questo problema emerge, invece, nel momento in cui noi
diciamo: riduciamo il tempo di lavoro perché attraverso il tempo
di lavoro è stato possibile ed è possibile soddisfare un insieme
di bisogni; ma tutti i nuovi bisogni che stanno emergendo richiedono
un rapporto diverso da quello di denaro, richiedono lo sviluppo
di una individualità diversa da quella che corrisponde al lavoro
salariato, presuppongono lo sviluppo di una forma di esperienza
di cui ancora non siamo portatori, che in parte è contenuta embrionalmente
in queste cose come il volontariato, come la famiglia ecc., ma
che nel momento in cui comincia a diventare parte di un processo
generale, richiede mutamenti qualitativi profondi. Allora lì in
qualche modo si insinua il problema di come deve essere il superamento
della crisi dello stato sociale.
Nella pratica finora
noi abbiamo attuato uno sviluppo attraverso un insieme di meccanismi
che devono essere compresi: la forma del denaro, la forma dello
Stato, sono forme dell'essere sociale. Carlo Marx
dice che il superamento della
crisi della società borghese si attuerà soltanto attraverso l'affermarsi
della proprietà individuale, cioè di una forma nella quale il
rapporto di denaro e il rapporto di stato cominciano ad essere
superati: ora qui ovviamente mi fermo perché è come parlare del
mondo futuro.
La disoccupazione:
problema internazionale
Alcuni pensano ancora
che una soluzione al problema della disoccupazione possa venire
dalla possibilità per lo Stato di stampare carta moneta discrezionalmente.
Ma bisogna dire che ogni soluzione semplice, ormai, è da considerare
un imbroglio e lo stampare carta moneta non è una soluzione del
problema: prima di tutto perché non esistono le norme che lo consentano,
e neppure si profilano maggioranze politiche intenzionate a cambiare
queste norme; ed inoltre, la soluzione di stampare carta moneta
poteva andare bene come salvagente, quando comparve, nel dopoguerra.
Questo salvagente ha fatto il suo tempo: il salvagente ti salva
se stai annegando. Ma se poi io riesco a costruire una zattera,
il problema di governare questa zattera è un problema che non
può essere risolto dall'esistenza del salvagente.
Quindi, se al tempo
di Keynes
la proposta poteva essere
utile, oggi non è più così. Ma attenzione: Keynes
avanzava questa proposta
non come la proposta di uno Stato, ma come la proposta della comunità
internazionale. Quando si arrivò agli accordi di Bretton Woods
(1944), Keynes
avanzò la proposta che la
comunità internazionale, per fare fronte alla disoccupazione,
stampasse una carta
moneta che svolgesse la stessa funzione svolta dall'oro, cioè
quella di consentire ai governi di creare moneta. Laddove vi fosse
stato un Paese in difficoltà, esso avrebbe potuto accedere a questo
Bankor (oro delle banche),
la cui quantità sarebbe stata concordata a livello internazionale.
In questo modo, la stampa di carta moneta sarebbe stata del tutto
coerente, perché il problema della disoccupazione veniva già posto
come un problema internazionale.
L'enorme arretramento
sociale di cui soffriamo è testimoniato dal fatto che, a livello
internazionale, al di là di quattro chiacchiere (perché il Summit
di Detroit del 14 marzo u.s. si è risolto in quattro chiacchiere),
sul problema della disoccupazione non si fa assolutamente nulla.
Non si istituiscono organismi di intervento internazionale, anzi,
anche gli organismi sovranazionali che erano stati creati con
gli accordi di Bretton Woods - come il FMI
e la BM
per la Ricostruzione e per
lo Sviluppo - sono organismi che vanno in direzione esattamente
opposta rispetto a quella indicata da Keynes
. Essi
infatti negano qualsiasi possibilità di liberalizzazione dell'intervento
dello Stato attraverso il credito. Essi hanno piuttosto la funzione
opposta, cioè quella di costringere i singoli stati a mantenere
invariato il valore della moneta (puntando solo al controllo dell'inflazione),
qualunque cosa succeda a livello dell'occupazione (gli interventi
del FMI
sono sempre andati in questa
direzione anti-keynesiana).
Allora, nel momento
in cui il problema fondamentale per la comunità internazionale
è quello di salvaguardare il valore del denaro, della moneta,
questo contrasta necessariamente con la soluzione del problema
della disoccupazione. E questo perché il problema della disoccupazione
emerge in conseguenza del fatto che il capitale perde
valore, la ricchezza perde valore, perché essa è più facile
da produrre. Per mantenere invariato il valore della ricchezza
bisogna limitare la produzione, ciò che implica la crescita della
disoccupazione. Quindi gli organismi internazionali operano contro
la soluzione del problema della disoccupazione, e agiscono sui
singoli stati imponendo questa condizione. I singoli stati, dal
canto loro, danno prevalenza alle soluzioni locali, alle soluzioni
nazionali contro gli altri stati (e noi italiani in questo momento siamo prìncipi,
attraverso questa svalutazione
della lira a livelli assolutamente non rispondenti alla
realtà: queste sono forme di concorrenza assolutamente scorretta
che impoveriscono tutti, perché gli altri reagiranno a loro volta
svalutando, cercando di tagliare i costi, innovando tecnologicamente,
noi saremo costretti a rispondere ecc.). Quindi questi sono i
modi peggiori per fare fronte al problema della disoccupazione,
considerandolo come un problema nazionale anziché di tutti.
D. Come si può praticare la via della riduzione dell'orario di lavoro
e come valuta l'innalzamento dell'età pensionabile?
L'innalzamento dell'età
pensionabile è l'esatto opposto della riduzione dell'orario di
lavoro. Infatti ci sono due forme di riduzione dell'orario di
lavoro: una è la riduzione della giornata ed una è la riduzione
della vita lavorativa, nel senso che se coloro i quali devono
andare in pensione vengono trattenuti sul mercato del lavoro,
ovviamente coloro che dovrebbero sostituirli non possono subentrare.
Qui c'è un'occupazione sostitutiva che non ha il normale decorso:
io tra l'altro sono convinto che i circa 800mila disoccupati in
più dello scorso anno sono il risultato del blocco delle pensioni
di Amato
, perché ogni anno vanno in pensione tra i 400 e i 500mila lavoratori:
se si blocca per un anno il pensionamento e si ritarda mediamente
di un anno il pensionamento degli altri, l'effetto che si ha è
quello di avere i 500mila
disoccupati in più. Non c'è niente da fare: o cresce l'invaso,
crescono gli occupati, oppure il blocco in uscita, quando l'invaso
è lo stesso, diventa un blocco in entrata, quindi c'è un aumento
della disoccupazione.
Se si pensa che la
disoccupazione sia l'indice di un impoverimento allora si dice:
bisogna lavorare di più,
tanto è vero che in questo periodo di crisi sono aumentati
gli straordinari anche in quelle aziende che hanno attuato la
cassa integrazione e la messa in mobilità; i lavoratori che continuano
a lavorare vengono fatti lavorare più a lungo con questa storia
delle vacche magre.
Ma come attuare la
redistribuzione del lavoro? Qui dobbiamo essere abbastanza consapevoli
che aldilà di mutamenti marginali (come il passaggio da 40 ore
lavorative a 38 ore che non serve a nessuno perché è un mutamento
talmente marginale che non può avere alcun effetto sull'occupazione,
perché esistono ormai meccanismi tecnici e organizzativi tali
da compensare queste diminuzioni con grande facilità) bisogna
procedere a riduzioni molto più radicali, e cioè una riduzione
ragionevole sarebbe quella di arrivare entro il 2000 a 30 ore
settimanali ed entro il 2005 a 25 ore settimanali.
Solo così possiamo sperare di far fronte al problema, perché
qualsiasi misura al di sotto di questa implica la conservazione
dei disoccupati come disoccupati. Il punto è: se vogliamo far
fronte alla disoccupazione bisogna procedere a continue e drastiche
riduzioni dell'orario di lavoro.
Questa è la misura
astratta: poi si pone il problema di come attuarla. Io sto lavorando
sul problema esattamente da 22 anni: fino a 3 o 4 anni fa non
avrei creduto possibile alcun cambiamento, devo essere sincero.
Adesso vedo che questa idea comincia a diventare una cosa che
si sente più spesso, che circola con più insistenza, appunto perché
sta diventando sempre più chiaro che le imprese come tali non
possono affrontare e risolvere il problema della disoccupazione,
che lo Stato non può continuare a svolgere la funzione che ha
sin qui svolto essendo chiuse le vie tradizionali.
E nessuno dia retta
a questa storia dell'intrapresa personale: la forza lavoro indipendente
in Italia è intorno al 10% e quando cresce tantissimo, sale di
20mila, 30mila, 40mila unità nell'arco di 2 o 3 anni. Qui stiamo
parlando di un ordine che non raggiungerà mai il livello corrispondente
al problema. Quindi dire: si diventi imprenditori di se stessi
significa prendere in giro la gente. L'occupazione imprenditoriale
di tipo autonomo cresce per livelli insignificanti, che non incidono
sul totale.
A questo punto, essendo
tutto chiuso, la cosa che si incomincia a dire, senza sapere bene
ciò che si sta dicendo, è: riduzione dell'orario di lavoro e redistribuzione
del lavoro. Però questo cambiamento investe tutta l'esistenza e in qualche modo rimanda
al bisogno di una profonda trasformazione dell'individualità.
Allora non me la sentirei di affermare che ne risulterà
un'attuazione pratica di qui a breve, cioè che effettivamente
si arriverà entro il 2000 alle 30 ore settimanali ed entro il
2005 alle 25, ma certo sento che cominceranno le discussioni e
le riflessioni più serie e più approfondite.
In alcuni paesi, tra
l'altro, si sta facendo un'operazione che rappresenta il presupposto
negativo di tutto ciò. Ci sono paesi come l'Olanda, nei quali
il 30% di tutti i nuovi lavoratori occupati, anche sostitutivamente,
nell'arco degli ultimi 10 anni, sono a tempo parziale e con paga parziale: allora una riduzione dell'orario
di lavoro c'è, però attuata attraverso la riduzione del salario.
Questo è un processo di impoverimento superfluo: bisogna battersi
per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario perché
è l'unica condizione che mantiene le condizioni di uno sviluppo,
perché mantiene il sostegno della domanda.
Ci sono poi altri paesi
in cui la lotta è un po' più avanti, per esempio in Germania,
dove tutti i metalmeccanici dall'anno prossimo saranno ad un regime
di 35 ore e cominciano a discutere per un ulteriore abbassamento.
Ma i cambiamenti nella
struttura dei rapporti
sociali sono cambiamenti tali che, se si pretendesse di ottenerli
con una unica decisione, si ragionerebbe da illusi.
Voglio fare una parentesi,
consentitemela perché si tratta di un passaggio fondamentale:
non so se voi vi rendete conto del tempo che c'è voluto affinché
il rapporto di denaro diventasse il rapporto dominante, il rapporto
che muove la società. Quando propongo la riduzione dell'orario
di lavoro, ipotizzo che la società si strutturi attorno a questo
tipo di atteggiamento, perché in qualche modo sostengo che in
questa soluzione c'è l'embrione di una comunità, cioè c'è l'embrione
di una forma socialistica di relazione tra gli uomini. Questi
uomini si spartiscono la partecipazione all'attività produttiva
per spartirsi i godimenti che da essa scaturiscono.
Per fare questo passaggio
ci deve essere un orientamento comunitario, ci
deve essere un mutamento nella struttura dell'individualità:
affinché il rapporto di denaro divenisse il rapporto dominante
nella nostra società sono stati necessari all'incirca 700 anni,
perché, partendo dall'ultima fase dei rapporti feudali e dei rapporti
corporativi nelle città, il rapporto di denaro era visto come
un rapporto negativo, che l'individuo pratica distruttivamente.
Per esempio, ancora nel 1100 i commercianti erano emarginati,
non erano la classe egemone, ciò che diventeranno nel secolo successivo,
e il loro lavoro era considerato come un lavoro che non produceva
alcuna ricchezza. Se essi pretendevano di trarre un guadagno dalle
loro attività, che non fosse immediatamente commisurato allo sforzo
che stavano facendo, erano considerati come biechi individui,
una classe bieca (tanto è vero che molti commercianti, per potere
andare in paradiso, alla loro morte lasciavano molti beni e denaro
alla Chiesa cattolica per riscattare una vita "ignominiosa").
Da quel momento comincia tutto un lavoro teorico molto complesso:
si comincia ad affrontare il problema della natura
del rapporto di scambio; si comincia a dire che nel rapporto di
scambio c'è una forma di soddisfazione dei bisogni e che quindi
il commerciante, spostando la materia da un luogo ad un altro,
contribuisce a partecipare alla produzione della ricchezza; lentamente
comincia ad essere elaborata la partita
doppia, senza la quale molte delle cose che fanno parte della
nostra vita quotidiana non sarebbero state nemmeno immaginabili
(si trattava di una forma di rappresentazione della ricchezza,
ed essa ha richiesto una elaborazione teorica di quasi un secolo!).
Le forme del rapporto di denaro si sviluppano lentamente e giungono
a maturità solo intorno al 1400, con l'introduzione della cambiale,
dei titoli di credito ecc. Il denaro diventa quello che noi conosciamo
solo nel '900, quando viene introdotta la carta moneta a corso
forzoso.
Allora un rapporto
che emerge, viene giustificato, si sviluppa nella sua forma, diviene
un rapporto naturale in un arco di sette secoli!
Ora, questo non vuol
dire che noi dobbiamo conquistare questo passo avanti della riduzione
dell'orario a parità di salario in sette secoli, anche perché
fortunatamente i processi di trasformazione si sono molto accelerati
e noi oggi impariamo molto più celermente di quanto imparassero
i nostri antenati 150 o 200 anni fa. Però è di un processo di
trasformazione sociale che stiamo parlando. La condizione è: 30
ore entro il 2000 e 25 ore entro il 2005. Dobbiamo aspettarci
che questa cosa non accadrà, che la disoccupazione tenderà a crescere
anche notevolmente, che ci sarà un processo di impoverimento e
allora, probabilmente, la forza oggettiva di questa proposta apparirà
più evidente e potremo cominciare a lavorare molto più seriamente
di quanto non si faccia oggi.
D. La crescita enorme della produttività del lavoro genera, dunque, disoccupazione;
è sulla produttività del lavoro che dobbiamo agire, rallentando
i processi di innovazione tecnologica?
Il problema è che noi
abbiamo una situazione di crisi dovuta al fatto che abbiamo una
serie di bisogni insoddisfatti. Se questa situazione di insoddisfazione
dei bisogni non ci fosse, allora potremmo mettere due persone
a lavorare su un trattore (e svolgere in molti dei lavori che
richiedono meno lavoro). Ma la crisi scaturisce dal fatto che
noi vogliamo di più,
vogliamo impiegare le capacità e la forza produttiva per soddisfare
dei bisogni insoddisfatti, in maniera quindi più
produttiva.
D. Ma in un sistema concorrenziale, come attuare da soli la riduzione
dell'orario a parità di salario? Se questo avvenisse soltanto
a livello del singolo Stato i concorrenti non se ne avvantaggerebbero?
Quando un economista
(in genere sono i miei colleghi che fanno questo tipo di passaggi
logici) ragiona in questo modo io dico che è un ignorante profondo.
Facciamo ancora l'esempio del denaro: il denaro è un rapporto
che presuppone una serie di relazioni universali. Infatti se io
ho del denaro e mi incontro con delle persone che non lo accettano,
questo denaro mi è inutile, non rappresenta un potere sociale.
Quindi anche per il denaro si è posto un problema esattamente
uguale a quello che si pone per la riduzione del tempo di lavoro.
Nella Storia ci sono stati alcuni individui i quali hanno cominciato
- con difficoltà - a praticare il rapporto di denaro ed hanno
cercato di trascinare gli altri a praticare questo rapporto. Noi
siamo purtroppo molto fuorviati dal fatto che per noi il denaro
è un rapporto naturale e pensiamo ad esso come ad uno strumento.
Ma il denaro non è affatto uno strumento: il denaro fa l'individuo,
è un modo di essere dell'individuo, è un rapporto, una relazione.
Presso alcuni popoli dell'Africa, ad esempio, se tra membri della
stessa tribù un individuo ne invita un altro a fare un lavoro
e gli offre in cambio del denaro, questa persona si offende; la
persona che ha offerto il denaro viene emarginata perché ha messo
in discussione il modo normale di rapportarsi nella comunità.
Abbiamo detto che il
denaro per imporsi come rapporto ha richiesto un lungo tempo e
ha richiesto che coloro i quali capivano il lato positivo del
rapporto di denaro lottassero contro coloro i quali cercavano
di ostacolare la sua diffusione. Per coloro i quali sono convinti
della produttività della riduzione dell'orario di lavoro c'è lo
stesso problema: bisogna creare le condizioni per la soluzione
del problema, cioè bisogna attuare il processo di trasformazione
che conduce al riconoscimento internazionale della positività
della riduzione dell'orario di lavoro.
D'altra parte, parlando
di competitività si intende affrontare i problemi a livello nazionale
e cercare di risolvere le questioni all'interno del proprio angusto
terreno, dimenticando gli ultimi 80 anni di storia. La disoccupazione
negli ultimi 80 anni si è sempre presentata come un problema generale.
Essa non è solo un problema nazionale e non è un fatto congiunturale,
ma sta invece diventando sempre più un fatto strutturale, perché
ormai si è raggiunto il punto di svolta aldilà del quale la produttività
del lavoro, anche nei servizi, aumenta più di quanto non cresca
la domanda.
E allora dove si mettono
a lavorare le persone? Poiché la soluzione del problema va posta
sul piano internazionale, è evidente che bisogna lavorare affinché
la comunità internazionale persegua lo scopo della riduzione dell'orario
di lavoro, ma il problema è che non si può cominciare tutti insieme:
qualcuno deve cominciare, nel senso che bisogna cominciare delle
lotte localmente per poi generalizzare il discorso. Lungo la strada
si possono scoprire molti marchingegni per neutralizzare coloro
i quali sono ancora molto legati ai vecchi rapporti. Non è vero
che non ci sono spazi. Se noi imboccheremo
la strada, poi si tratterà di trovare soluzioni concrete,
che scaturiscano dalla situazione concreta. La cosa peggiore da
fare è dire: se non esistono soluzioni immediate è inutile provarci.
Si potrà anche perdere qualche battaglia, ma se il problema è
imposto dall'evoluzione
oggettiva dei sistemi economici, bisognerà farci i conti.
Pensare ad una prospettiva
globale significa, dunque, pensare a livello locale (e quindi
riferirsi al particolare), e contemporaneamente a livello generale.
Se non si tengono insieme i due momenti, cioè se noi vediamo il
generale ed eliminiamo il particolare, poiché cancelliamo le differenze,
le articolazioni, non riusciamo mai a cogliere i problemi. Così
avremo sempre forme mistiche di spiegazione dei problemi.
Il punto di fondo è
il passaggio all'individuo comunitario - che diventa tale innanzitutto rivendicando
la redistribuzione del lavoro. Per l'individuo comunitario l'esistenza
della disoccupazione non è un problema astratto: è un problema
concreto, di cui percepisce la distruttività in continuazione.
L'individuo comunitario non può dire «adesso
ho un lavoro, e il problema della disoccupazione lo affrontiamo
indirettamente in via politica generale e siccome in via politica
generale sembra esserci una grande confusione, allora non si fa
niente». Il punto è proprio questo: il bisogno di risolvere
la disoccupazione gli appare come un bisogno che immediatamente
vale nei suoi confronti, che non è astrattamente presente come
qualsiasi altro bisogno, perché la disoccupazione riguarda il
problema della partecipazione alla vita della comunità, e questo
lo muove immediatamente. A questo punto l'individuo comunitario
cerca praticamente e attivamente una soluzione, non si accontenta
di restare merce («Essendo
io andato bene come merce, avendo io un lavoro, quanto mi dispiace
per gli altri - però io come merce sono confermato, il rapporto
di merce mi va bene, mi vendo e, ricevendo un salario, non vedo
in modo così distruttivo questo rapporto». Ma certamente questo
è un rapporto distruttivo per coloro i quali non riescono a vendersi).
E allora compreso il nostro essere
merce, siccome esso è parte del tutto - il mercato è un tutto
- siamo noi, con la nostra accettazione della lunghezza della
giornata lavorativa data, che produciamo la disoccupazione dei
nostri compagni disoccupati. Se noi lottassimo per una durata
della giornata lavorativa che consentisse anche agli altri di
lavorare, creeremmo le condizioni per la loro occupazione.
Non riusciamo a comprendere
la disoccupazione se non comprendiamo il funzionamento della società
nel suo complesso. La disoccupazione non è un fenomeno che si
verifica alla Alenia, alla Fiat ecc. Succede in questi luoghi
fisici, ma ciò è la conseguenza della interazione di tutti gli
elementi del processo di produzione nazionale e internazionale.
E' da questa interazione complessiva del generale, del tutto,
che scaturisce la disoccupazione. Noi invece ci rapportiamo al
problema come se fosse una somma di particolari. Ma pur trattandosi
della manifestazione di un insieme di situazioni particolari,
la disoccupazione scaturisce dall'interazione complessiva dell'organismo.
E allora se non c'è
un rapporto con l'insieme, se non sudiamo e fatichiamo, non comprenderemo
come funziona la società, che cosa c'è nella società che involontariamente
determina la disoccupazione. Il fatto che ad esempio Agnelli
voglia la disoccupazione
è falso, è una illusione che noi utilizziamo per semplificare
il problema, facendolo rientrare in una banale casella: quella
della pura volontà. Se Agnelli
potesse procedere nel processo accumulativo, se potesse impiegare
lavoro, sarebbe ben felice - ciò significherebbe che la società
procede attraverso la sua
mediazione, che il capitale è una forma produttiva delle relazioni
sociali, perché consente uno sviluppo. Il primo a volere una soluzione
del problema della disoccupazione all'interno
dei rapporti capitalistici è il capitalista stesso. Quindi
dire che il capitalista licenzia per cattiva volontà è una scemenza.
Il problema da porsi è: perché non riesce a dare occupazione nonostante
voglia, perché è costretto a licenziare appena scopre di avere
una perdita?
Allora qui cominciamo
a scoprire che noi condividiamo molte delle categorie della classe
dominante, pensiamo come la classe dominante, ed
in questo modo tenderemo sempre a rifiutare i problemi
della società, perché essi ci faranno paura. Se invece cominceremo
a lavorare all'acquisizione della necessaria consapevolezza, cominciando
a comprendere che cosa è il rapporto di denaro, che cosa è il
capitale, che cosa è stato e che cos'è lo Stato Sociale, come
queste cose hanno garantito in passato un enorme sviluppo della
ricchezza e come oggi ostacolino l'allargamento della soddisfazione
dei bisogni, se lavoreremo attentamente su tutto questo, allora
diventeremo esseri sociali.
Una delle cose più belle scritte da Marx
è che, all'interno della società nella quale domina il rapporto di denaro, gli
uomini sono strettamente legati tra loro, ma pretendono di non
esserlo. Il rapporto di denaro è un rapporto nel quale ognuno
agisce in collegamento e dipendendo dagli altri (tanto è vero
che ognuno vende la sua forza lavoro ad altri, riceve un salario
e compera prodotti o altre attività da altri) e questo rapporto,
questo legame che unisce tutti, lega tutti anche se gli uomini
non se ne accorgono (quando compro un bene non vedo la faccia
delle persone che l'hanno prodotto, ma solo una confezione). Dunque
gli uomini sono stretti in un legame generale. Tutto fa la loro
vita (pensate a Chernobyl e al tipo di rapporto che lega gli uomini).
Siamo legati, quello che fa ciascuno di noi determina la vita
di tutti gli altri. Ormai gli uomini hanno creato un sistema universale
di relazioni. Il denaro ci suggerisce: «chi se ne frega! Se anche
c'è questo sistema universale di relazioni, io penso ai fatti
miei, agisco come proprietario privato, e finché mi va bene questo
sistema funziona». Quando invece si viene esclusi, allora ci si
accorge della distruttività del rapporto di denaro, si evoca lo
Stato, il diritto al lavoro: lo Stato per un po' interviene, svolge
un ruolo positivo, ma poi l'individuo deve immediatamente diventare
un individuo sociale, deve capire che cosa succede, per quale
ragione ci sono dei disoccupati, perché c'è l'inquinamento ecc.
Questo passaggio non
è possibile se non c'è una appropriazione dell'insieme della società.
Bisogna cioè imparare a conoscere i meccanismi di funzionamento
dell'insieme della società.
Spesso invece le discussioni
politiche non sono discussioni che servono ad approfondire realmente
la conoscenza della società. Spesso vanno avanti per simpatie
od antipatie, per posizioni a priori, e attraverso generici riferimenti - molto astratti e molto
idealistici - a forze contrapposte che indubbiamente fanno da
punto di riferimento, ma che si rivelano inutili se si risolvono
solo nel dire che si sta da una parte o dall'altra. Dire che si
sta dalla parte dei lavoratori è sacrosanto, ma poi, quando si
sta dalla parte dei lavoratori, oppure si riesce a spuntare una
vittoria alle elezioni, gli uomini non sanno che cosa fare. Io
ho spesso avuto la convinzione che se avessero vinto le elezioni
politiche i Progressisti [siamo nel 1994,
N.d.R.], avrebbe potuto essere un guaio, perché molte delle
cose che sta facendo Berlusconi
avrebbero finito per farle
i Progressisti.
Sulle pensioni, ad
esempio, c'è una gradualità diversa nelle posizioni, ma se andiamo
a vedere le proposte, queste sono analoghe. Gli stessi sindacati
stanno dicendo che non appena interverrà uno squilibrio nei conti
previdenziali, bisognerà ridurre il tasso di rendimento o aumentare
i contributi. Quindi non viene riconosciuto un fatto fondamentale,
cioè il fatto che il problema del continuo aumento della produttività
del lavoro muta i termini della questione. L'aumento della produttività
del lavoro fa sì che mutino le condizioni per la soddisfazione
dei bisogni. Allora se si crede - come purtroppo credono i sindacalisti e molti dei partiti
della sinistra - che ciò
che serve a garantire il futuro è il denaro accantonato e i suoi
frutti, siamo completamente fuori strada. Passare dal sistema
pensionistico a ripartizione al sistema a capitalizzazione significa
che ognuno mette da parte del denaro per riprenderlo, dopo che
ha fruttato, quando sarà vecchio. Ma non sono i soldi che determinano
la garanzia del mantenimento da anziano. Quello che dà la garanzia
del mantenimento dell'anziano è l'incremento della produttività
del lavoro, per cui quando sarò vecchio l'effetto dei lavori che
ho posto in essere durante la mia vita - e che hanno posto in
essere gli altri - farà sì che sarà necessario molto meno lavoro
di quanto non fosse necessario quando ho cominciato a lavorare.
E allora c'è uno scambio
ineguale tra il lavoro passato e il lavoro attuale, per cui io
posso godere dei frutti dell'aumento della produttività. Se
mi si dice: ne godrai solo se hai messo i soldi da parte, si finge
che siano i soldi a produrre i frutti e non il lavoro. Cioè si
ragiona esattamente come ragiona il capitalista, e tra l'altro
un tipo di capitalista che non svolge neppure una funzione produttiva
- i soldi da soli non producono proprio niente, se vengono investiti
c'è qualche speranza che si riescano ad ottenere dei risultati,
e i risultati saranno produttivi solo se quell'investimento è
un investimento produttivo.
Questa diversa analisi
è quello che davvero distingue, ma purtroppo molti dei nostri
compagni di strada, vedono le cose in maniera esattamente uguale
a come le vedono coloro i quali spingono per i tagli alle pensioni:
pensano all'equilibrio dei conti, nel presente e nel tempo: «Riceverete
quello che avete dato». Ma perché? Se il lavoro muta continuamente
la sua capacità produttiva, quanto dato allora serve per ottenere
di più ora. Se muta la produttività del lavoro c'è creazione di
ricchezza senza lavoro, e allora perché non dovrei goderne negli
anni in cui non posso più contribuire all'attività produttiva
(Le cose sono molto più complicate di così. Ci sono almeno altri
cinque o sei passaggi da compiere, sto semplificando per far comprendere
le diverse impostazioni).
Docente di Teoria
e Politica dello sviluppo, università di Roma "La Sapienza"
13/12/1994
Vorrei partire da un tema che può sembrare abbastanza tecnico: quello
della misurazione dello sviluppo. Io credo in realtà, e cercherò
di dimostrarlo, che non si tratti di un problema tecnico, perché
ogniqualvolta si cerca di misurare un fenomeno dobbiamo prima
individuare questo fenomeno, cioè definirlo chiaramente, prima
di misurarlo. Dietro alle diverse definizioni di sviluppo vedremo
che possono esserci visioni alternative sia di tipo teorico, sociologico,
economico o filosofico, sia, a partire da queste diverse visioni,
sulle politiche necessarie per eventualmente favorire questo sviluppo,
per capirlo o condizionarlo.
Che cos'è dunque lo
sviluppo? Dal punto di vista economico tradizionale lo sviluppo
è la capacità di accrescere
la quantità di beni che vengono prodotti all'interno di un'area,
che può essere uno Stato, una regione o una città. L'accrescimento della possibilità di produrre beni materiali e immateriali
è chiamato sviluppo.
In realtà la grossa discussione che è stata messa in atto, soprattutto
da coloro studiano i problemi dei paesi
del Terzo Mondo, ha
portato alcuni a sostenere che questo non è vero sviluppo.
Il fenomeno che risponde
alla definizione data è in realtà una crescita.
Si ritiene quindi che si debba differenziare fra concetto di crescita
e concetto di sviluppo,
dove il concetto di crescita definisce un fenomeno puramente quantitativo
(quanti beni si è in grado di produrre, così da poter confrontare
se si produce di più o di meno rispetto al passato), mentre il
concetto di sviluppo definisce un fenomeno di tipo qualitativo che è indescrivibile
attraverso i semplici dati quantitativi relativi alla crescita.
Infatti ad un aumento del 5% della crescita (di solito identificata
con un aumento del reddito, del PIL, del 5%) non è affatto detto
che corrisponda un miglioramento, uno sviluppo dell'economia del
5%. Ciò avviene perché un aumento del 5% del reddito può risultare
in un determinato Paese da fenomeni molto diversi fra di loro,
e questo può determinare effetti molto differenziati sulle condizioni
di vita: si pensi alla distribuzione del reddito. Un aumento del
5% del reddito nazionale prodotto può risultare da un aumento
del reddito del 10% per il 50% della popolazione, verificatosi
mentre il restante 50% della
popolazione non vede crescere il suo reddito. Due paesi
possono crescere entrambi al 5%, ma in settori diversi
(uno accresce del 5% la produzione di beni materiali, l'altro
accresce del 5% la costruzione di ospedali) e questo è rappresentato
quantitativamente da una stessa cifra, pur risultando da fenomeni
molto diversi.
Quello che ora si sta
scoprendo è non solo la diversità dei due concetti, ma anche la
possibilità che persino il solo dato quantitativo (nel nostro
esempio l'aumento del 5%) possa essere un dato falso, e non solo
espressione di una prospettiva diversa. Anche la possibilità di
misurare l'aumento della produzione implica già delle scelte che
si basano su un modo preciso di affrontare l'analisi della situazione
reale. L'esempio che si può fare è quello abbastanza noto degli
enormi tassi di incremento annuo della produzione che si stanno
registrando in Cina (oltre il 10% annuo). E' reale questo incremento
annuo? Se andiamo a vedere le statistiche sembrerebbe di sì. Questo
incremento abnorme in realtà cosa può nascondere? Nel caso della
Cina sicuramente nasconde il fatto che il prodotto, ciò che è
misurato ed entra nelle statistiche, è la quantità di merci e
servizi che entrano nel mercato, che in qualche modo hanno un
prezzo, e questo prezzo è valutato attraverso il mercato. Ma ci
sono moltissime merci che non passano attraverso il mercato. Queste
merci esistono, vengono prodotte, consumate ed utilizzate, ma
non passano attraverso il mercato.
Ognuno di noi si sarà
cotto un uovo. Nel momento in cui qualcuno trasforma un uovo della
sua gallina da un oggetto rotondo in una frittata, mette in atto
un processo produttivo. Se mangia quest'uovo, in realtà questo
tipo di operazione non incide minimamente sul calcolo del prodotto.
Se invece quest'uovo viene mangiato in un ristorante, il passaggio
da uovo a frittata è calcolato nel prodotto, perché c'è stato
un processo di trasformazione che è passato, col pagamento del
prezzo, attraverso il mercato.
Questo che cosa vuol
dire in un Paese sottosviluppato? Ci sono dei paesi sottosviluppati
in cui, per esempio, il 70-80% del consumo e della produzione
non passa attraverso il mercato, non è rilevato statisticamente,
è consumo familiare, di villaggio, o di piccoli mercatini di villaggio
non rilevati e tutto questo quindi non contribuisce al prodotto
interno lordo (PIL). In Cina - per restare nell'esempio - una
grande quantità di persone svolgeva una attività per il sostentamento
fisico, che era quella di prodursi il necessario dal punto di
vista alimentare e manifatturiero, ed i beni venivano scambiati
attraverso il baratto, senza prezzi, senza rilevazione di questo
tipo di produzione. Poi i villaggi si sono spopolati e si è assistito
a un esodo verso le città e le persone hanno perduto la loro capacità
iniziale, che era quella di produrre per la propria sopravvivenza
e hanno dovuto cercare altre soluzioni. Avranno dovuto svolgere
un'attività che sarà stata remunerata con un salario, con il quale
avranno acquistato ciò che prima producevano per conto loro. Anche
nel caso limite in cui attraverso l'urbanizzazione queste popolazioni
si trovino a guadagnare un salario che li obbliga a ridurre i
loro consumi alimentari rispetto a quelli della loro vita nei
villaggi, nonostante questo peggioramento, questa diminuzione
quantitativa dei beni alimentari da loro consumati, il reddito
risulterà comunque aumentato per effetto dello spostamento da
un reddito non rilevato ad un reddito rilevato, sia pure inferiore.
E questo fenomeno,
per chi viaggia un po' nei paesi
del Terzo Mondo, è un fenomeno evidente, perché uno dei
processi che accomuna un po' tutti i paesi
del Terzo Mondo è questo processo della crescita abnorme
delle città. Questo processo di urbanizzazione, a causa di tutte
le persone che avevano una loro autonomia di produzione e di consumo
non rilevata (il famoso autoconsumo), e che per vari motivi (può
essere una guerra, una carestia o semplicemente il "sogno
di migliorare") si spostano verso le città,
determina il fatto che nel momento in cui si trovano in
città, per effetto del solo spostamento, si produce un aumento
del reddito. Questo problema è molto rilevante perché molto spesso
il tasso di crescita del reddito dei paesi sottosviluppati non è una variabile significativa per capire
cosa succede in questi paesi . O meglio, è una variabile significativa
se non aumenta: se c'è
una diminuzione del reddito, come avviene in molti paesi
dell'Africa, vuol dire senza dubbio che qualcosa di negativo
è successo. Quando ci sono valori positivi, invece, non è possibile
dire molto. Spesso anche in questi casi ci sono stati fenomeni
negativi, e comunque non è affatto pacifico che sia avvenuto qualcosa
di positivo.
Tuttavia il reddito
è considerato dagli economisti una variabile significativa per
la misurazione dello sviluppo, per quanto - come abbiamo visto
- l'uso di tale variabile non sempre sia corretto. C'è una logica,
in realtà, che spinge a misurare in questo modo le performance
dei paesi sottosviluppati:
la logica viene dall'idea che tutti i paesi , ed in particolar modo quelli
sottosviluppati, per crescere debbano seguire il sentiero già
percorso dai paesi occidentali.
Un modo per capire se si sta effettivamente percorrendo questo
sentiero è proprio quello di controllare l'aumento del reddito,
per vedere se aumenta la parte di reddito
"moderno". Tutta l'attività produttiva, di consumo,
autogestita e di autosostentamento, viene considerata come il
passato, il vecchio, l'arretrato, la parte primitiva della società
sottosviluppata. Il passaggio ad un modo di produrre e consumare
rilevabile e moderno, anche se comporta una riduzione del tenore
di vita, di per sé è un fatto di modernizzazione e quindi attesta
l'imbocco del sentiero corretto. Quindi la maggioranza degli economisti
che si interessano di problemi di sviluppo, specialmente in questi
ultimi tempi, hanno questo tipo di concezione e anche tutte le
ricette di politica economica che vengono (con le buone o con
le cattive) "consigliate" ai paesi
sottosviluppati derivano da questa concezione e sono analoghe
per tutti i paesi. Se leggeste le pubblicazioni della BM
o del FMI
, vedreste che il tipo di ricette (i famosi Piani di Aggiustamento Strutturale)
sono applicate in modo analogo in Burundi, in Angola, in Brasile,
in Tailandia, indipendentemente dalla situazione del Paese, perché
ormai la teoria dominante ritiene che questo sia il sentiero dello
sviluppo, che queste siano le variabili economiche importanti
e valide per tutti, l'obiettivo essendo quello di far diventare
tutti i paesi come la Svezia o come gli Stati Uniti - a seconda
delle preferenze.
Ora, la cosa drammatica,
per gli economisti che studiano questi fenomeni, ma soprattutto
per questi paesi , è che in realtà questi tassi di crescita non
sono correlati con quasi nessun indicatore di benessere delle
popolazioni.
Parallelamente a questo
filone di interpretazione economica dei problemi dei paesi
del Terzo Mondo, si sta sviluppando, anche a livello degli
organismi internazionali, un'idea che è quella che gli economisti
debbano fare questo lavoro di valutazione, ma
che questo non sia sufficiente e che si debba misurare
qualcos'altro: lo Sviluppo
Umano. L'obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere quello di
far star meglio le persone, quindi si deve cercare di misurare
variabili molto più ampie di quelle relative alla produzione,
per poter individuare qual è lo Sviluppo Umano della popolazione.
Il progetto - secondo me in origine meritorio - è iniziato 4 anni
fa [nel 1990, N.d.R.]
dall'UNDP
[United Nations Development
Program, N.d.R.], un
organismo dell'ONU
, che ha cominciato a calcolare un Indice di Sviluppo Umano (ISU), cercando
di combinare fenomeni di tipo economico con fenomeni di tipo sociale,
con l'ambizione iniziale di introdurre nella valutazione anche
fenomeni di tipo politico, cioè di valutazioni del benessere non
solo materiale, ma anche "spirituale", politico e di
partecipazione delle persone. Purtroppo l'ONU risente, così come
le organizzazioni ad esso collegate, delle difficoltà di accordo
fra gli Stati e molti paesi
hanno molta paura di questo tipo di analisi. Molti paesi
sottosviluppati temono questo tipo di analisi perché tutti
i prestiti e i finanziamenti della BM
o del sistema dell'ONU che
tali paesi richiedono,
vengono concessi in base alle rilevazioni del reddito tradizionale,
che non deve aumentare troppo per continuare a beneficiare degli
aiuti. La variabile del reddito è in genere rilevata da BM
e FMI
, ma anche tutta la struttura delle statistiche di tipo sociale è curata
da questi organismi. Da parte dei paesi
sottosviluppati è abbastanza semplice nascondere reddito
(il suo valore dipende dal modo con cui si calcola l'incidenza
della spesa pubblica o della tassazione sul reddito, dal modo
con cui si calcolano i prezzi e dal tasso di cambio che viene
utilizzato). Se il reddito viene calcolato nel modo
tradizionale i paesi sottosviluppati possono con una certa
facilità nascondere eventuali aumenti di ricchezza, che comprometterebbero
la concessione dei prestiti, mentre le statistiche fondate sullo
sviluppo umano, quelle che riguardano essenzialmente la speranza
di vita alla nascita e il tasso di istruzione (si tratta di un
indice combinato che comprende il grado e il livello di alfabetizzazione),
sono molto più difficili da nascondere, perché basta fare un campionamento
statistico e rilevare in modo molto semplice e affidabile i dati
effettivi. Da queste rilevazioni si vede che molti paesi
del Terzo Mondo hanno avuto un grosso aumento del tasso
di sviluppo umano (della speranza di vita alla nascita e del grado
di istruzione) e la classificazione dei paesi
secondo il reddito è profondamente diversa da quella che
si ottiene utilizzando queste variabili ed inoltre, utilizzando
queste variabili, si apprezza un minore divario fra paesi
sottosviluppati e paesi
sviluppati.
Quindi quello che è
successo all'UNDP
, che era partito da intenzioni nobili - la misurazione dello sviluppo
umano non solo attraverso il reddito, ma anche attraverso la qualità
di vita delle persone - è stato di trovare l'opposizione all'utilizzo
di queste statistiche proprio da quei paesi
che dovevano essere teoricamente i più interessati. Inoltre
non c'è stato appoggio
a questo tipo di rilevazione neppure da parte dei paesi
sviluppati.
Questo è avvenuto per
due ragioni: prima di tutto perché nel primo volume pubblicato
dall'UNDP
sullo Sviluppo Umano c'era
l'infelice idea di fare una classifica sulla "correttezza
politica" dei vari paesi . Si trattava di un indica composto
da varie voci in cui c'erano valutazioni sulla democraticità del
Paese (sulla libertà di stampa, sull'esistenza o meno della pena
di morte, sull'esistenza o meno della carcerazione preventiva,
sui diritti politici e civili, sulla parità fra uomo e donna e
così via). Ed il risultato di queste classifiche era che molti
paesi industrializzati
(ad esempio gli USA, ma anche l'Italia od il Giappone) precipitavano.
Ed i paesi che venivano
indicati come i simboli della possibilità per i paesi
del Terzo Mondo di "modernizzarsi" (Corea del
Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) andavano proprio nelle parti
basse della classifica (perché si tratta di paesi
in cui c'è una grossa discriminazione politica e così via).
Con l'alibi che si trattasse di una forma di ingerenza negli affari
interni dei singoli paesi, dunque, anche i paesi
industrializzati hanno respinto questi differenti criteri
di misurazione (perché il Paese che prevede la pena di morte dovrebbe
essere valutato come meno corretto politicamente di un altro che
non la prevede?). Questo tipo di "classifiche" implicherebbero
l'esistenza di una possibile eticità mondiale, che - si dice -
non c'è. Non esistono valori assoluti: se si vuole qualificare
lo sviluppo umano si deve tener conto delle situazioni e delle
realtà particolari, che in certe situazioni culturali, di tradizione
secolare, possono rendere necessaria questa o quella scelta politica
ecc. Si tratta dello stesso tipo di argomentazioni che vengono
utilizzate per affrontare il problema della parità uomo-donna
o quello demografico: ogni
Paese ha i suoi valori e quindi dovendo qualificare lo sviluppo
attraverso questi valori tutti i paesi
si chiudono a riccio. Quindi l'UNDP ha incontrato persino
difficoltà ad ottenere i finanziamenti, a causa di questo interesse
combinato a non voler affrontare questi temi.
Lo scontro nella misurazione
dello sviluppo è dunque tra due posizioni: la prima intende misurare
lo sviluppo solamente dal punto di vista economico (la crescita
economica è alla base della crescita complessiva) sulla base del
reddito, della produzione e dello scambio, nella convinzione che
le variabili sociali e umane seguano quelle economiche, non avendo
la possibilità di una crescita indipendente, e quindi l'attenzione
della politica internazionale e della politica economica deve
essere prioritariamente concentrata sulla crescita economica.
La seconda posizione considera la prima errata per due motivi:
innanzitutto per un motivo empirico e cioè che la crescita non
cè (questi paesi rimangono
ancora sottosviluppati: quando nacque l'economia del sottosviluppo
dopo la seconda guerra mondiale, gli economisti scrivevano che
in dieci, quindici o vent'anni, ci sarebbe stata omogeneità tra
paesi industrializzati
e non, che con un miglioramento delle politiche economiche e del
funzionamento del commercio internazionale i paesi
arretrati avrebbero raggiunto gli altri, anche perché i
due blocchi contrapposti USA-URSS avevano entrambi interesse a
far sviluppare tutti i paesi
per dimostrare che il loro sistema era migliore dell'altro.
Questo non solo non è avvenuto, ma tutte le statistiche ci dicono
che le distanze sono aumentate); il secondo motivo per cui si
critica la prima posizione è che specialmente nei paesi
industrializzati, si è visto che molte variabili legate
alla qualità della vita non necessariamente sono legate all'aumento
della quantità di beni prodotti e consumati, che questa relazione
è una relazione che sempre più può essere messa in discussione.
Ci sono dunque alcuni economisti - pochi - e molti sociologi,
antropologi ed ecologisti, che ritengono necessario avere un concetto
diverso di sviluppo: cercare di immaginare la possibilità di tragitti di sviluppo diversi.
La cosa drammatica,
però, è che la stragrande maggioranza degli studiosi che cominciano
ad avere un ottica di questo tipo sono studiosi dei paesi
sviluppati, che trovano una enorme difficoltà ad impostare
questo tipo di discorsi con economisti, studiosi o sociologi che
vivono nei paesi del
Terzo Mondo: l'atteggiamento che ci troviamo di fronte è quello
di chi ci dice: «tu parli così perché hai la pancia piena». Gli
studiosi dei paesi sottosviluppati
partono dal presupposto che in realtà i loro problemi sono legati
alla sopravvivenza, alla possibilità di avere una crescita economica,
di produrre, e non
sono quelli del capitalismo avanzato in cui ci si preoccupa di
pensare a uno sviluppo alternativo, alla qualità della vita, perché
la nostra vita parte già da un livello in cui si possono proporre
questi temi. Invece nei paesi
sottosviluppati il problema è mangiare, sopravvivere, cercare
di dare inizio ad una crescita
economica, produrre ricchezza.
Io sono quasi del tutto
convinto che questo atteggiamento sia sbagliato, anche se mi capita
spesso di andare in questi paesi e di pensare che è vero che il
loro primo obiettivo è quello di riuscire a mangiare tutti i giorni
in modo tranquillo. In realtà, salvo in casi eccezionali come
le guerre, le carestie ecc., in genere riescono a mangiare. L'aspetto
peggiore del sottosviluppo non è la morte per fame, ma è la disgregazione,
conseguenza di ciò che gli abitanti di questi paesi sono costretti
a fare per mangiare. Questo è quello che colpisce di più nei paesi
dell'Africa, del Centroamerica e del Sudamerica. Sono piuttosto
convinto della giustezza di porsi il problema di una crescita
di tipo diverso perché in realtà il sentiero che questi paesi
tentano di percorrere non fa altro che portarli indietro. Mi è
capitato di tornare in alcuni paesi due volte a distanza di 4/5
anni e di vedere che la situazione era
peggiorata anche se dalle statistiche si deduceva che il
reddito era aumentato. L'impressione che si aveva era di un forte
peggioramento nella qualità della vita, specialmente nelle città.
E' giusto porsi la
domanda "Che cosa c'è oltre l'Occidente?", anche se
io penso che oltre l'Occidente non ci sia nulla, nel senso che
non c'è l'Oriente, ma ci sono tantissime esperienze separate.
Non c'è un'idea unica, non c'è una sola cosa, però ci sono tantissime
realtà e io credo che il nuovo, la possibilità di qualificare
uno sviluppo di tipo diverso, possa nascere dalle diverse realtà
che si vedono in questi paesi. In generale sono ancora discorsi
di minoranza, perché l'atteggiamento prevalente sia degli studiosi
che della popolazione è quello di dire «Perché io non devo volere
la Coca-Cola? Perché io non posso desiderare ciò che nei paesi
occidentali si ottiene con facilità?». Sono stato in Nicaragua
per due mesi; questo Paese ha dei succhi di frutta eccezionali,
ma gli abitanti vogliono bere solo la costosissima Coca-Cola,
che rappresenta per loro un simbolo di modernità. Anche
in Mozambico, dove sono stato quest'anno, l'unica fabbrica che
funziona ancora in modo efficiente è quella della Coca-Cola, mentre
l'acqua, per esempio, non c'è. Se l'idea dell'Occidente può essere
rappresentata dalla Coca-Cola, l'idea di oltre l'Occidente non
c'è, ci sono solo delle piccole realtà che io credo possano avere
la possibilità di crescita. Se non hanno questa possibilità ho
paura che ci sia poca speranza per i paesi
del Terzo Mondo. Io sono molto pessimista per l'Africa,
nel senso che le alternative mi sembrano piuttosto allarmanti:
o muoiono di AIDS, o si uccidono tra di loro e ritornano all'età
della pietra, oppure devono valorizzare quel nuovo che secondo
me c'è. Io non sono molto ottimista perché la classe dirigente,
ma anche la classe intellettuale di questi paesi , non è molto
propensa ad accettare questo tipo di discorso ed è lo stesso atteggiamento
che hanno nei confronti dell'ecologia. Parlare di ecologia nei
paesi del Terzo Mondo
è come insultarli. In Brasile questo è evidente. Un economista
brasiliano mi ha chiesto (e io non ho saputo rispondere) «ma invece
di imporre a noi di non tagliare gli alberi della foresta Amazzonica,
perché non piantate gli alberi sulle vostre autostrade?». E' molto
difficile rispondere, è un tema molto complesso.
La seconda parte del
nostro discorso verte sul rapporto tra Popolazione e Sviluppo.
Come vedremo, il tipo di conclusioni finali che si possono fare
a tale proposito sono molto simili a quelle fatte quando abbiamo
parlato della misurazione dello sviluppo. Cercherò di dimostrare
come in realtà i meccanismi operanti siano gli stessi, qualsiasi
sia il tema affrontato. Per illustrare il problema del rapporto
tra sviluppo demografico e sviluppo economico va detto che questo
è un tema storicamente recentissimo, che viene studiato da 200
anni.
La storia dell'umanità
è caratterizzata in generale da una perfetta armonia fra crescita
economica e crescita demografica. L'anno zero, che è l'anno in
cui, per una combinazione fortuita, sono stati fatti i censimenti
nell'Impero Romano, in Cina e anche in Sudamerica, si è valutata
una popolazione di circa 200/300 milioni. Nell'anno 1600 la popolazione
mondiale era di 500 milioni, quindi raddoppiata, o poco più che
raddoppiata. Dal 1700 abbiamo un'impennata enorme, poiché cominciano
ad aumentare vertiginosamente sia la produzione che la popolazione.
Gli economisti furono i primi a interessarsi di questo problema.
Allora non esisteva una scienza economica pura, gli economisti
erano anche demografi. Il problema che si pose subito era questo:
come mai è avvenuta questa impennata? Ci furono degli studiosi
che riuscirono bene o male a spiegare questo fenomeno, ma il grosso
problema era: può continuare questo equilibrio tra aumento della
popolazione e produzione? E' possibile per la produzione riuscire
a tenere dietro a un incremento demografico così elevato? I primi
economisti, gli economisti classici, si posero questo problema.
A quel tempo c'erano i pessimisti e gli ottimisti: questi ultimi
dicevano che era possibile che la produzione riuscisse a tener
dietro all'aumento della popolazione perché la capacità produttiva dell'uomo era destinata ad aumentare molto di
più rispetto alla capacità
riproduttiva; i pessimisti dicevano che non era possibile.
Tra i pessimisti c'era Malthus
(da cui derivarono le politiche
malthusiane) che riteneva necessario ridurre a tutti i costi la
crescita demografica e che era contrario agli asili per i poveri
perché diceva che i poveri si riproducevano troppo e con gli asili
e i sussidi si sarebbero riprodotti ancora di più. Malthus diceva
che le risorse erano troppo scarse, quindi se aumentava la popolazione
l'aumento dello sfruttamento delle risorse non avrebbe potuto
tener dietro all'aumento della popolazione. Il dibattito finì
velocemente perché nella realtà si vide che nel mondo di allora
l'incremento della capacità di produrre era enormemente superiore
all'incremento demografico. Le due curve cominciarono a distanziarsi,
l'aumento della capacità produttiva dell'uomo appariva enorme,
con un conseguente incremento del reddito in grado di coprire
l'aumento della popolazione. Si sviluppò in questi anni un ottimismo
generalizzato sulla capacità della tecnologia di tener dietro
al ritmo di incremento della popolazione.
E' solo abbastanza
recentemente che, invece, sono stati reintrodotti i problemi e
le questioni, i dubbi, le paure sull'incremento demografico. Questo
essenzialmente per tre ragioni:
1) Per la prima volta,
da una novantina di anni a questa parte, ad un incremento della
produzione corrisponde una diminuzione della crescita della popolazione,
nel senso che si rovescia quella che era tradizionalmente la relazione
tra aumento della produzione e aumento della popolazione. Adesso
la produzione aumenta, ma ad un ritmo di crescita che rallenta,
ed addirittura in molti casi si tende a una diminuzione della
popolazione nei paesi industrializzati.
2) I paesi
sottosviluppati sono entrati nel mondo, per la prima volta,
da poco tempo. Fino a prima della Seconda Guerra Mondiale i paesi
sottosviluppati erano colonie o luoghi lontani, nessuno si metteva
a studiare che cosa succedeva in quei paesi, se non l'esploratore.
In questi paesi sottosviluppati abbiamo un enorme aumento della popolazione,
che non è giustificato dal lieve aumento di produzione che c'è
stato in questi paesi . Si tratta di un rapporto che storicamente
non si era mai verificato, che era pensato come non sostenibile
fino a poco tempo prima.
3) Comincia ad essere
introdotto il concetto di sovrappopolazione
nel senso di sovraffollamento
di prodotto: si prendono cioè in esame i parametri della produzione
e del consumo in base alla popolazione che risiede in un determinato
territorio. Se usiamo questi parametri ci accorgiamo che la sovrappopolazione
è in Europa, non in Africa od in Cina. Se noi andassimo in Cina
e volessimo mantenere il nostro standard di vita, dovremmo consumare
come 50 cinesi. Quindi la popolazione italiana non è di 60 milioni,
ma è 60 x 10, equivale cioè a 600 milioni di unità. Qual è il
significato di questo indice? E' di sostenibilità ecologica della
popolazione, nel senso che la popolazione è sostenibile ecologicamente
non in base al numero degli abitanti ma in base a quanto questi
abitanti pesano, nella loro attività, sul sistema ecologico, quindi
sulla natura.
Sono questi i tre motivi
che hanno riportato una grossa attenzione sul rapporto sviluppo
economico/popolazione. La prima considerazione sugli effetti dell'aumento
della ricchezza sulla denatalità è studiata sia dagli economisti,
che da psicologi e sociologi.
Le spiegazioni che
personalmente mi convincono molto sono due. La prima è di carattere
prettamente economico, nel senso che in realtà un figlio ha un
costo e questo costo aumenta con l'aumento del reddito e della
ricchezza. Per allevare un figlio che abbia, in termini di beni
di consumo, di investimento, di conoscenza, educazione, divertimento,
un peso tale da renderlo socialmente accettato, il costo è molto
elevato e crescente nel tempo. In definitiva un bambino oggi costa
come 10 figli del passato. Quindi si investe sulla qualità di
un figlio più che sulla quantità, si mira cioè a fare meno figli,
ai quali si possa garantire però un adeguato livello di vita.
La seconda spiegazione è di carattere sociale: l'organizzazione
familiare è sempre più messa in discussione, come la divisione
del lavoro tra uomo e donna. Nel momento in cui l'uomo partecipa
alla gestione familiare, comincia ad essere contrario ad avere
troppi figli. Fino a quando era la donna a rimanere a casa e a
gestire molti figli, l'uomo riteneva che questi fossero una ricchezza.
Nel momento in cui si sente anche lui partecipe di questa gestione,
tende a porre un freno alla riproduzione, per motivi di varia
natura.
Come mai, però,
nei paesi sottosviluppati
la popolazione continua ad aumentare in relazione all'aumento
della ricchezza? E' un fatto puramente statistico, nel senso che
l'aumento della popolazione non è dovuto al fatto che si facciano
più figli, ma al fatto che questi vivano più a lungo: il numero
dei nati rimane lo stesso, ma grazie alle vaccinazioni, all'aumento
dell'attenzione medica, la vita si allunga e di conseguenza la
popolazione cresce. Questo è il primo elemento, che è di carattere
statistico. Il fatto più interessante da analizzare è però il
motivo per cui le nascite non diminuiscono. Anche in questo caso
le cause sono diverse, sia di carattere economico che culturale.
Prima di tutto nei paesi Sottosviluppati il bambino non è un costo, nel senso che, siccome
il reddito pro-capite è molto basso, l'investimento necessario
per allevare un figlio è molto basso, quasi nullo. In realtà il
figlio, almeno da un certo momento in poi, produce più di quello
che consuma e quindi diventa una fonte di reddito per la famiglia.
La cosa più interessante, e anche drammatica, è che l'impiego
di questi ragazzi non avviene come tradizionalmente avveniva anche
da noi nelle campagne, quando la forza lavoro era importantissima
per la produzione, dal momento che la tecnica era elementare.
Nelle città dei paesi Sottosviluppati
il bambino viene invece sfruttato nel lavoro nero o addirittura
nella microcriminalità. C'è anche un elemento culturale che favorisce
le nascite nei paesi sottosviluppati: non avere figli è visto
socialmente come fatto negativo. Parlando con dei professori africani
ho saputo che le pratiche anticoncezionali sono mal viste dalle
donne. Una mia teoria, non so quanto scientifica, è che, specie
per le fasce più abbienti della popolazione, un figlio rappresenta
una sicurezza di reddito per la madre. Infatti in molti paesi
dell'Africa e dell'America Centrale esistono molte donne
sole che vivono con il proprio figlio e molti uomini che hanno
più famiglie. Il figlio, in questo caso, permette alla donna di
mantenere sempre un legame con l'ex marito e di avere una fonte
di reddito sicura. In ogni caso, il carico economico della gestione
dei figli è in gran parte sulle spalle della donna. L'Africa sopravvive
perché le donne lavorano e costituiscono la struttura portante,
sia sociale che economica.
Nella conferenza del
Cairo tutti questi argomenti sono stati poi sintetizzati in una
domanda: l'aumento della
popolazione è limitante per la crescita economica?
Gli studi fatti hanno portato a credere che un eccessivo
aumento della popolazione possa limitare lo sviluppo economico.
Va detto subito che nella Conferenza del Cairo nessuno, almeno
ufficialmente, ma forse neanche nascostamente, pensa ad un controllo
coattivo delle nascite. E' stata fatta in alcuni paesi , senz'altro
in Cina e in India, la sterilizzazione forzata delle donne, ma
ora nessuno ha più il coraggio di proporre questa cosa. Il problema
è piuttosto se propagandare la contraccezione o meno, se dare
alle persone la possibilità di scegliere coscientemente il concepimento
di un figlio, perché molto spesso, oltre a fare figli per tutte
le ragioni che abbiamo detto, si fanno figli perché non si sa
come evitarlo. Un'educazione in questo senso potrebbe portare
ad un controllo delle nascite; può darsi che alcune famiglie non
avrebbero avuto questi figli se avessero avuto accesso ai contraccettivi.
Attualmente sul controllo
delle nascite c'è uno scontro fortissimo, che è forse un po' al
di là della posizione dei cattolici, poiché in fondo la posizione
dei cattolici è sempre un po' ambigua, lascia qualche margine
di scelta. Io credo che lo scontro vero sia sul problema dell'autonomia
della donna, dal momento che in realtà molti sistemi anticoncezionali,
quelli più facili, sono a carico della donna (il preservativo
è carissimo, mentre le pillole è più facile distribuirle), cosa
che è vista malissimo da molti paesi. Questo tipo di opposizione
viene in particolare dai paesi
islamici. In realtà loro mascherano questa paura con la
scusa della tradizione, della libertà (la frase tipica è «oltre
il fatto che non mangiamo, ci volete anche impedire di fare figli»):
c'è insomma una sorta di opposizione all'imperialismo culturale
da parte dell'Occidente, ma non credo che questo sia l'elemento
fondamentale, perché in realtà maschera una opposizione che è
all'interno delle classi dirigenti dei paesi
sottosviluppati, e non per paura di una colonizzazione
culturale, ma per paura di mettere in moto processi difficilmente
controllabili all'interno dei loro paesi .
1. Il capitalismo e la sovrappopolazione.
Il capitalismo funziona
grazie alla possibilità di manodopera a basso costo offerta dai
paesi sottosviluppati. La sovrappopolazione e la conseguente disoccupazione,
entro certi limiti, sono indispensabili per il funzionamento del
sistema capitalistico. Per il capitalista la situazione ideale
è quella che in realtà si sta verificando in questo momento: una
quasi piena occupazione all'interno del Paese in cui il capitalista
ha grossi interessi personali, fisici e nazionali, e disoccupazione
laddove può trasferire parte della lavorazione e quindi utilizzare
manodopera a basso costo. In realtà questo del capitalista è un
sogno che difficilmente si realizza, nel senso che nel momento
in cui ha la piena (o quasi piena) occupazione nel proprio Paese,
ha salari elevati, e quindi gli conviene portare la lavorazione
dove si paga di meno, dove c'è più disoccupazione. Questo provoca
però un'alta disoccupazione all'interno del suo Paese. Quello
che si è visto è che una grossa disoccupazione all'interno del
Paese in cui il capitalista vive e opera può essere pericolosa
quanto una bassa disoccupazione. Ci vorrebbe una disoccupazione,
che gli economisti hanno inventato, detta 'naturale', cioè quel
livello di disoccupazione sostenibile politicamente e economicamente,
che in paesi come
il nostro può essere benissimo del 10%.
Io non credo che la
politica di opposizione da parte dei capitalisti al controllo
delle nascite nel Terzo Mondo sia stata influenzata dalla volontà
di mantenere un alto grado di sovrappopolazione. Penso che dietro
tale opposizione si debbano scorgere piuttosto fenomeni di tipo
culturale, interessi politici e problemi di gestione sociale all'interno
dei singoli paesi, anche sottosviluppati.
In realtà ciò che aiuta i capitalisti non è tanto la sovrappopolazione,
quanto la tecnologia. Il capitalista, quando vede che i salari
aumentano, tira fuori la tecnologia e crea disoccupazione. Vi
ricordo una cosa abbastanza esemplare: in Inghilterra, al tempo
dell'industrializzazione inglese, c'era il lavoro minorile nelle
miniere. I proprietari delle miniere si opposero ferocemente alla
legge che aboliva il lavoro minorile, proclamando che essa
avrebbe provocato il crollo dell'economia: «con questa legge -
dicevano - l'Inghilterra tornerà all'età della pietra». Questa
netta opposizione nasceva dal fatto che nelle miniere le gallerie
erano state costruite a misura di ragazzo (cunicoli bassi e stretti
quanto bastava per far passare un carrello trainato da un ragazzo)
e non di uomo: la legge rendeva dunque del tutto inutilizzabili
le vecchie gallerie. Inaspettatamente in conseguenza di quella
legge, invece che il crollo dell'economia inglese, si ebbe l'introduzione
delle macchine a vapore all'interno delle miniere. Si può dire
dunque che il capitalismo, quando è pressato, interviene adeguandosi
alla situazione e introducendo innovazioni. Nei singoli paesi
il capitalismo, non dimenticando mai il proprio interesse,
si adegua alle particolari situazioni di equilibrio politico e
sociale-culturale.
2. Alcuni esempi di economie alternative.
Abbiamo detto che "oltre
l'Occidente" non c'è niente, nel senso che non c'è l'Oriente,
non c'è una cultura, una tradizione unitaria che si oppone all'Occidente.
Forse l'Unione Sovietica poteva rappresentare l'oltre l'Occidente,
ma ora non c'è più e non esiste, neanche nellimmaginazione,
un sistema che possa essere complessivamente alternativo a quello di tipo capitalistico. Ci sono
invece esperienze diversificate una delle quali è, ad esempio,
quella del Cile. In Cile la politica di Pinochet
è stata quella di puntare
alla possibilità di far star bene un 20 o 30% della popolazione,
e di lasciare completamente abbandonato a se stesso il resto della
popolazione. Di questa larga fetta di persone (circa l'80%) un
40% è riuscito a vivere bene, perché legato al 20% ricco, mentre
il restante 40% della popolazione è rimasto ai margini non solo
economicamente, ma anche fisicamente. Infatti mentre nelle città
del Terzo Mondo africano o sud americano i poveri ci sono - chiedono
l'elemosina, rubano ecc. - in Santiago non ci sono, non si vedono
perché non hanno neanche la possibilità di pagarsi il biglietto
dell'autobus per andare in centro e se arrivano in centro vengono
cacciati o uccisi. Quando sono stato lì, nel dopo Pinochet, solo
ai ciechi veniva permesso di chiedere la carità, per cui nel centro
di Santiago c'erano solo ciechi. Questo 40% della popolazione
è riuscito a sopravvivere organizzando un sistema economico di
produzione familiare completamente nuovo e diverso. Uno degli
elementi fondamentali di questo sistema alternativo era, ad esempio,
la collettivizzazione degli acquisti: si cercava cioè di comprare tutti
i prodotti in grandi quantità in modo da fare grosse economie
di scala. C'erano anche produzioni
di quartiere, per cui i quartieri si organizzavano attorno
a un determinato processo produttivo. Si trattava di un sistema
di produzione democratico che sperimentava una nuovissima gestione
democratica dell'economia. La cosa strana è che quando si è allentato
il regime questa economia non si è smembrata. La sua gestione
si basa interamente sulle relazioni sociali all'interno del gruppo;
è per questo che quando i profitti sono alti vengono investiti
nell'organizzazione di feste e nella creazione di occasioni sociali.
In Mozambico, il Paese
più disastrato del mondo,
ho visto cooperative di donne con organizzazione familiare che
gestiscono un asilo collettivo ( tra l'altro sono tutte donne
senza marito che vivono con le madri). Queste
cooperative organizzano
una produzione che ha un
mercato locale e promuovono lo sviluppo dell'economia informale, che in questi paesi costituisce il 60-70-80 % della produzione, una
produzione che segue regole e modi
di gestione non capitalistici. Non è un'alternativa, ma
è una "sopravvivenza" allo sviluppo; chi si organizza
in questo modo si difende dallo sviluppo. Tutto il dibattito degli
hippies negli anni '60, delle comunità, delle comuni, aveva elementi
di questo tipo che sono falliti purtroppo, ma hanno lasciato un
segno...
Andare oltre l'Occidente
significa creare, anche all'interno di società in cui è dominante
(o per ideologia o per ignoranza o per necessità) la logica capitalista,
la possibilità di sopravvivenza per chi non accetta questo tipo
di logica. Io vedo però che nel mondo - e in Italia in particolare
- non c'è più spazio per chi è fuori.
Non c'è una possibilità di sopravvivenza decente, umana, per chi
è al di fuori di questo sistema. Ho l'impressione che sia diminuito
anche lo spazio culturale per la creazione di pensieri alternativi
poiché c'è un elemento totalizzante che opprime. C'è una grande
omogeneizzazione, molte volte forzata, indotta, che non so se
potrà mai cambiare.
Economista
11/01/1995
Io cercherò di parlarvi
di alternative, non nel senso di alternative di governo, ma nel
senso di modi diversi di vivere e di lavorare. Questo discorso
è una specie di mia fissazione che porto avanti dal principio
degli anni '80. Il mio impegno nacque da una reazione nei confronti
di tutta la sinistra, che diceva sempre «ci vorrebbe un'alternativa»,
ma non spiegava mai il contenuto di questa alternativa. Allora
ebbi una certa reazione a questo modo di ragionare e mi venne
voglia di mettermi a discutere di ipotesi
per un'alternativa, però cercando di evitare il rischio di
mettersi a tavolino e inventare mondi bellissimi, di cui è già
piena la storia. La mia intenzione era di evitare questi rischi
in un modo preciso, cominciando subito a discutere di queste cose
con persone diverse, non specificatamente di sinistra, che avessero
in comune una sola cosa, e cioè quella di non amare molto, anche
per ragioni differenti, la logica dell'impresa e del mercato.
Mi sono rivolto insomma a chi, di fronte al discorso che ci viene
imposto continuamente - soprattutto negli ultimi anni - che il
mondo può essere fatto solo di imprese, di mercato, che il lavoro
umano può essere organizzato solo attraverso imprese che scambino
i loro prodotti sul mercato, non ne è affatto convinto e dice
«Sento che la storia del mondo d'ora in poi non può più essere
così».
Partirei proprio cercando
di descrivere che cosa è la logica dell'impresa e del mercato.
Per logica dell'impresa
intendo fondamentalmente due cose:
1. I beni da produrre
devono essere individuati
sulla base del grado di valorizzazione del capitale impiegato.
Siccome questo capitale valorizzato generalmente viene reinvestito,
le scelte devono essere quelle che fanno crescere il più possibile
l'impresa, la fanno prosperare per reinvestire ancora e crescere.
Quindi tutte le scelte devono essere indirizzate a ciò che fa
crescere l'impresa.
2. La seconda caratteristica
della logica dell'impresa è quella di considerare gli uomini esclusivamente
come un costo e, da questo punto di vista, come un costo da ridurre.
Questa definizione non è tanto eversiva. Anche un manager, se
voi gli chiedete «Perché tu non produci le cose che servono alla
gente? Perché quell'uomo non lo paghi di più?» ti risponde esattamente
così: «Il mio mestiere è quello di valorizzare il capitale che
mi affidano e quello di ridurre il più possibile il costo del
lavoro». Quindi non sto facendo un'insinuazione perfida; questa
definizione è abbastanza pacifica.
Per logica
del mercato intendo l'opinione oggi dilagante che la sola
possibile, vera, efficiente comunicazione tra persone che svolgono
attività diverse, fra imprese che producono cose diverse, possa
avvenire attraverso il mercato (è quello che succede attraverso
il sistema dei prezzi, se le cose prodotte trovano una collocazione
sul mercato o no). Questa opinione arriva ad immaginare il mercato
come governato da una specie di mano
invisibile, che - senza alcun intervento - regola le attività
delle persone, e che ad un certo punto fa sì che non ci siano
sprechi, che si produca ciò che è necessario. Questa idea della
mano invisibile porta
a ritenere che il massimo effetto positivo per la società sia
ottenibile solo attraverso l'operato di chi agisce sul mercato
perseguendo il proprio interesse privato (che è quello di far
crescere la propria impresa).
Oggi questa visione
del modo di produrre e questa visione dello scambio di informazione
attraverso il mercato è assolutamente prevalente, e per una ragione
precisa, sulla quale non c'è da prendersi in giro: perché altri
sistemi sono falliti. La ragione per cui questa visione domina
è che la vicenda del socialismo dell'est (che bene o male è stato
il più grosso tentativo del secolo di cercare una logica diversa)
è finita con una catastrofe. Forse si potrebbe aggiungere che
anche altre vie, che presentavano se stesse come forme di superamento
di questa logica, come la via riformista, la via graduale, sono
anch'esse finite piuttosto male, in moltissimi casi affondate
nella corruzione (il nostro caso è simboleggiato da Craxi
). Quindi quello attuale è un momento in cui tutti quelli che in un modo
o nell'altro avevano in mente di cambiare questa logica, di cercare
una logica diversa per organizzare il lavoro degli esseri umani,
"hanno la coda tra le gambe".
Contemporaneamente
c'è un paradosso che mi colpisce molto: mentre falliscono le alternative,
forse soltanto oggi ci accorgiamo che uno sviluppo fondato solo
su una cieca crescita, su una moltiplicazione massima delle merci,
distrugge il pianeta. Questa analisi, quando io ero un giovane
di sinistra, non la faceva nessuno, anzi, c'erano molti meno argomenti
per criticare questo tipo di sviluppo, nessuno ci aveva detto
che avrebbe fatto esplodere il pianeta. Soprattutto, a parte la
distruzione del pianeta, è ormai abbastanza chiaro che questo
tipo di sviluppo non è generalizzabile al Sud del mondo.
Dunque l'aspetto della
logica dell'impresa (massima valorizzazione, massima crescita)
oggi appare in crisi più che in passato; anche l'altro aspetto
della logica dell'impresa (quello di considerare gli uomini esclusivamente
come un costo) si rivela incapace di ripartire il lavoro, che
diventa sempre più produttivo. Il lavoro finisce così per diventare
sempre "troppo" per alcuni (in termini di sforzo, fatica,
impiego di tempo) e "niente" per altri (i disoccupati).
Forse si potrebbe anche
aggiungere che quel modo di considerare gli uomini solo come un
costo immediato, da ridurre per aiutare l'impresa, finisce per
selezionare, per far sviluppare certe capacità e attività degli
uomini e non altre, e tende così a formare l'opposto di uomini
completi, esseri umani che capiscano molte cose diverse, di cui
invece abbiamo un bisogno terribile, se vogliamo mettere sotto
controllo il progresso scientifico che oggi sembra sempre più
sfuggire alla possibilità di un controllo.
Anche l'idea del mercato
come una mano invisibile che regola la produzione, che fa incontrare quello
che viene prodotto con i bisogni della gente, si è rivelata fallimentare.
Oggi vediamo che la predominanza del mercato non solo sta portando
ad un'evidente divaricazione fra le varie parti del mondo, ma
anche nel Nord del mondo questa predominanza non riesce più a
far incontrare ciò che viene prodotto con i bisogni della gente.
Questa idea del mercato è stata una grande illusione, anzi una
grande fede, fino a tutto l'800 e nella prima parte del '900;
ha subìto un duro colpo già con la crisi del '29. In occasione
della crisi mondiale del '29 per la prima volta si è avuto il
sospetto che ci potevano essere enormi bisogni insoddisfatti e
produzioni in eccesso.
Dopo il '29 è comparso
il grandissimo economista inglese John Maynard Keynes
, il
quale ha avuto l'idea che, prendendo atto che il capitale non
trovava un conveniente impiego nel soddisfare i bisogni fondamentali
della gente, questi bisogni fondamentali
dovessero essere soddisfatti col "capitale che non
c'è". Insomma ebbe l'idea che la soddisfazione dei bisogni
fondamentali (quella che poi è stata chiamata Stato Sociale -
Welfare State) dovesse essere finanziata proprio col deficit statale,
col "capitale che non c'era". Questa "trovata",
secondo alcuni, ha garantito ancora mezzo secolo di prosperità
al sistema dell'impresa. Però questa brillantissima soluzione
ha un inconveniente: se io finanzio i servizi con i debiti, i
debiti si accumulano; il deficit è una cosa che cresce continuamente.
Credo che sia quello che sta avvenendo oggi; credo che il debito
pubblico, che è diventato effettivamente enorme, stia a testimoniare
che questa prassi di accumulare debiti per soddisfare bisogni,
a un certo punto si trova di fronte a dei problemi perché poi
il debito ci condiziona moltissimo. Naturalmente di questi processi
si possono dare letture completamente diverse; la lettura che
ne do io è che l'interpretazione di Keynes
non sia più sufficiente,
che sia necessario rimettere in discussione il nostro sistema
e il nostro modo di vivere e di lavorare in modo più radicale
di quanto abbia fatto Keynes
, che in qualche modo cercò di salvare la situazione.
Nel discutere di alternative
con chi vi fosse interessato, ho scoperto che in realtà sono molte
le persone che stanno cercando, sperimentando, qualche tipo di
alternativa alla logica dell'impresa e del mercato, anche se danno
a questi tentativi nomi diversi a seconda della loro origine culturale.
La cosa che mi ha molto incoraggiato è non solo che c'è gente
con provenienza politica e culturale molto diversa che pensa a
delle alternative, ma anche che queste persone, pur essendo da
questo punto di vista diverse, hanno molte
cose in comune e molte più di quanto sembrerebbe vedendo
le etichette che si danno. Queste cose che hanno in comune, a
volte davvero senza saperlo, possono venir fuori se si riesce
a discutere di contenuti, se si riesce ad adottare un linguaggio,
e anche un modo di discutere, che sia comune e, soprattutto (questo
è il punto che mi sta più a cuore), se
si riesce ad andare al di là dell'approccio economico, se
si riesce a non parlare di economia e a parlare degli esseri umani,
dei loro bisogni e delle loro aspirazioni. Il
linguaggio economico è nato per descrivere questo sviluppo ed
è poco adatto a pensare a sviluppi diversi. "Sviluppi
diversi": che cosa sono? Sono tutte quelle scelte che pongono
al centro gli esseri umani, anziché alcuni ciechi meccanismi che
stabiliscono che cosa devi produrre e come devi lavorare.
Arrivati a questo punto
c'è naturalmente una seria contraddizione, che avverto molto,
anche qui con voi: i discorsi sulle scelte di fondo e sui contenuti
concreti richiedono più tempo rispetto alle sintesi ed alle astrazioni
economiche; questo è in contraddizione con il fatto di parlare
per tre quarti d'ora. In una esposizione così breve enuncerò cinque
blocchi di questioni che non posso sviluppare qui, ma di cui posso
dare un'idea. Non sarà soddisfacente la "quantità" di
alternativa che troverete, ma se non altro servirà per dire «Bisogna
che ci mettiamo a discutere di queste cose, bisogna che non ci
lasciamo trascinare in astrazioni». Passo ad enunciare i cinque
titoli (anche l'ordine delle questioni secondo me ha qualche importanza,
ed infatti - ad esempio - io parlerò di politica solo nel quinto
blocco e non nel primo).
Quali scelte produttive sono possibili in alternativa alla cieca crescita
affidata alle imprese - che vogliono svilupparsi - e in alternativa
alla distribuzione affidata al mercato?
Per rispondere a questa
terribile domanda propongo un'idea che comparve in un dibattito
che si tenne alle Nazioni Unite negli anni '70, su questo tipo
di argomenti. L'ONU
, come sapete, non è costituita soltanto dal Consiglio di Sicurezza, ma
è composta (ed allora funzionava meglio di adesso) da grosse commissioni
internazionali, che sono sedi di dibattito sulle tematiche dello
sviluppo e su altri problemi di questo tipo. In questi vari organismi
dell'ONU, si sviluppò negli anni '70 un dibattito interessante
a partire dal fallimento della politica degli aiuti al Terzo Mondo.
In questo dibattito si sostenne l'idea che, prima di occuparsi
della crescita del Prodotto Interno Lordo - e di queste grandezze
care agli economisti - ci si dovesse occupare di soddisfare i
bisogni fondamentali delle popolazioni, intendendo per bisogni
fondamentali alcune cose abbastanza ovvie (alimentazione, abitazione,
salute, istruzione ecc.). Allora, per un breve periodo (a metà
degli anni '70, all'epoca di Jimmy Carter
), ci fu chi vide in questa politica dei bisogni fondamentali (basic
needs), addirittura qualcosa da poter contrapporre alle politiche
di sviluppo del PIL.
Di questa riflessione
non si sente mai parlare, e per una ragione molto precisa: nell'80
è stato eletto Reagan
che ha spazzato via tutti
coloro i quali tentavano ragionamenti di questo tipo, con una
generalizzata normalizzazione dell'ONU
in senso reaganiano.
Qualche idea simile a quelle così rapidamente sbaragliate da Reagan
è poi ricomparsa, per una
strada diversa, verso la fine degli anni '80, stavolta con l'espressione
sviluppo sostenibile
(concetto che deriva da considerazioni di carattere ambientale).
Esaminando le priorità dello sviluppo sostenibile si nota che
esse assomigliano abbastanza a quelle della soddisfazione dei
bisogni fondamentali delle popolazioni. Oggi questo argomento
mi interessa anche perché è "parente" dell'esigenza
che abbiamo di difendere i pubblici servizi e lo stato sociale,
contro una logica dominante che pretende di valutarli sulla base
di quanto rendono sul mercato. Fra l'altro una politica dei bisogni
fondamentali, che richiede un certo livello di autosufficienze
nazionali, potrebbe fare anche molto bene, se rilanciata oggi,
a bilanciare l'enorme "sbornia" di liberismo economico
che ha preso anche la sinistra.
E' andata via via
crescendo, di fronte a un'industria che sembrava voler
ridurre gli uomini a scimmie ammaestrate, come diceva già Taylor
, la scoperta dell'importanza della qualità del lavoro, dell'importanza
dell'organizzazione del lavoro, anche nei posti dei pubblici servizi.
Io credo che oggi ci sia una novità che è pertinente con la riflessione
sull'alternativa: il taylorismo,
cioè l'idea che la produzione industriale moderna renda necessario
e conveniente scomporre tutte le attività in processi molto piccoli
ed in catena tra loro, separando completamente la direzione dall'esecuzione,
questa idea, che ha dominato molto l'industria, ma anche la sinistra
(che per molti anni ha considerato questo un prezzo da pagare
all'industrializzazione), non è più vera. Tutti gli studi più
recenti di sociologia industriale (anche quelli padronali, in
fondo) dicono che non è vero che una produzione moderna debba
necessariamente ridurre gli uomini a scimmie ammaestrate, che
svolgono un pezzettino piccolo e idiota del processo produttivo.
Non è vera neanche
un'altra cosa, che ha interessato molto il movimento operaio,
e ha causato i guai del movimento, e cioè che per avere un'organizzazione
del lavoro efficiente ci debba essere una organizzazione gerarchico-burocratica,
a piramide, e che per far sviluppare le persone sia necessario
percorrere una carriera attraverso questa piramide che si restringe
sempre man mano che si sale. Le cose, in realtà, sono molto più
complicate di così.
Si verifica invece
un fenomeno, che tra l'altro è stato genialmente intuito da Marx
, ma che non trovate nel marxismo della vulgata, bensì in scritti inediti di Marx
scoperti solo in anni più
recenti. Marx
, in
alcuni scritti in cui addirittura profetizza l'automazione, aveva
previsto che, con una produzione che diventava sempre più frutto
di un'applicazione diretta della scienza, il ruolo degli esseri
umani nel processo produttivo sarebbe cresciuto, non diminuito,
che sarebbe diventato meno produttivo mantenerli al livello di
scimmie ammaestrate. Marx
pensava inoltre che, con l'applicazione della scienza alla produzione,
lo sviluppo delle persone non dovesse necessariamente identificarsi
con una carriera in una scala di ruoli gerarchici fissi, ma che
invece sarebbero comparse delle esigenze e dei problemi diversi.
C'è un nesso estremamente
forte tra questo aspetto dell'industrializzazione e la questione
del diritto allo studio. Questo è piuttosto importante, perché
se l'avvenire fosse fatto soltanto di piramidi gerarchiche, in
cui bisogna selezionare le persone per occupare pochi ruoli, e
in questa situazione si volesse ottenere il diritto allo studio,
succederebbe esattamente quello che è successo in Unione Sovietica.
Lì, infatti, da una parte si è teorizzato il diritto allo studio,
rendendo gli studi realmente gratuiti,
dall'altra parte, però, l'organizzazione del lavoro non
è stata messa affatto in discussione, ma anzi si sono fatte delle
piramidi gerarchiche o burocratiche ancora peggiori. Allora la
contraddizione è stata così forte che si aveva un sistema scolastico
completamente gratuito, ma con livelli di sbarramento di gran
lunga maggiori di qualunque scuola occidentale (addirittura con
concorsi di ammissione dopo il decimo anno di studi). Dico questo
perché il diritto allo studio potrebbe essere diverso, o almeno
meno preoccupante se, come sembra profilarsi con questo livello
di applicazione della scienza, ci fosse bisogno di gente istruita
e di organizzazioni del lavoro non a piramide.
Il discorso che ho
fatto sull'organizzazione del lavoro, su come produrre, oggi è
assolutamente insufficiente, perché non ha quasi senso parlare
di cambiamenti dell'organizzazione del lavoro in una situazione
in cui invece la gente viene buttata fuori dalle attività e resta
disoccupata. Non c'è dubbio che oggi l'occupazione è il maggiore
dei problemi, il più difficile da risolvere.
Se avviassimo uno sviluppo
"riconvertito" sotto molti aspetti, se riuscissimo a
sopprimere l'industria bellica, le fabbriche inquinanti ecc..,
il numero di persone che dovrebbe cambiare lavoro sarebbe ancora
maggiore. Qui si pone un problema che si può definire di redistribuzione
del lavoro, che è il problema di fondo, il più difficile da
risolvere perché presuppone la rimessa in discussione di molti aspetti della nostra società.
Non c'è nessun dubbio infatti che c'è una produttività del lavoro
che aumenta in modo spaventoso, quindi o si riesce a redistribuire
il lavoro per tutti o ci sarà sempre di più gente che lavora tanto
e gente che non lavora per niente. Qui credo che una delle strade
sia quella della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario,
un sistema logico e chiaro per costringere a redistribuire il
lavoro, ma durissimo da realizzare dato che i padroni da quell'orecchio
proprio non ci sentono.
Credo però che questo
non basti, perché si pone il problema di una distribuzione del
lavoro che vada al di là delle logiche del mercato, che privilegi
l'utilità sociale, insomma basata su criteri diversi da quelli
che presenta il mercato del lavoro. Credo che quindi faccia parte
di questa problematica, anche se la discussione è ancora aperta,
una redistribuzione su larga scala del lavoro di utilità sociale,
di cui alcuni aspetti già si intravedono, non è completamente
un sogno (il servizio civile è un esempio).
Una riflessione ulteriore
potrebbe porsi l'idea di un'estensione dei servizi civili, dei
lavori socialmente utili, addirittura con l'obiettivo di soddisfare
i bisogni fondamentali di tutti. In questo modo un pezzo delle
attività delle persone potrebbe andare, attraverso una scelta
a monte, fuori della logica del mercato, perché avrebbe come fine
quello di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti.
Dobbiamo però aggiungere
che è pericoloso preoccuparsi dei bisogni fondamentali solo dei
poveri, perché questo rischia di creare delle distinzioni molto
forti tra i consumi e le cose di chi è povero (che sarebbe danneggiato)
e degli altri. Quindi bisognerebbe evitare di concentrarsi troppo
su una separazione fra poveri e non poveri: quindi mantenere un
servizio sanitario nazionale e non pensare a medicine gratuite
e ospedali solo per i poveri. Tanti anni fa, nell'800, quando
si parlò di scuola elementare gratuita, ci fu una discussione
simile a quella di oggi sul servizio sanitario nazionale: c'era
qualcuno che diceva "Perché dobbiamo dare la scuola elementare
gratis a chi se la può pagare? Concentriamo gli sforzi sulla scuola
per i poveri" e qualcun altro, saggiamente, rispondeva "No,
bisogna rendere l'istruzione elementare gratuita per tutti, anche
per chi se la potrebbe pagare, perché si
deve dare la stessa scuola sia ai ricchi che ai poveri".
Questo discorso ricorda moltissimo alcuni discorsi di anni più
recenti: "Anche ad Agnelli
diamo l'ospedale gratis?"-
"Sì, anche ad Agnelli
, perché altrimenti imbocchi una strada contraddittoria: ci sarà chi avrà
un ospedale di scarso livello e chi sarà legittimato a pagarsi
un ospedale di lusso".
Queste considerazioni
veloci valgono per i bisogni fondamentali: ma non possono essere
estese a tutti i bisogni, o a moltissimi bisogni, perché il discorso,
al di là dei bisogni fondamentali, è completamente diverso. Questo
accade perché gli altri bisogni non sono dati: i bisogni fondamentali
grosso modo (con svariati mutamenti storici) riguardano il fatto
che siamo tutti esseri umani abbastanza simili, con gli stessi
bisogni. Invece al di là dei bisogni fondamentali i bisogni non
sono più dati, e non sono più la somma dei bisogni individuali,
perché dipendono dai rapporti che si stabiliscono tra le persone.
Questa è una constatazione
divertente, che ho fatto frequentando gente diversa, ed è una
cosa a cui non si pensa mai: le persone molto impegnate (politicamente
ecc..) hanno spontaneamente dei modelli di consumo diversi (indipendentemente
da scelte di 'austerità' fatte per motivi religiosi o altro),
per una ragione così banale che mi vergogno a dirla: non hanno
l'ossessivo problema di occupare il loro tempo libero o di comprarsi
un giocattolo nuovo ogni settimana, man mano che l'industria glielo
fornisce, perché hanno un altro modo di impiegare il loro tempo.
Questa idea che mi è venuta in mente, via via l'ho verificata:
la persona che cerca di realizzare il comunismo, quella che cerca
di vivere la vita evangelica e così via, si assomigliano molto,
perché hanno una certa spontanea austerità, a prescindere dalle
scelte ideologiche, perché il loro tempo libero è fatto di molto
tempo passato con altre persone che credono nelle stesse cose
e con cui cercano di realizzare quelle cose, quindi non hanno
bisogno di un'immane quantità di industria del tempo libero per
non annoiarsi e quindi hanno dei modelli di consumo diversi.
Dunque se un pezzo
dell'alternativa si trova solo su alcune grandi scelte da fare,
un altro pezzo in realtà già esiste, e non è utopia, in persone
che hanno un raggruppamento, che fanno cose in cui credono e già
rappresentano un modello di vita con consumi diversi.
Su questo punto ci
sono sempre state due diverse culture e sensibilità, che non si
riassumono facilmente nei nomi delle varie forze, perché spesso
all'interno delle stesse ci sono le due diverse sensibilità: c'è
chi, parlando di alternativa, parlando di trasformazione del mondo,
ha in mente soprattutto grandi obiettivi egualitari, ha in mente
soprattutto la soddisfazione dei bisogni di tutti e quindi è interessato
anche alla grande scala politica, alle grandi scelte politiche,
a quello che consente l'industria per la soddisfazione su larga
scala, mentre c'è un altro pezzo di sinistra che invece è sensibile
prima di tutto al problema del potere dal basso e alla costruzione
di diversi rapporti qui ed ora tra le persone, quindi alla scala
locale.
Io credo che oggi ci
siano forse maggiori nessi fra alcune grandi scelte tecnologiche,
produttive (ad es. soddisfare i bisogni fondamentali di tutti)
e una serie di nuovi bisogni già comparsi a livello di comunità.
Se queste due prospettive - su cui non mi soffermo - potessero
in qualche modo collegarsi, forse chi vuole trasformare il mondo
scoprirebbe di essere un po' meno debole di quanto risulti dalle
aritmetiche elettorali. Certo è che i collegamenti fra queste
prospettive sono tutti da inventare. Io, come scelta individuale
recente, penso che ci vogliano sia forme di collegamento completamente
diverse (di tipo reticolare), sia partiti di massa. Tutto è da
inventare, ma essenzialmente partendo dal modo in cui si collegano
le persone. Da lì comincia il ripensamento.
Questa crisi che stiamo
vivendo non è solo italiana, ma problemi analoghi si stanno verificando
un po' dappertutto, anche negli Stati Uniti e in Giappone. In
genere c'è una diffusa tendenza alla separazione tra quelle che
dovrebbero essere le istituzioni che rappresentano i cittadini
e le persone reali, che le avvertono sempre più lontane.
Una cosa che ricordo
sempre, perché mi sembra che lo scordiamo troppo facilmente, è
che negli Stati Uniti la metà delle persone ha deciso che i partiti
politici fanno così schifo che non vale nemmeno la pena di fare
una passeggiatina per andare a votare. Questa cosa la dimentichiamo
continuamente: in America la metà delle persone nelle elezioni
più importanti (le presidenziali) - e i 2/3 nelle elezioni di
mezzo termine - non vota. Ogni volta che parliamo di democrazia,
questo aspetto, cioè il problema di chi rappresenti i cittadini
che non vanno a votare,
tendiamo subito a ridurlo a problemi interni al Paese in questione.
Questo atteggiamento
lo attribuisco al fatto che mi sembra un po' sparita una certa
critica di sinistra alla democrazia liberale, che non può riassumere
da sola i bisogni della gente, i modi di decidere le cose. Anche
qui consentitemi un'ultima citazione del vecchio Marx
, il quale aveva dato, delle istituzioni rappresentative, della democrazia
parlamentare, che lui aveva già di fronte (per es. la Costituzione
americana era la stessa di quella che c'è oggi, salvo qualche
emendamento), un giudizio che non è stato secondo me recepito
dal marxismo successivo - il quale rapidamente si è diviso tra
quelli che consideravano le istituzioni parlamentari l'unica forma
possibile di democrazia e quelli che dicevano "sono tutte
una truffa, noi invece facciamo la rivoluzione armata e le facciamo
fuori". Invece in Marx
non c'è affatto questa alternativa,
ma c'è una cosa molto più acuta, anche se più sottile: Marx
vedeva, nell'avvento della
democrazia liberale, da una parte un grandissimo progresso, fuori
discussione, rispetto a quello che c'era prima, e dall'altra vi
vedeva una specie di strano sdoppiamento tra l'uomo reale e il
cittadino astratto. Cioè vedeva che in questo sistema veniva completamente
separata la persona reale, con la sua vita, la società in cui
è immersa, dalla figura del cittadino, che si autogoverna - del
tutto al di fuori della sua vita reale - solo andando a votare
periodicamente. Secondo Marx
c'era qualche cosa che non andava proprio nel voto totalmente
individualistico e separato dalla vita quotidiana.
Ci tengo a dire che
dovremmo ripensare la parola "democrazia" e soprattutto
le forme individualistiche di questa democrazia, l'idea che essa
sia una cosa che deve essere messa in atto da soli e separatamente:
c'è qualcosa di sbagliato che va ripensato. Oggi noi concepiamo
il referendum come la forma massima di democrazia: questo è molto
pericoloso, perché se oggi proponessimo un referendum per introdurre
la pena di morte
esso passerebbe a larghissima maggioranza, perché chi va nella
cabina elettorale non si sta occupando di sé, ma di un disgraziato
che sta nel braccio della morte, con cui pensa non avrà mai a
che fare nella vita, sta occupandosi di una cosa che vede al cinema,
non sta affrontando nessun rapporto che lo riguardi. Per questa
ragione forse una decisione come quella sulla pena di morte non
va lasciata ai cittadini isolati. Se non ci poniamo questo genere
di problemi ci troviamo poi disarmati, perché una volta che le
cose sono passate è più difficile metterle in discussione, come
è successo per certi referendum elettorali a cui abbiamo "gioiosamente"
assistito.
Docente di Economia
Politica presso l'Università degli Studi di Siena
26/01/1995
C'è da chiedersi innanzitutto
se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali
inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere
salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile
attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una
diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni
per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una
grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò
del problema del debito pubblico che è la questione di cui si
più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci
si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato
in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè
tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere
è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore
descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio
per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte
- in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande
che ci siamo posti.
Vorrei tentare di individuare
la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale
radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione
tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie
è quella che io chiamo classica
e che è quella di Adam Smith
, Ricardo
, di
Marx
- oggi integrata con l'apporto
di Keynes
- l'altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica - che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il
mio intervento seguirà il seguente schema:
1. Quali sono le linee
fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa
differiscono nella struttura teorica.
2. Cercherò di dimostrare
come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni
profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
3. Suggerirò che una
di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica,
si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
4. Cercherò di dimostrare
che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato
- disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle
attualmente accreditate.
Cominciamo dalle differenze
tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato
nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in
certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
La
scuola classica
Non
presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia,
immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith
- filosofo e professore universitario della fine del Settecento
in Scozia - e di David Ricardo
- figlio di una famiglia
ebrea londinese,
diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò
a vita privata e si occupò di economia politica per passione e
che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo
venne a mio avviso travisata
e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx
, che la riprese nella seconda metà dell'Ottocento, quando già il pensiero
dominante si muoveva in un'altra direzione. Questa teoria fu poi
mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti,
i quali, per ragioni ideologiche, in pochi
trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti
la si è ripresa, dopo l'impulso dato dalla rinascita del radicalismo
negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista
italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa
.
Ebbene in Smith
, in Ricardo
, in
Marx
, troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello
dei salari. Si tratta di quella che Marx
avrebbe chiamato lotta
di classe, ma l'idea non è propriamente sua, la troviamo già
in Adam Smith
: ossia, per Marx
, ciò
che determina il livello medio dei salari è il rapporto
di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori,
che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei
periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano
i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica.
Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente
forti da mantenere
il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith
lo definisce come il livello
"compatibile con il
comune sentimento di umanità". Questa idea del comune
sentimento di umanità è un'idea interessante, su cui torneremo.
In genere,
nella cultura comune della sinistra - in tutto il mondo
- si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx
, mentre
in realtà Marx
non faceva che riprendere,
approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato
detto prima di lui. Con la differenza che Marx
disse queste cose in un'epoca
in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato
aperto. Adam Smith
, alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx
si esprime in modo chiarissimo:
"Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da
un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e
datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi.
I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari,
i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano
ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile.
In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia
normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado
di imporre all'altra parte i propri termini contrattuali. I datori
di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente;
la legge - era palesemente così all'epoca di Smith
- agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi,
mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo
conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo.
Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe
generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare
alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario,
senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure
una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno
per un anno".
Nella descrizione di
Smith
i datori di lavoro sono sempre
e ovunque una "casta" caratterizzata
da "una tacita,
ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra
del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un'azione
assai impopolare", che solleva critiche da parte
degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella
coalizione contraria, i
lavoratori. "I loro interessi abituali sono talvolta l'alto prezzo dei viveri,
talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro".
I lavoratori descritti da Smith
nel cercare un intesa migliore
fanno sempre molto chiasso. "Per
raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre
più spregiudicati e talvolta alla violenza e all'oltraggio. Essi
sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati
destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di
lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In
queste occasioni però, i datori di lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano
di domandare ad alta voce l'assistenza della magistratura e l'applicazione
rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande
severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri.
Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla
violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l'intervento
della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro,
o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di
sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente
finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi".
Si capisce allora come
venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell'epoca, ammettere
che i salari erano determinati da quella che Marx
da un lato e Smith
- che non era certo un socialista
né tanto meno un comunista rivoluzionario - dall'altro, avrebbero
chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente
determinata dalla
disoccupazione, dalla fermezza dell'appoggio dello Stato ai datori
di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai
era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile
con il comune sentimento
di umanità.
La situazione era molto
simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando
i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto
dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui
loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi
del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della
gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero
dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori
feudali erano l'anello forte della catena sociale, era loro il
controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare
il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi
della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente,
altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega
perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle
città da un lato, e dall'altro l'indebolimento del sistema feudale
in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero
ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono
pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del
loro tempo di lavoro.
Nel fare un'analisi
della storia del feudalesimo, si è anche descritto
un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori
feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni,
chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti
e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per
lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma
qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme,
a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto
gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario
in difficoltà e per evitare che l'episodio si ripeta fanno molte
concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora.
Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano
ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
La situazione nel regime
capitalistico è, secondo Adamo Smith
, Ricardo
e Marx
, molto
simile. C'è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti,
sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale
che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle
banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la
possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti
a loro come profitto.
Si capisce come in
una situazione del
genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere
il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più
possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato
momento c'è una storia passata che ha formato delle consuetudini.
In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire
dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita
senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando
poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza
sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini,
spingendo in un'altra direzione. E' assai difficile, tuttavia,
modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di
pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società
odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie
sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto
diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente
deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con
quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale -
affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile
ai modelli di vita dominanti - è un deterrente fortissimo. Tale
pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello
minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad
andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una
classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni:
accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non
sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio
stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto
di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale
un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile.
C'è un livello di consumi
al di sotto
del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi
vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
La
scuola marginalista
Quella fin qui esposta
è l'idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con
l'altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione
è completamente diversa: l'idea è che ci siano una domanda
e un'offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle
imprese che richiedono manodopera e l'offerta è quella dei lavoratori,
che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano.
Allora a determinare i salari
sarà il gioco della domanda e dell'offerta, ed infatti quando
c'è disoccupazione, se
i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza
i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro
da parte delle imprese aumenterà.
Ora, l'idea comune
della concorrenza è: quando l'offerta di un bene è maggiore della
domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce
a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà
di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più' basso. La teoria
marginalista, a questo
proposito, sostiene che se anche
i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale,
accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione
- questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda -
è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda
di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi,
per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà
sceso il salario è il livello a cui le
forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo
che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché
diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente
quando aumenta l'offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro
da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello
del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a
impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante,
quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
Cerchiamo di capire
quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti,
ragionare in tutt'altro modo: supponiamo che ci sia
disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza
e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli
che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano
meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce.
Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari
si abbassano non aumenta l'occupazione, ma al contrario diminuisce.
Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
Cerchiamo di capire
perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza
a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell'idea marginalista
o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche
dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale,
e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più
lavoratori, ogni nuovo lavoratore
impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente
sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché
con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi
permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data
falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio
ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per
ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad
un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà
più lavorare!).
Quale sarà allora il
ragionamento dell'impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori
domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe
dall'impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l'assunzione
di quest'ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore
permetta all'impresa di produrre beni in più, e che tali beni
in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione
e mezzo al mese. Il lavoratore costa - supponiamo - un milione
e duecentomila lire al mese: se l'impresa decide di assumerlo
avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo,
e trecentomila lire le
resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene
assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili
lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via
via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch'essi
via via minori.
Per cui l'impresa continuerà
ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione
ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni
lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa
l'idea che l'occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo
che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
Se invece il capitale
impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed
allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno
alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà
maggiore domanda di lavoratori da parte dell'impresa e, qualora
si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario
tenderà a salire. Quindi se aumenta l'offerta di lavoro il salario
si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario
tende ad innalzarsi.
Attenzione: non si
è ancora confutato l'altro modo di ragionare cui avevamo accennato,
in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno
beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a
licenziare (per cui scendendo i salari l'occupazione diminuisce!).
Questo modo di ragionare
è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
Il ragionamento che
io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico
per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una
certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di
lavoro impiegato. Dunque l'impresa si può porre lo stesso problema
che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale
da domandare: conviene impiegare più capitale? L'impresa farà
esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un'unità
in più di capitale - diciamo un milione in più - per impiegare
ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto
e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener
conto, però, anche del fatto che l'impresa dovrebbe indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un
interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il
costo lordo del capitale (perché l'impresa dovrà restituire sia
il milione di capitale ottenuto a prestito che l'interesse). Ma
pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente
lo stesso che nel caso dei lavoratori.
Si metterà a confronto
il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo
in più, e se quest'ultimo è superiore al costo in più, allora
conviene prendere a prestito quell'unità in più di capitale. Ed
anche qui l'idea è: dato l'impiego di lavoro, quanto più capitale
impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi
ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si
pareggiano e lì l'impresa si ferma. Ma se è così, non può mai
esserci problema a vendere tutto
ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà
domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno
come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in
realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire
che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto
le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio
di interesse - che è il prezzo che devono pagare per il capitale
- si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo
che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio
d'interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che
le sue variazioni portino a far coincidere l'offerta di beni capitali
delle imprese con
la domanda.
Risulterà quindi che
il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla
piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse,
sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati
dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se
nel breve periodo può verificarsi che all'abbassarsi dei salari
i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente
saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione
del saggio d'interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario,
le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione,
e l'aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori
di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese,
purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma
se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene,
non c'è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa
è la teoria dominante nel mondo accademico.
Le implicazioni importanti
di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare
beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione - per
cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente
causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano
il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per
questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende
il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti
chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei
sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte
dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili
della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa
visione riguarda la remunerazione
che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse
corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale
di giustizia.
Infatti pensiamo ad
un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese
domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale
al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi
lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l'impresa perderebbe
se lo licenziasse. Quando l'impresa decide di impiegare quel lavoratore,
confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l'impresa
licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio
pari al salario. Quindi ciò vuol dire che
il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti
da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo
a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno
corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci.
Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare
il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo
che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la
società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare
più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all'ultimo
lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore
di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C'è una
corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al
lavoro.
Ora, si può dimostrare
- e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento
fatto prima - che lo stesso deve valere anche per il capitale.
Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare
con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto
in cui il ricavo in più dell'ultima unità di capitale è pari al
costo in più. Ma ciò significa che anche
il saggio d'interesse riflette proprio il contributo di ciascuna
unità di capitale, cioè anche l'interesse risponde a giustizia.
Voi potreste dire: "un attimo, il
lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il
capitale che sofferenza subisce?" E invece c'è la risposta
anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva
il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia,
rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c'è
un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al
risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi.
Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea
capitale. Quindi c'è un sacrificio dietro ogni unità di capitale.
Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo
corrispondente all'aumento di produzione reso possibile da quell'ulteriore
unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la
società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione
in più resa possibile da quell'unità in più di capitale, resa
possibile da quel risparmio.
In
conclusione, quindi, dietro il salario c'è un sacrificio e quel
sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce
alla società. Allo stesso modo, dietro l'interesse c'è un sacrificio,
e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo
che esso fornisce alla società.
Diciamo la verità:
è bello, c'è un'armonia, c'è un'eleganza, una simmetria affascinante
in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole
successo in ambito accademico, ed essa, tra l'altro, sembra basarsi
su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere
alla realtà il fatto che se in un'impresa con un dato capitale
impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori
in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché
diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno
superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore
in una piccola falegnameria.
Chiarito dunque questo
fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione
c'è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia
che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro
e del capitale, e chiarita l'efficienza di tutto ciò - perché,
ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare
la concorrenza - vediamo allora, brevemente, di sottolineare le
differenze rispetto all'altra impostazione, quella classica.
L'impostazione classica
vede le cose - soprattutto per via del posteriore contributo di
Keynes
- proprio nel modo che vi
dicevo: se si abbassano i salari, l'effetto sarà che i lavoratori
acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi
ci saranno licenziamenti.
La giustizia della
retribuzione
Ma vediamo innanzitutto
l'aspetto della giustizia della retribuzione. Se
si vedono le cose alla maniera dei classici - ricordatevi
quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo - parlare di
profitti delle imprese - che è il linguaggio usato poi da Marx
- oppure parlare di interessi
sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi
che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l'imprenditore
è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti
li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà
se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso
un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in
quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi.
Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
Nella visione classica,
la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal
semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte
del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto
che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che
nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non
lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale
- e ce l'abbiamo noi il capitale - vogliamo profitti o interessi.
E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali
con i servi della gleba; ma se - come credo tutti - accettereste
che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo
della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole,
o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è
estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale
sia un'estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per
i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento.
Adam Smith
non usa questa parola - che userà Marx
- ma in realtà abbiamo visto,
dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche
per Smith
: tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
La disoccupazione
Altra differenza interessante:
un marginalista direbbe che se c'è disoccupazione la colpa è dei
lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che
cosa direbbe? Direbbe: "è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli
abbassamenti salariali", perché nella impostazione classica
- ed è qui in realtà la differenza di fondo - questa idea che
quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano
di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese
ne domandano in più, quindi l'idea che noi ci potremmo costruire
una curva decrescente di
domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è
il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda,
questa idea nei classici non c'è proprio. Se
i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici,
è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori
e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull'occupazione il più
delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti
decidono di investire di più. Ma come dirà l'analisi economica
successiva, a partire da questo importante economista, Keynes
, in
realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti.
Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti
nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano
di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più
è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per
cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più.
Quindi il risultato più probabile è l'altro, proprio quello che
l'abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti
le crisi economiche.
Allora, dicevo, in
una situazione di questo tipo, in cui non c'è nessun meccanismo
di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario,
in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione
continua di lotta di classe, è
del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare
il salario.
Del resto provate a
metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare
l'occupazione, quale sarà l'esperienza storica dei lavoratori?
Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o
altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica
e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà?
Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno
essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista
il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l'aumento
della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano
occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli
occupati restano occupati ad un salario inferiore - se non vengono
addirittura licenziati per l'abbassamento della domanda di beni,
dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori - e i disoccupati
restano disoccupati. L'unica cosa che è successa è che ci hanno
perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere
mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
Questa esperienza storica
insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza
in questo modo - in cui i disoccupati si offrono ad un salario
più basso - è un disastro. L'unico risultato è che tutti i salari
si abbassano e l'occupazione non aumenta. E quindi è del tutto
ovvio che si formi quello che la storia insegna - cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza
salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che
praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente,
se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario
inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno
di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario
abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo
si fa perché l'esperienza storica ha insegnato che ciò non serve.
Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia
l'idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
E questo è confermato
dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare
i salari serva a difendere l'occupazione, allora i lavoratori
lo accettano. Infatti, quando per esempio c'è una fabbrica in
pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che
l'unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori
lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare
loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non
stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse
per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di
mercato).
La crescita economica
Altra differenza estremamente
importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo
l'impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a
vendere tutto ciò che si produce - ovviamente sto mettendola in
termini un po' rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche
difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei,
ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà
a vendere tutto - e allora ciò che non viene venduto per consumi
verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma
ciò che non viene venduto per consumi che cos'è? Pensiamolo dal
punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese
ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo
una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare
beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella
parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi,
corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella
cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi
non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno
alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario,
che va ad incrementare il valore monetario del capitale - e a
questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che
però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici
utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e
quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E' il capitale
in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita
è determinata dai risparmi. Se
vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
Nell'altra visione,
quella classica, invece, la
crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire,
che dipendono da tutt'altre cose - per esempio dall'aspettativa
che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni
di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione
del lavoro. E' il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell'ultimo
hanno [1994, N.d.R.]
sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i
classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la
crescita economica e favorire l'occupazione, perché il mercato
di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione
- questa curva di domanda decrescente di lavoro non c'è, come
pure non c'è una curva di domanda decrescente del capitale - per
i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo.
E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista
ecc. espresse da Berlusconi
o da Bossi
- per i quali non ci sono
punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
La politica economica
Veniamo alle differenze
tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
Per risolvere il problema
della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare
le reni ai sindacati - quello che esplicitamente disse di voler
fare la Tatcher
quando subentrò al governo
in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio
alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l'occupazione bisogna
che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece
un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes
, direbbe
che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda.
Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre
di più e quindi di assumere più lavoratori.
Sulla crescita economica,
l'implicazione di politica economica della teoria marginalista
è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare
di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato,
perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati
a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono.
I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici,
pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende
in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi
che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi
sottratti all'investimento presso le imprese, che permetterebbero
l'acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta
i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta
quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica.
Invece, nell'altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende
fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre
di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo
molto, decidono di ampliare l'impianto. Più lo Stato spende e
più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero
essere più diverse.
E allora visto tutto
questo, voi capite l'importanza del decidere, sul piano scientifico,
quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci
vorrebbe un intero corso di laurea - e in molte facoltà neppure
ci si arriva - per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli,
gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
Tuttavia voglio almeno
accennarvi al fatto che l'economista italiano di cui vi dicevo,
Sraffa
, ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi
teorici - in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di
Marx
non funzionava bene - ma
che si trattava di problemi risolvibili all'interno della loro
stessa teoria. Marx
aveva incontrato un problema
nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci,
e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato
e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba
essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta
che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta
di classe. E' quello che Sraffa
dimostra: su questo Marx
aveva perfettamente ragione.
Si può costruire un sistema matematico che mostra - dato il salario
determinato dalla lotta di classe - come sia la concorrenza tra
i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del
capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie)
a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx
, e prima di lui Ricardo
ecc., non erano riusciti
a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi
la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
La teoria marginalista,
invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare.
Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento
della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare
ipotizzando che sia data
la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè
capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di
ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto
l'esempio di un dato impianto - una falegnameria in cui più aumentano
i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia
a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità
di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via
via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno
utili. La teoria marginalista,
dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo
ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si
dimostrerà, non è legittimo.
Infatti è possibile
considerare come data la quantità di capitale in due sensi:
1)
si considera come data la quantità
dei singoli beni capitali;
2)
si considera come dato il valore
complessivo di tutti i beni capitali;
Il primo modo di considerare
come data la quantità di capitale, considerando come data la
quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la
quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.)
esistenti nell'economia, non funziona. Infatti, non appena le
imprese impiegano più lavoratori, un'enorme numero di queste quantità
si modificherà. Se l'impresa vuole produrre di più ha bisogno
di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi
quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo
dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario
prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
Inoltre, quando il
salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano
nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci.
Per i prodotti chimici, ad esempio - dato che si tratta di prodotti
con enormi macchinari e pochissimo lavoro - se il salario scende
il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti
con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa
il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi
dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni.
Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni
capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano
di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno
più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che
si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e
le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche
che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
Ovviamente se si comprano
più jeans si comprerà meno qualcos'altro, ad esempio meno prodotti
chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche
domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre
prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali
non resteranno invariate all'abbassarsi del salario, e di conseguenza
non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
Allora forse si deve
considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo,
cioè come valore complessivo
di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il
capitale libero di cambiare di composizione - più macchine per
fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici - senza che
cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in
cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano
di una "data quantità di capitale" nella determinazione
della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti,
la misura del capitale come valore di un complesso di beni - che
sta anche cambiando - si modifica al modificarsi dei prezzi dei
beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano,
anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore
del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
Dunque non è possibile
considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva
di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme
all'offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo
il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale
non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale
possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
In effetti, per motivi
connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli
ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari,
nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato
come quantità di valore, della quale - come abbiamo visto - si
riesce a dimostrare in due minuti l'insostenibilità. Dunque i
marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi
posso illustrare. Si tratta delle cosiddette "Teorie moderne
dell'equilibrio economico generale". Ciò che vi posso dire
è che un numero crescente di teorici dell'equilibrio economico
generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco,
diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti
ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che
è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei
consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d'argilla.
Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti
applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro
in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio
fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza
più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità
delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti,
invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo
me ormai totale.
In conclusione la teoria
logicamente e scientificamente più solida è quella classica.
E su questa base veniamo
a quei due problemi cui si accennava all'inizio, cioè la disoccupazione
ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito
pubblico in realtà ve l'ho già anticipato. Per i marginalisti
il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria
- perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti
e non rinnovati ed i risparmi portati all'estero - ma il problema
veramente grave non è questo. Infatti si sa che l'instabilità
finanziaria, se c'è un governo che vuole davvero intervenire in
modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve
sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti
interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali
perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare
l'instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema
che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico
va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico
fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento,
risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti.
E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando
saremo anziani, e con noi
i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di
quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c'è, in questo senso,
un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
Quest'onere non è dovuto
alla semplice esistenza del debito pubblico - si tratta infatti
di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di
un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione
verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa.
Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile
politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro
allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico
non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l'argomento della
semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi
è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è
poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che
con il debito pubblico stiamo diminuendo l'accumulazione del capitale.
Invece nell'impostazione
classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso
altri, esso non è un vero debito. E' vero che esso crea problemi
di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente
volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito
pubblico, una volta che c'è, crea disastri. Infatti per diminuire
il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la
spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione
della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce
il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda.
Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre
il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono
anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno
meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare
di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare
soltanto la disoccupazione.
Abbiamo detto che per
lo Stato l'instabilità finanziaria esiste solo finché esso non
voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria.
Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico
è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell'ottocento.
Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare
il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare
i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire
. E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie
all'aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia
le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano
verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in
questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché
è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato
raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo
sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato
segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente
per l'industria ed in misura superiore che se lo Stato non si
fosse indebitato.
Per quanto riguarda,
invece, l'occupazione, lo Stato deve in un modo o nell'altro stimolare
la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente
aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando
i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale
può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque
aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa
cosa che diminuisce l'instabilità finanziaria connessa ai titoli
del debito pubblico - cioè controlli sull'apparato finanziario
ed in particolare sui movimenti di capitale - può, se non impedire,
almeno rendere un po' più costoso esportare capitali all'estero.
Questo diminuirebbe l'instabilità finanziaria, farebbe ridurre
il tasso d'interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti
e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo
le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
Ovviamente le cose
non sono mai così facili. C'è - e questo lo ammette anche l'economista
classico - un problema grave, che riguarda il vincolo esterno.
Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici
a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda
potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle
esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo
una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione,
essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
Questo problema del
vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se
tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda
per favorire l'occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti
i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero
le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi
del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
Questo ovviamente non
succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista,
sia per il cinismo del capitalista "marxista", il quale
pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova
conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli
abbia bisogno di cedere nelle
tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per
lui c'è una convenienza. In ogni caso sono
ragioni politiche ad impedire l'attuazione di queste politiche
espansive. In altre parole non
si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi
di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve
intendere che c'è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto
negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice "A noi
queste politiche non convengono".
Tuttavia, supposto
che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per
l'occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire
a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle
vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe
accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando
la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero
portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo
- il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche
misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore
ecc.).
Ma supponiamo che sia
necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto
non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di
tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi
delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo
dai salari! C'è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque
ridurre il tasso d'interesse. Certo, sappiamo che c'è gente che
si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli
risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare
che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui
titoli di Stato, lo guadagnano dall'altra in termini di minori
spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc.
A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari
all'abbassamento dei tassi d'interesse. Chi è veramente contrario
a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato,
e cioè non soltanto i vari Agnelli
ecc., ma proprio le banche.
Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato
sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non
può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere
le privatizzazioni, ed infatti all'estero, spesso, le imprese
nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata,
la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità:
semplicemente i manager lavoravano.
Anche in Italia, del
resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano
fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali.
Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato
le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece,
hanno fatto la fine che hanno fatto.
In conclusione pongo
unultima questione. La promessa di Berlusconi
di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe
in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una
creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà
di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi,
soprattutto legati agli ambienti finanziari - che sono quelli
che obbligano l'Italia ad avere perfetta libertà di movimento
dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica
espansiva (infatti non appena l'Italia volesse espandere la produzione,
avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe
il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero,
comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione,
questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi
porterebbe inflazione ecc.).
Ma un governo che fosse
deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti,
ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente
creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti
di lavoro.
Ricercatore
del Consiglio Nazionale delle Ricerche
02/03/1995
All'interno dell'intreccio
tra sistema economico e sistema militare sono emerse le caratteristiche
dei modelli di sviluppo e di industrializzazione che conosciamo,
sono cresciute le società e si è definita la sfera politica. Anche
se non si è parlato spesso degli aspetti strettamente militari
se non quando c'è stata la grande ondata pacifista degli euromissili
negli anni '80, o come durante la guerra del Golfo, i rapporti
di forza tra gli stati e del sistema militare dentro gli stati,
rappresentano elementi molto importanti che hanno influenze ben
aldilà di quello che può essere lo specifico militare. Perciò
la questione della riconversione
dell'economia, dell'industria, della produzione, dei modelli di
sviluppo è, da questo punto di vista, un punto centrale della
ricerca di alternative rispetto all'ordine del passato.
Il primo punto che
vorrei toccare riguarda il modo in cui ha funzionato il mondo
della guerra fredda. Naturalmente il mondo non è uno solo, c'erano
tre mondi fino all'89. Il primo mondo, l'occidente, funzionava
con una rapida crescita economica, sostenuta da un'accumulazione
di conoscenze tecnologiche avvenuta nel corso di un periodo temporale
molto lungo, e la rapida integrazione delle economie degli USA,
dell'Europa e del Giappone negli anni del dopoguerra, ha permesso
una rapida crescita dei livelli di produttività, di consumo e
dei redditi in questo gruppo di paesi, avendo sullo sfondo lo
scontro Est-Ovest, che ha alimentato la crescita molto rapida
e lo sviluppo di un settore estremamente ampio, specialmente in
alcuni paesi, legato al sistema militare.
Il sistema militare,
soprattutto negli USA ed in parte minore anche in Francia ed in
Gran Bretagna, molto meno in Italia, ha avuto una crescita molto
forte ed un ruolo economico ben preciso. In un contesto in cui
esistevano grandi potenzialità di sviluppo tecnologico e una difficoltà,
specialmente negli USA, a far svolgere allo Stato un ruolo attivo
in termini di politica industriale, il settore militare ha funzionato
come modello classico delle politiche keynesiane di crescita,
ispirate all'economista J. M. Keynes
, il quale, negli anni tra le due guerre mondiali aveva ragionato sulla
disoccupazione ed aveva proposto un intervento massiccio dello
Stato in termini di spesa pubblica, dimostrando che questo avrebbe
provocato un incremento significativo della produzione e dell'occupazione.
Per una serie di ragioni storiche il modo principe in cui questa
politica si è sviluppata negli USA, dopo la guerra mondiale e
negli anni della guerra fredda, è stato l'aumento della spesa
militare. La spesa militare aveva, da questo punto di vista, molti
vantaggi per il governo americano: alimentava una situazione di
guerra fredda che permetteva di tenere sotto controllo, attraverso
la spirale perversa della corsa al riarmo, l'Unione Sovietica
ed i paesi del blocco dell'Est e, indirettamente - o più direttamente
- anche il resto del Terzo Mondo. In secondo luogo permetteva
agli USA di mantenere una posizione di supremazia anche nei confronti
degli alleati europei occidentali e giapponesi, che in termini
economici stavano invece crescendo molto rapidamente: gli USA
hanno, ancora adesso, una grandissima supremazia militare sull'Europa
e sul Giappone, anche se ormai gli USA sono degli spaventosi debitori
in termini finanziari soprattutto nei confronti dei Giapponesi,
ma anche degli Europei.
In termini economici
gli USA non sono più una superpotenza spaventosamente più avanti
degli altri, poiché USA, Europa e Giappone sono praticamente sullo
stesso piano in termini di ricchezza, di capacità produttiva,
tecnologia ecc. Quello che continua a differenziare gli USA, ancora
adesso, è la potenza militare, anche se la forza che ne deriva
ora è meno efficace che nel passato, tant'è che gli USA contano
di meno nel mondo e contano di meno in anche in Italia. Una dimostrazione
di ciò è il fatto che ogni giorno in televisione ci dicono qual
è la quotazione della lira nei confronti del marco e non del dollaro.
Negli USA
la crescita del sistema militare, la crescita delle armi,
il fatto quindi che venissero costruite armi atomiche sempre più
potenti, che venissero realizzati progetti militari sempre più
sofisticati, flotte di bombardieri, corpi di spedizione a intervento
rapido - che sono stati usati in varie parti del Terzo Mondo -
funzionava, sul piano politico, nel modo che abbiamo detto. Sul
piano economico la creazione di una forte domanda pubblica negli
USA, che non metteva in discussione il potere delle grandi imprese
americane, le quali sono una potenza economica di prim'ordine
anche negli equilibri interni - e che non avrebbero tollerato
uno sviluppo dell'impresa pubblica del tipo di quello che c'è
stato in Italia nel dopoguerra - permetteva di creare un effetto
di moltiplicazione della domanda, attraverso commesse pubbliche
alle imprese private. Questo avveniva in settori ad alta tecnologia
in cui non esisteva un grosso mercato, quali la produzione militare,
l'elettronica militare, l'aeronautica, che le imprese americane
hanno anche usato per crescere su mercati protetti e diventare
leaders internazionali. La Boeing ed altre industrie di aeronautica
americane sono state per anni gli unici produttori di queste cose.
Soltanto negli ultimi dieci anni è venuto fuori un produttore
di aerei europeo, un consorzio che costruisce l'Airbus. Il settore
dell'aeronautica è un esempio molto importante di come fosse essenziale
per gli USA lo sviluppo di capacità sia militari, sia civili,
in un settore che cinquant'anni fa aveva dimensioni molto ridotte
e che ora è invece un settore industriale molto importante.
Dal punto di vista
economico il meccanismo prevedeva lo sviluppo di nuovi settori
attraverso il finanziamento pubblico, che non fosse interpretabile
come un intervento statale nell'economia, poiché c'era un insistenza
ideologica molto forte sul libero mercato. Questo portava alla
creazione di occupazione sia diretta che indiretta ed allo sviluppo
di attività di ricerca, di sviluppo tecnologico e di formazione
di strati di forza lavoro altamente qualificati all'interno di
questo ciclo produttivo. Sul piano sociale questo voleva dire
creare anche un'area di consenso molto forte intorno alle politiche
del governo, poiché c'era tutta una serie di lavoratori che veniva
pagata con salari più alti della media sulla base dei programmi
politico-militari del governo; negli USA questo ha significato,
in concreto, lo sviluppo di interi stati nuovi: tutti gli stati
dell'Ovest (Colorado, California, Arizona, Texas) e della fascia
del far-west, che erano tagliati fuori dal vecchio modello di
industrializzazione fordista delle grandi fabbriche - che erano
invece concentrate nell'est e nel nord degli USA - hanno avuto
come occasione di sviluppo proprio la crescita del complesso militare
industriale.
Gli USA sono quindi
caratterizzati da un intreccio tra mondo economico, complesso
militare industriale e gente che vi lavora alimentata da questo
modello di sviluppo. In Europa questo modello ha funzionato in
misura molto più ridotta, in quanto diverse erano le condizioni
rispetto agli USA ed inferiore era la spesa militare, anche se
il meccanismo era lo stesso. In Italia l'industria militare è
stata largamente pubblica; adesso è controllata per l'80% dalla
Finmeccanica dell'IRI che ha preso tutte le imprese del gruppo
EFIM che era in liquidazione, soffocato da 18.000 miliardi di
debiti. Per anni questo settore dell'industria è stato terreno
di lottizzazione selvaggia e di spremitura da parte delle forze
politiche di governo, ed è stato interamente sussidiato dalla
finanza pubblica, creando in Italia lo stesso meccanismo americano:
creazione di domanda, creazione di posti di lavoro, presenza in
alcuni settori tecnologicamente molto avanzati, con la sola differenza
che, anziché essere di fronte ad un film hollywoodiano eravamo
in presenza della commedia all'italiana.
All'Est invece la crescita
della spesa militare, dagli anni '50 in poi, è stata il nodo centrale
del disastro economico del modello sovietico. Infatti, in assenza
di meccanismi di trasparenza e di retroazione in quel tipo di
pianificazione, avendo come punto irrinunciabile l'aumento della
spesa militare e quindi la corsa al riarmo, l'Unione Sovietica
si è trovata ad avere una spesa militare pari a quella degli USA,
ma che si reggeva su una base economica molto più ridotta e accompagnata
da un meccanismo molto meno efficiente di gestione del resto dell'economia.
Nei paesi del blocco sovietico, quindi, proprio questa corsa al
riarmo necessaria per tenere testa agli USA ha prodotto un prosciugamento
delle risorse umane e tecnologiche che ha limitato di fatto la
produzione di beni civili ed altre attività che avrebbero consentito
uno sviluppo economico più adeguato. Da questo punto di vista
la corsa al riarmo è stata fatale all'economia sovietica.
Il Sud del mondo, quindi,
si trovava a dover giocare le proprie carte nella morsa tra l'Est
e l'Ovest in quanto, dopo il processo di decolonizzazione, le
nuove classi dirigenti (anche per l'affermazione di leadership
individuali) hanno usato molto l'industria militare: in alcuni
paesi attraverso colpi di stato effettuati da militari di basso
grado, mentre in altri l'esercito ha rappresentato una parte importante
nel processo di "modernizzazione" di società estremamente
arretrate che vivevano in condizioni di sussistenza. USA e URSS
hanno approfittato di questa situazione cercando di comprarsi,
a suon di aiuti militari, dotazioni di armamenti e crediti finanziari,
le leadership per portare un Paese nella propria sfera di influenza.
Per i paesi del Sud del mondo questo è stato un disastro totale
in quanto, nell'ambito dell'illusione circa le infinite possibilità
di sviluppo che il processo di industrializzazione lasciava vagheggiare,
la strada presa in molti paesi è stata quella di uno sviluppo
di capacità in settori quali l'industria pesante, le produzioni
militari anche in loco, lo sviluppo di apparati militari, il che
ha provocato, in paesi sorretti da un'economia alquanto fragile,
una sottrazione spaventosa di risorse soprattutto pubbliche: se
in Italia la spesa militare era al di sotto del 10% del bilancio
dello stato, in molti paesi del Sud del mondo la spesa militare
è pari al 30% del bilancio statale a causa della scarsità delle
risorse complessive.
Tutto questo ha provocato
un intreccio tra sistema militare, ruolo delle forze armate, dimensione
del sistema militare, produzioni militari, commercio di armi,
che ha avuto un ruolo fondamentale nel funzionamento del mondo
così come lo abbiamo conosciuto fino al termine del periodo della
guerra fredda. Ad un certo punto questo modello si è rotto senza
grandi stravolgimenti, tranne in alcuni casi; tutti questi meccanismi,
che funzionavano in modo poco appariscente ma estremamente efficace,
si sono inceppati. Al Nord si è visto che il sistema militare
- come sostegno alla crescita economica - non funzionava più,
poiché in assenza del contesto della guerra fredda non aveva più
senso continuare a spendere tanti soldi nella corsa al riarmo;
nessuno però ha avuto il coraggio di portare questo ragionamento
fino in fondo: finito il periodo della guerra fredda, bisognava
diminuire in modo radicale dimensione e costo del settore militare,
con una drastica riduzione delle risorse ad esso destinate e quindi
occuparsi di altro (emergenza ambientale, problemi sociali ecc.).
In questa ottica il settore militare è stato toccato pochissimo:
in Italia, per esempio, non c'è stata alcuna significativa riduzione
della spesa militare, che quest'anno ammonterà a 26.000 miliardi
solo nel bilancio del Ministero della difesa.
Gli USA, nonostante
alcuni interessanti progetti della gestione Clinton
, non
hanno alcuna intenzione di ridurre significativamente la spesa
militare, avendo oltre tutto intere zone che dipendono economicamente
dal sistema militare. Più in generale nell'Occidente si registra
una fortissima inerzia nel sistema militare, che dipende in massima
parte dal radicamento di tale sistema nella storia, nel tessuto
sociale di questi paesi, pur in assenza di una minaccia diretta;
per questo i militari si sono imbarcati in nuove avventure. In
Italia il nuovo sistema di difesa prevede un intervento nel Terzo
Mondo tendente sostanzialmente alla difesa dei privilegi dell'Occidente:
questo è un po' il nuovo asse su cui si sta costruendo il nuovo
equilibrio mondiale.
Tramontato il muro
che divideva Est ed Ovest, ne è stato innalzato un altro fra Nord
e Sud, per cui una ristretta minoranza di abitanti del pianeta,
con livelli di reddito e consumi spaventosamente alti e che detiene
una quantità di risorse intollerabilmente alta rispetto a quella
del pianeta intero, deve difendersi anche con gli strumenti militari
perché altrimenti verrebbero a cadere anche le condizioni di legittimazione
politica di queste profonde iniquità e squilibri che si stanno
aggravando. Questo tipo di prospettiva è stato teorizzato da alcuni
settori della destra negli USA ed è stato poi sperimentato con
la guerra del Golfo contro uno dei potenziali avversari veri del
Sud del mondo, vale a dire l'Irak, una delle maggiori potenze
industriali del Sud che aveva fondato la sua potenza proprio sullo
sviluppo del sistema militare grazie ai soldi del petrolio. Dopo
la guerra del Golfo, sul piano militare sono scoppiati talmente
tanti disastri, sotto forme di guerre di etnia, dissoluzione di
paesi, guerre ereditate dal periodo della guerra fredda (Angola),
che la contrapposizione Nord-Sud è stata un po' messa da parte,
anche se continua ad essere uno dei modelli che stanno dietro
all'evoluzione dei rapporti di forza in questo contesto.
Con la fine della guerra
fredda il mondo ridiventa sostanzialmente unico, con un solo obiettivo
da perseguire: quello della
globalizzazione dell'economia, dei comportamenti sociali, della
politica, delle comunicazioni ed anche delle attività militari.
La dimensione nazionale non ha più motivo di esistere, poiché
l'internazionalizzazione dell'economia e l'integrazione finanziaria
fanno sì che gli sforzi di fondo siano indirizzati verso questa
globalizzazione. Un esempio classico di modello di integrazione
moderno è quello europeo, sancito del trattato di Maastricht
che dà via libera alla circolazione
di capitali, imprese, commerci, lasciando per ultimi gli esseri
umani, sia come consumatori che lavoratori; per questo i diritti
e le opportunità di lavoro restano fermamente ancorati al posto
dove le persone vivono e quindi alla dimensione nazionale.
Venendo al problema
della riconversione, nel corso dell'anno scorso i disastri umani
spaventosi che i ventisei milioni di mine sparse sul pianeta hanno
provocato, soprattutto su bambini e sulle donne, e di cui l'Italia
porta una grave responsabilità, hanno portato ad una serie di
iniziative sia per rendere illegale l'esportazione di mine, sia
per farne cessare la produzione. A tal riguardo c'è stato anche,
per la prima volta, un passo da parte di una delle principali
produttrici di mine - la Valsella di Brescia (che fa parte del
gruppo FIAT) - la quale ha presentato per la prima volta in questi
giorni dei progetti per produzioni alternative, chiedendo un finanziamento
alla regione Lombardia. Quindi c'è una piccola prospettiva di
successo sulla strada della riconversione che lo stesso sindacato
ha sempre considerato come una utopia "irrealizzabile",
e per la quale comunque non era possibile procedere per salvare
posti di lavoro e smettere di produrre strumenti di morte.
Questo tipo di iniziative
della campagna VENTI DI PACE in Italia, è analogo ad attività
che vengono svolte dai movimenti pacifisti e ambientalisti un
po' in tutti i paesi, e c'è un tentativo di mettere in comunicazione
queste esperienze e di rilanciare questo tipo di ricerca di alternative
comuni all'esistente. Siamo in una situazione in cui è necessario
un grandissimo sforzo di immaginazione e di comunicazione e di
messa in collegamento di esperienze, perché
nel momento in cui le istituzioni, i modi di pensare il
mondo, i modi di farlo funzionare, non sono più adeguati ad un
mondo che è cambiato radicalmente, è soprattutto dalla società'
civile e dai movimenti che deve venire la spinta e le idee alternative
più o meno radicali per creare dei progetti di tipo diverso.
Un'esperienza abbastanza
importante, maturata su tali questioni internazionali e che ha
visto i movimenti cercare di fare i conti con i processi di globalizzazione
di cui parlavo prima, è la serie sempre più fitta di controvertici
che vengono organizzati ai quattro angoli del mondo tutte le volte
che i potenti della terra si riuniscono per parlare di economia
e di politica. Nei giorni scorsi c'è stato il vertice sull'informatica
a Bruxelles del gruppo dei G7
e ho visto sui giornali,
con notevole piacere, che anche lì era stato organizzato un controvertice per dare voce a chi patisce gli effetti dell'infomatizzazione
selvaggia della società' e per pensare ad alternative più democratiche
rispetto a queste. Io ho lavorato un po' nel luglio scorso per
mettere insieme a Napoli il controvertice
che una cinquantina di movimenti e associazioni italiani, insieme
ad altre decine di movimenti e di associazioni di tutto il mondo,
hanno organizzato in occasione del vertice del G7
che si è tenuto a Napoli.
La difficoltà di costruire
una iniziativa della società, dei movimenti, che vada oltre i
comportamenti classici della politica e che vada oltre le mediazioni
che storicamente a livello di politica nazionale sono state fatte
dai partiti, e grande. E questo, tra l'altro, nel momento
in cui il livello nazionale non è più il più adeguato per
far passare alcune cose. Questo tipo di sviluppo, di progettualità
dei movimenti, ci sembra una delle sfide più importanti
da raccogliere, soprattutto per far crescere una consapevolezza
comune per chi lavora sui temi della pace, dell'ambiente, dell'antirazzismo,
della solidarietà, del volontariato, per costruire una identità
e una soggettività anche politica il più consapevole possibile
delle articolazioni della realtà
Sul terreno dell'economia
si è verificato, e lo scopriamo se osserviamo i livelli di reddito
locale di tutti i paesi del mondo dal dopoguerra in poi - anzi
credo addirittura dall'800 in poi - che l'unico momento in cui
la disuguaglianza tra
paesi è diminuita è stato negli anni '70, in parte per l'aumento
dei prezzi delle materie prime e del petrolio in particolare.
Soltanto negli anni '70, se noi costruiamo una misura complessiva
della disuguaglianza mondiale, c'è stata una piccola riduzione
dei divari. Gli anni '80 sono stati un periodo in cui le disuguaglianze
sono aumentate in modo spaventoso: soprattutto per l'Africa, ma
anche per l'America latina (gli anni '80 sono anche gli anni della
crisi del debito di moltissimi paesi) e per tutta l'Asia centrale
e meridionale, con l'eccezione di pochi paesi dell'Estremo Oriente
(Taiwan, Singapore, Corea del Sud ecc.) che invece hanno avuto
uno sviluppo industriale forte.
Questa è la situazione,
quella di una polarizzazione: abbiamo dei ricchi più ricchi, dei
poveri più poveri, però ciò avviene mentre la globalizzazione
fa espandere dovunque le multinazionali, gli investimenti e le
tecnologie e quindi c'è un processo di industrializzazione molto
diffuso: la Cina si sta industrializzando a un ritmo talmente
rapido che gli stessi governanti cinesi si rendono conto di non
poterlo controllare. Quindi il Terzo Mondo non sta fermo, sta
industrializzandosi, ma in un contesto in cui i rapporti di forza
tra Nord e Sud sono così sbilanciati a favore del Nord, che gli
effetti portano un peggioramento delle ragioni di scambio per
i paesi del Sud, tanto che una lira, seppur svalutata, permette
di comprare una quantità sempre più grande di lavoro, risorse
naturali, risorse umane, tecnologie e industrie localizzate nel
Sud del mondo. Possiamo permetterci una quantità di prodotti importati
dal Sud del mondo anche se i nostri redditi individuali non aumentano,
e così il nostro livello di vita continua ad aumentare, perché
i prezzi di molti prodotti del Terzo Mondo diminuiscono. Il prezzo
del petrolio diminuisce sistematicamente in termini reali (se
cioè lo si calcola si togliendo l'effetto dell'inflazione), da
10-15 anni. Quindi c'è stato un nostro arricchimento attraverso
questo sistema banale del rapporto tra i prezzi di ciò che noi
produciamo e i prezzi di ciò che producono nel Sud del mondo,
cosa che ha spostato una quantità di risorse spaventose dal Sud
al Nord attraverso questo meccanismo di scambio ineguale.
In tale contesto il
Sud comunque cresce, però la polarizzazione non diminuisce. Questi
comunque non sono processi in bianco e nero, nel senso che esistono
dei paesi del Sud che comunque crescono di più e riescono a mantenere
più risorse nelle loro economie e quindi si presentano come produttori
importanti in alcuni campi emergenti, luoghi dove interi settori
industriali vengono a localizzarsi, e altri paesi che sono invece
tagliati fuori da questi processi. Per cui l'Africa (escluso il
Maghreb) è un continente in cui nessuna impresa multinazionale
va a a stabilirsi e quindi è tagliata fuori dalla carta geografica
dell'economia mondiale, mentre invece l'Asia e alcuni paesi del
Maghreb (Egitto, Marocco e Tunisia), o altri paesi vicini all'Europa
come la Turchia, o il Messico per la sua vicinanza agli USA, vengono
sempre più integrati in questi processi di produzione. Gli USA
sono andati nel nord del Messico: il meccanismo è cercare forza
lavoro a basso costo dentro processi produttivi che non sono messicani,
ma sono controllati strettamente dalle multinazionali del Nord
del mondo.
Il Terzo Mondo, dunque,
vede profilarsi un futuro di ulteriore frammentazione, perché
anche al proprio interno aumenteranno le diseguaglianze tra chi
riesce a guadagnare qualcosa da questa globalizzazione e ad avere
qualche beneficio dal sistema produttivo internazionale, e chi
invece verrà tagliato completamente fuori.
In realtà il problema
vero dell'industrializzazione su scala mondiale è che non si è
capito ancora fino in fondo che il vecchio modello di diffusione
delle attività industriali non è sostanzialmente sostenibile,
né in termini di mercato, né in termini ambientali: è questa una
delle responsabilità storiche dell'Occidente. Nonostante l'Occidente
abbia una serie di strumenti importanti per orientare la dinamica
e la crescita dello sviluppo industriale a livello mondiale, il
modello che viene ancora seguito è di riproduzione del modello
occidentale: l'acciaio si produce nello stesso modo, l'agricoltura
con l'impiego della stessa quantità di fertilizzanti, la chimica
ha lo stesso livello di inquinamento sull'ambiente ecc. Tale mancanza
di messa in discussione del modo in cui si produce è uno dei drammi
a lungo termine più devastanti, e la speranza per il Sud del mondo,
ma anche per noi, è di rompere questo meccanismo e di ripartire
da una visione diversa dello sviluppo che non ripeta gli sprechi
e gli errori dei modelli industriali tradizionali.
Il problema è che il
Nord, anche se ha alcune idee illuminate su questo terreno, continua,
pur predicando po' meglio, a razzolare male sul terreno del militare,
dell'economia e così via. Quindi non c'è nessun segno di rottura
che sia in grado di dare una speranza diversa ai PVS.
Adesso siamo in una
situazione in cui il nostro modo di pensare in una prospettiva
nazionale, non è più rilevante rispetto alla scala mondiale dei
processi. Se noi pensiamo che nonostante il movimento operaio
abbia oltre 100 anni di storia organizzata con grandissimi successi,
risultati ottenuti su scala nazionale, nonostante abbia una quantità
di risorse, di cultura, di esperienza gigantesche alle spalle,
tali risultati vengono spazzati via nel momento in cui l'industria
tessile italiana di piccole dimensioni va a fare un investimento
in Marocco, e cioè resta spiazzato totalmente ciò che 100 anni
di lavoro del sindacato hanno costruito in loco in termini di
coscienza sindacale e di controllo delle condizioni di lavoro
nell'impresa.
Allora
o siamo in grado di renderci conto che il nostro circolo produttivo
e il futuro del nostro lavoro come occupati qui, dipende da un
processo che riguarda e coinvolge anche l'operaio marocchino -
per l'Italia - o
quello Messicano - per gli USA - oppure la capacità del sindacato
di rappresentare i lavoratori, di contare, di condizionare l'impresa,
sparisce ed è esattamente quello che abbiamo visto negli ultimi
anni. Allora, in questa situazione, se si gioca la partita nella
vecchia maniera si
perde e si diventa irrilevanti. Quello del sindacato è l'esempio
emblematico di un soggetto molto forte che diventa largamente
irrilevante nel condizionare le strategie delle imprese.
In realtà ci sono delle
esperienze ormai concrete, per esempio contro alcuni progetti
del FMI
e della BM
nei paesi del Terzo Mondo
(per esempio c'è un progetto di costruzione di una grande diga
in India che sconvolgerebbe gli equilibri ambientali, caccerebbe
di casa centinaia di migliaia di persone le cui terre verrebbero
inondate) nei cui confronti c'è stata una lotta sociale concreta.
Questa lotta fortissima a livello locale contro queste istituzioni
che stanno a Washington, in un altro mondo, dimostra che tali
scelte possono essere combattute esattamente come ci si misura
con la FIAT a Torino o con il Governo italiano a Roma. Esistono
centinaia di organismi non governativi, associazioni e movimenti
di tutto il mondo, che da alcuni anni stanno facendo una campagna
per la democratizzazione dell'ONU
chiedendo che il Consiglio di Sicurezza non sia più composto
dai paesi più forti che possiedono le armi nucleari con il diritto
di veto, e che sia costituita una seconda assemblea in cui i rappresentanti
siano eletti dalle società e non dai governi. Allo stato attuale
i rappresentanti alle Nazioni Uniti sono i delegati dei governi,
mentre tale assemblea dovrebbe riflettere direttamente le voci
dei popoli.
Tornando alla questione
della riconversione, il problema è che in Occidente c'è una sostanziale
inerzia e una difficoltà ad intervenire in modo radicale, anche
perché non cambia il quadro di riferimento, cioè non si riconosce
l'esaurimento del senso storico, oltre che sociale ed economico,
di un sistema militare tagliato su un modello vecchio. Quindi
non c'è un'inversione di rotta, non c'è una scelta di cambiamento
radicale e si licenziano le persone che lavorano nelle fabbriche
di armi come si licenziano le persone che lavorano nelle altre
fabbriche. Le forze armate vengono un pochino dimagrite, ma non
tanto, viene posto il problema dell'esercito volontario e dell'esercito
di leva. Vi è qui una forte contraddizione perché da un lato l'esercito
volontario costa molto di più ed è più utilizzabile per quegli
interventi internazionali che sono, dalla guerra del Golfo in
poi, il modello su cui vengono costruite le forze armate; dall'altro
l'esercito di leva è l'eredità classica dello Stato nazionale
che dal '500 in poi è stato sviluppato, e quindi da una parte
è più "democratico" e dall'altra è ancora più fuori
dal tempo, perché non ha più alcun senso che i paesi obblighino
i maschi giovani a perdere un anno di vita per imparare a fare
la guerra.
Riconversione vuol
dire anche smilitarizzazione della società, cioè togliere status,
immagine, ruolo, a chi fa la guerra e quindi ad esempio riconvertire
le caserme in asili. I punti fondamentali da seguire sono:
1. la smilitarizzazione
della società;
2. la costruzione di
forze che non siano parte di una logica di minaccia verso altri
paesi.
Nello specifico della
riconversione, si è predicato di applicarla soprattutto agli altri:
nel caso dell'Est il problema si è posto nel modo più drammatico,
perché l'Est aveva un peso del settore militare in proporzione
al resto dell'economia molto superiore a quello dell'Occidente.
Quindi si è posto un problema gigantesco di politica industriale
nel tentativo di ridurre quelle dimensioni. Il passaggio dalla
produzione militare alla produzione civile non è soltanto tecnico,
cioè non si tratta di cambiare soltanto il prodotto, ma c'è un
problema di tipo manageriale, industriale, organizzativo e di
criteri per la produzione del prodotto. All'Est il passaggio dall'uso
di queste risorse produttive verso nuove attività civili è stato
particolarmente grave. In realtà alcuni settori puntano ancora
alla produzione di armi per l'esportazione nei paesi in cui vi
sono conflitti, altri settori hanno cercato crediti in Occidente
per attuare la riconversione, ma non sono arrivati finanziamenti
sufficienti e quindi non si sono visti effetti significativi in
tale senso. Ribadisco che se non si dà una risposta a problemi
di questo tipo si rischia di perdere un'occasione storica in senso
letterale di trasformazione del sistema produttivo a livello internazionale.
Docente di Economia
Politica, Università di Roma La Sapienza"
29/03/1995
La neutralità della
moneta
Il nostro sarà un discorso
teorico, ma che ha anche riflessi molto concreti sul modo di funzionare
di un'economia di mercato. Il tema di cui trattiamo è, soprattutto,
un tema che mette in dubbio le idee e le categorie che a volte
passano da una generazione all'altra, immutate, senza che nessuno
le abbia veramente soppesate nella loro presunta correttezza.
Una di queste idee
è che la moneta, pur essendo un ingrediente essenziale nella circolazione
delle ricchezze (infatti nessuno di noi sarebbe più capace di
concepire un'economia di baratto in cui ciascuno di noi, come
se fossimo tornati selvaggi, dovesse scambiare in natura 3 ore
di lavoro contro due chili di pasta, un pezzo di pane contro mezzo
metro di stoffa: è evidente che siamo così abituati all'idea di
un'economia monetaria che ci sembra la cosa più naturale del mondo),
tuttavia, sebbene siamo abituati a considerare la circolazione
monetaria e l'economia monetaria come una caratteristica assolutamente
essenziale del mondo moderno, a volte pensiamo anche (e lo pensiamo
perché persone 'autorevoli' ce lo fanno credere) che la moneta
sia un ingrediente assolutamente neutrale, un fattore benefico
che facilita gli scambi, ma che però sostanzialmente non li modifica.
Questo nel senso che se dovessimo tornare ad un'economia di baratto,
pur con grande fatica, grande costo, magari con maggiore lentezza,
scomodità ecc., però sostanzialmente l'economia funzionerebbe
allo stesso modo, i lavoratori lavorerebbero nella stessa misura,
si produrrebbero le stesse merci, le stesse merci verrebbero scambiate
e quello che gli economisti chiamano a volte l'equilibrio dei
mercati (cioè l'assetto finale al quale conducono le contrattazioni)
sarebbe più o meno il medesimo. Ci sarebbero degli aggiustamenti,
ma non degli stravolgimenti radicali.
Questo modo di pensare
viene particolarmente coltivato, raccomandato e trasmesso da una
generazione all'altra, ad opera di una scuola di pensiero che
è la scuola individualista, a volte chiamata anche Neoclassica,
una scuola che, tranne rari intervalli, è sempre stata la scuola
dominante almeno nell'insegnamento, a livello accademico. Ha avuto
i suoi periodi di grande splendore negli ultimi decenni del secolo
scorso e periodi di crisi nell'immediato dopoguerra
e oggi essa è nuovamente tornata in auge, ovviamente evoluta,
modernizzata, tecnicizzata, però sostanzialmente immutata nelle
sue idee centrali.
Una delle caratteristiche
della scuola Neoclassica è l'idea che, appunto, il meccanismo
economico, l'assetto economico, l'equilibrio economico, derivi
unicamente dalle singole scelte individuali e dalle contrattazioni
che si stabiliscono tra singoli individui, in un libero mercato
in cui ognuno è libero di contrattare. E una delle caratteristiche
che la scuola Neoclassica desidera sottolineare è che questo meccanismo
del mercato è un meccanismo, anzi a questo punto direi "sarebbe"
- tanto per cominciare a prendere le distanze - un meccanismo
profondamente democratico, nel senso che chiunque abbia qualcosa
da offrire (merci, lavoro, servizi) è in grado di ottenere dal
mercato l'equivalente in valore sotto forma di altre merci. E
giacché è dovere di ognuno di noi offrire almeno un servizio,
che è il nostro lavoro, allora praticamente ognuno di noi avrebbe
accesso al mercato, avrebbe la capacità di procurarsi nel mercato
altri beni (che gli sono necessari), nello scambio con il bene
che egli stesso offre, che è la sua attività lavorativa (o altro
se può offrire altro, come cespiti patrimoniali, cose ereditate
ecc.).
E' essenziale, per
la teoria Neoclassica, stabilire che la moneta non modifichi questo
assetto perché è essenziale
stabilire che tutti i soggetti abbiano accesso al mercato,
eguale possibilità di contrattare sul mercato (vendere, comprare,
scambiare, quindi lavorare e guadagnarsi da vivere), sia che essi
abbiano disponibilità di moneta iniziale, sia che essi non ce
l'abbiano. Quindi per la scuola Neoclassica è essenziale dimostrare
- per sostenere la fondamentale giustizia e democraticità del
mercato -che il mercato è aperto a tutti, anche a coloro che inizialmente
non hanno neanche una lira in tasca: qualcos'altro da vendere
l'avranno, venderanno il loro lavoro, il che è esattamente la
stessa cosa.
La moneta: una merce
come tutte le altre?
Per
giustificare questo modo di pensare, che a prima vista è un po'
stridente con la nostra esperienza, la scuola Neoclassica ha elaborato
- non voglio dire inventato - una teoria della moneta molto particolare.
Contro tutti coloro i quali hanno sostenuto da sempre che il mercato
è nelle mani di coloro che dispongono di moneta (nelle mani dei
banchieri, perché i banchieri sono in grado di produrre moneta,
o del "signore" di un tempo perché il signore era in
grado, grazie al suo potere politico, di coniare moneta metallica),
quindi contro tutti coloro i quali sostengono che il mercato si
"apre" soltanto per coloro che hanno una capacità d'acquisto
sotto quella particolare forma che è la forma monetaria, la teoria
Neoclassica, che vuole evidentemente sostenere il contrario -
e cioè che il mercato si "apre" a tutti - ha sostenuto
che, in fondo, non vi sia nulla che distingua la moneta da tutte
le altre merci. La moneta sarebbe dunque una merce come tutte
le altre: che cosa è la moneta, in fondo? Torniamo indietro nella
Storia: la moneta era moneta metallica, di metallo prezioso; allora
basta che un lavoratore, anche se non ha moneta, si procuri questa
merce - il metallo prezioso, l'oro, l'argento ecc. a seconda delle
epoche storiche - ad esempio trasformandosi in cercatore d'oro;
una volta ottenuto questo metallo potrà portarlo alla Zecca, farlo
coniare - è un diritto di tutti i cittadini - e ottenere la moneta,
che dunque non è altro che una merce. Il conio non fa altro che
imprimere la certezza del peso del titolo ed è solo una certificazione
della qualità del metallo. Il metallo è una merce, quindi chiunque
dispone di una merce ha libero accesso al mercato. Il fatto che
il mercato diventi un mercato monetario non cambierebbe la natura
sostanziale del mercato, che sarebbe quella di essere una istituzione
aperta a tutti poiché il baratto è aperto a tutti.
Facendo un passo avanti
nella Storia - così prosegue la ricostruzione della teoria individualista
o Neoclassica - si ha il passaggio alla moneta carta, che non
è un cambiamento, perché la moneta carta in un'economia ben amministrata
non è altro che la rappresentante del metallo: una banca di emissione seria dovrebbe
avere riserve corrispondenti alla circolazione cartacea; e, così,
anche le banche non dovrebbero fare altro che raccogliere depositi
da una parte ed emettere prestiti dall'altra. Ma noi in realtà
avremmo ancora una moneta merce in circolazione, anche se per
ragioni di semplice convenienza materiale il metallo rimane nei
forzieri delle banche o della banca centrale e quello che noi
vediamo circolare sono soltanto dei pezzi di carta, che comunque
rappresentano il metallo: la moneta è sempre moneta-merce ed il
mercato conserva le sue caratteristiche.
La moneta secondo
Keynes
Questa visione della
moneta come semplice elemento tecnico
che facilita gli scambi e che però non cambia la natura del mercato,
e che quindi non intacca la sostanziale giustizia degli scambi
e del libero mercato, è stata - secondo alcuni - messa in discussione
in maniera definitiva, fra le due guerre, da quel pensatore da
molti osannato e da molti deprecato che fu l'inglese Keynes
, il quale ebbe qualcosa da dire anche - anzi, secondo alcuni soprattutto
- su questo problema della moneta. E' molto discutibile e discusso
se quello che adesso dirò di Keynes
sia stato detto proprio da Keynes
per la prima volta, ma questo
nella storia delle idee forse non ha sempre una grande importanza
- è sempre una grande passione per gli storici andare negli archivi
e scoprire chi fu il primo che disse quella tale cosa e quelli
che la dissero dopo, ma dal punto di vista della storia delle
idee l'importante è l'affermarsi di un'idea. E' certo che Keynes
, anche
se forse non fu il primo a ragionare nel modo che si dirà, è stato
quello che con maggiore coerenza, con maggiore incisività, e quindi
con maggiore effetto persuasivo
diffuse queste idee.
Keynes
osservò che in fondo, se
ci mettiamo in un'ottica rigorosamente Neoclassica, dovremmo anche
arrivare alla conclusione che se la moneta è soltanto questo elemento
tecnico, che serve a far circolare le merci, ma ha soltanto questa
funzione strumentale e nient'altro, allora questo significa che
in sé e per sé la moneta non ha alcuna utilità, è soltanto uno
strumento: io mi procuro della moneta - indebitandomi, scambiando
- solo perché devo fare degli acquisti, ma non appena la mia necessità
di essere presente sul mercato e di scambiare è scomparsa, io
della moneta non so più che cosa farmene. In un mercato perfettamente
funzionante io mi procuro moneta il giorno in cui mi devo recare
al mercato. Non c'è nessuna ragione di procurarmi moneta prima,
magari indebitandomi e pagando un tasso di interesse, ma lo farò
il giorno in cui la moneta mi serve e se il mercato funziona perfettamente
io ho la sicurezza che quel giorno troverò - se debbo indebitarmi
- un creditore. Ma allora questo significa anche che se noi osserviamo
un mercato e lasciamo svolgere le contrattazioni, alla chiusura
del mercato - ipotetica forse, perché si sa che i mercati non
si chiudono mai, ma pensiamo alla chiusura del venerdì sera del
mercato borsistico che riapre il lunedì mattina - la moneta scomparirebbe,
perché nessuno avrebbe ragione di tenere moneta inutile e tutti
cercherebbero di rimborsare i debiti; se rimanesse della moneta
metallica verrebbe utilizzata per altri scopi e cioè non ci sarebbe
la moneta come grandezza
osservabile. La moneta avrebbe messo in moto tutta la circolazione
delle merci, avrebbe fatto funzionare il mercato e poi tutti se
ne libererebbero e la moneta scomparirebbe. Allora - osservava
Keynes
- se noi vogliamo utilizzare
questa categoria di moneta e vogliamo sostenere che la moneta
è qualcosa che esiste continuamente, un'entità che non è un'entità
che appare e scompare a seconda del momenti, noi dobbiamo affermare
una cosa molto elementare e cioè che la moneta è utile non soltanto
per quella funzione strumentale di veicolo degli scambi, ma essa
è utile - e quindi viene desiderata - anche per venire tenuta da parte come scorta liquida:
la vera domanda di moneta è una domanda di scorte liquide. Ciò
che ogni soggetto vuole avere è una scorta
di moneta, e questo per mille ragioni - ragioni precauzionali,
perché vi è l'incertezza, perché vi è la possibilità di speculare,
perché vi sono dei pagamenti che avvengono ad intervalli di tempo
e io devo essere pronto a rispettare le scadenze. Nel mondo moderno
di una economia monetaria, un po' per il modo in cui è organizzata,
un po' per l'incertezza che domina gli scambi, tutti i soggetti
vogliono sempre avere una scorta liquida: allora la vera funzione
della moneta - disse Keynes
- non è quella di far circolare
le merci (c'è anche questo, ma non dobbiamo pensare che sia la
cosa essenziale), bensì quella di soddisfare questo bisogno di
sicurezza o meglio questo bisogno
di liquidità, questo bisogno che ognuno di noi sente nel privato,
ma che vale anche per le imprese, i commercianti, gli speculatori,
in misura commisurata al loro giro d'affari.
Questa idea forse venne
presentata per la prima volta da un personaggio un po' strano
e sconosciuto nella storia del pensiero economico, Schlesinger,
che originariamente era un banchiere ungherese vissuto negli anni
trenta, nella prima metà di questo secolo, che abbandonata l'Ungheria
e trasferitosi a Vienna, aveva frequentato gli ambienti universitari
e il famoso seminario di Menger
; lì
aveva presentato un suo lavoro sulla Domanda
di moneta e sulla utilità della moneta. Questo personaggio
poi scomparì e fece una fine tragica perché nel marzo del '38
si trovava a Vienna e quando vide le truppe di Hitler che invadevano
la città si uccise con un colpo di pistola, e resta forse una
figura memorabile più per questo che non per i suoi pregevoli
contributi che come dilettante ha dato alla teoria economica.
La sua idea venne poi ripresa dal famosissimo economista inglese
Hicks
che ne trattò in un saggio
nel 1933, e da Hicks passò poi a Keynes
che fu quello che in realtà
ne persuase il mondo degli studiosi, dando a questa formulazione
una sorta di suggello definitivo. Da allora tutti quelli che studiano
economia, arrivati al capitolo sulla moneta leggono che la moneta
ha una sua utilità diretta
che è quella di proteggere contro l'incertezza, di consentire
di affrontare le spese previste e che comunque la domanda di moneta
è una domanda di scorte liquide.
I problemi della
visione di Keynes
Tutto questo è estremamente
convincente e sarebbe difficile negarlo, però per raggiungere
questo risultato positivo, Keynes
e tutti i suoi seguaci pagarono,
come a volte si dice, un prezzo molto elevato. Infatti se noi
consideriamo la moneta soltanto come scorta liquida allora noi
tracciamo il quadro - elegantissimo - di un'economia, di un mercato
nel quale ogni soggetto si presenta con una certa capacità d'acquisto,
sceglie i beni da comprare e alla chiusura del mercato avrà acquistato
una serie di beni utili e fra le tante cose che avrà acquistato
avrà anche fatto in modo di tornare a casa, dalla chiusura del
mercato, con la scorta liquida desiderata che gli terrà compagnia
fino alla prossima tornata di mercato e servirà a placare il suo
bisogno di sicurezza e di tranquillità o di liquidità. Allora,
ancora una volta, noi ci concentriamo sulla posizione di equilibrio
finale, sulla chiusura del mercato, e la moneta compare soltanto
come questa sorta di camomilla che si compra e si tiene da parte
per essere sicuri di non essere poi inseguiti dai creditori e
di vedere incautamente i propri mobili messi sul marciapiede e
venduti all'asta. Ma in questo modo tutta la funzione della moneta,
che è quella di mettere in moto il processo degli scambi, determinare
chi produce, che cosa si produce, chi compra,
chi vende e quale sarà l'assetto definitivo, tutta questa
funzione scompare, e di nuovo siamo tornati ad una rappresentazione
del mercato molto simile a quella di un grande baratto in cui
si vende o si compra una merce in più ed ancora una volta la chiave
del funzionamento del mercato - e cioè perché si arriva a certe soluzioni reali, perché certi beni si producono ed altri no, perché certi soggetti si arricchiscono ed altri no, chi
prende le decisioni e chi le subisce - tutto questo,
assolutamente e completamente, ci sfugge.
Se ci chiediamo perché
tutto questo ci sfugge, forse individuiamo come ragioni principali
due ragioni: la prima è - tornando alla rappresentazione individualista
del mercato - una sorta di assunto o di convinzione primaria di
ognuno di noi: io ho detto che secondo la teoria Neoclassica il
mercato è un mercato democratico, giusto, aperto a tutti, in cui
chiunque abbia qualcosa da offrire - anche solo il proprio lavoro
- trova porte aperte, entra nel mercato e la sua merce sarà valutata
per quello che vale. Questa è un'idea che non persuade nessuno.
Tutti noi siamo persuasi dell'opposto e cioè che nel mercato in
realtà possa entrare soltanto chi dispone di moneta. Il mitico
lavoratore della teoria individualista, che avrebbe accesso al
mercato come tutti gli altri purché sia in grado di lavorare,
purché desideri lavorare, in realtà sa benissimo che la sua offerta
di lavoro, la sua disponibilità a lavorare non gli apre per nulla
le porte del mercato. Le porte del mercato glie le apre un altro
soggetto, e cioè il suo datore di lavoro quando decide di assumerlo,
che lo fa perché ha in mano un finanziamento che gli consente
di pagare un salario, ha in mente dei piani di produzione e la
possibilità di un profitto. Insomma, in realtà non è mai la semplice
e nuda disponibilità di un lavoro, di un bene, di un servizio
che ci apre le porte del mercato. Questa è una convinzione
che - direi - è giustamente diffusa e non è affatto una
convinzione nuova - anche Stuart Mill
, economista della metà del secolo scorso, arrivato al capitolo sulla
moneta dei suoi "Principi di economia", diceva che il
modo migliore per definire in maniera spicciola la moneta è di
dire che la moneta è il biglietto
di ingresso nel mercato: come non si entra a teatro se non
si ha un biglietto d'ingresso, così pure se non si ha in mano
della moneta liquida, nel mercato non si entra. Questa idea, che
Mill
prendeva dal sano buon senso di tutti i giorni, poi è stata
accuratamente accantonata dalla teoria Neoclassica. La seconda
ragione per cui anche l'immagine Keynesiana non coglie tutto questo
è che, se noi allora vogliamo fare un passo avanti, dobbiamo chiederci:
visto che nel mercato si entra soltanto se si ha disponibilità
liquida (perché l'economia è un'economia monetaria e in un'economia
monetaria non si scherza, è inutile dire che un'economia monetaria
funziona come un'economia di baratto - non funziona come un'economia
di baratto, funziona in un modo diverso! ) allora se siamo convinti
di questo fatto - e cioè che la disponibilità di moneta sia il
biglietto d'ingresso nel mercato - allora la prima domanda, il
primo quesito che dobbiamo sollevare è quello che riguarda l'origine
della moneta: chi produce la moneta e a chi la distribuisce, chi
viene in possesso di moneta? E quando io sollevo questo quesito
è evidente che io intendo chiedermi chi viene in possesso di moneta
secondo le regole del gioco istituzionali, perché poi ci sono
certamente i falsari, i ladri, c'è tanta gente che risolve questo
problema per le vie brevi, ma non sono queste le vie che in questo
momento ci interessano. Quindi il problema della creazione
e della distribuzione iniziale della moneta è il problema
centrale per cominciare a capire come funziona un'economia monetaria.
Lo Stato come unico
responsabile della quantità di moneta esistente: la posizione
Neoclassica
Bisogna dire per giustizia,
anche a costo di fare una brevissima parentesi, che anche la scuola
Neoclassica si è posta questo problema, dopo che Keynes
aveva introdotto il suo nuovo modo di vedere - aveva persuaso
tutti del fatto che quello che conta della moneta è la moneta
come grandezza osservabile e l'unico momento in cui noi osserviamo,
possiamo guardare, vedere e misurare la quantità di moneta è quello
in cui la moneta si trova sotto forma di scorte liquide di qualcuno;
l'unica grandezza osservabile sono le scorte liquide. Quindi anche
la scuola Neoclassica si chiede: se noi osserviamo il mercato
in un istante, facciamo la fotografia del mercato, magari nella
sua posizione di equilibrio, che cosa possiamo dire sulla quantità
di moneta esistente? Chi l'ha prodotta e nelle mani di chi si
trova? A questo quesito, che forse tardivamente la scuola Neoclassica
si pose, ma se lo pose - perché la scuola Neoclassica non trascura
nulla per rafforzare e perfezionare il proprio edificio teorico
- la scuola Neoclassica risponde così: è vero quello che dice
Keynes
. Se
noi osserviamo il mercato in una posizione di equilibrio - dicono
i neoclassici - osserviamo che tutti i soggetti hanno una loro
piccola scorta monetaria e sommando tutte queste quantità noi
abbiamo lo stock di moneta esistente in quel momento. Chi la ha
prodotta? E' chiaro che la nostra risposta - dicono i neoclassici
- deve essere una risposta coerente con la nostra teoria dei mercati.
La nostra teoria dei mercati sostiene che nella posizione di equilibrio,
quando idealmente questo mercato si è chiuso e le contrattazioni
sono finite e quindi hanno luogo soltanto gli scambi che sono
l'esecuzione di quello che si è concordato prima, arrivati a questo
punto di equilibrio finale, noi neoclassici sosteniamo che tutti
i soggetti, tutti i partecipanti senza eccezione sono assolutamente
in equilibrio, nel senso che rispettano il loro vincolo di bilancio,
non sono indebitati, hanno fatto quadrare i conti, hanno comprato
esattamente quanto le loro entrate consentivano loro di comprare
ecc.
Allora l'unico che
può aver prodotto moneta è lo Stato, che è l'unico soggetto per
il quale questa regola di equilibrio del bilancio non vale. Può
benissimo accadere che lo stato faccia delle spese e quindi conii,
stampi e paghi moneta in misura superiore alle sue entrate. La
quantità di moneta che
noi troviamo in un mercato nella posizione di equilibrio - si
dice - corrisponde esattamente al disavanzo del settore pubblico e cioè quel
tanto di spese che non sono state finanziate con prelievo fiscale,
oppure con emissione di titoli, ma soltanto con creazione di moneta.
Questa è una posizione
elegante - o forse più che elegante direi coerente - perché concilia
quello che affermava Keynes
(in ogni istante c'è una
certa quantità di moneta positiva) con il pareggio di tutti i
bilanci privati (e quindi la assenza di debiti per tutti i soggetti)
perché è lo Stato quello che crea lo stock di moneta esistente.
Ma questa è anche una soluzione un po' scomoda e infatti esistono
autori di scuola Neoclassica, ma non tanto ortodossi da essere
miopi, che non la condividono - come il famoso, anziano e rispettabilissimo
economista americano James Tobin, il quale quando arriva nella
costruzione dei suoi modelli a questa soluzione dice: "sì,
questa è la consuetudine, però è veramente un po' strano che uno
stato debba commisurare il proprio disavanzo non già su problemi
seri come quello della spesa pubblica, del fabbisogno o del prelievo
fiscale - che dovrebbero essere le cose che poi determinano il
disavanzo - ma debba commisurarlo soltanto alla necessità di creare
moneta". Quindi uno stato sarebbe costretto ad andare in
disavanzo solo perché deve finanziare le scorte liquide dei privati
- il ché è davvero un po' strano, ma questo è quello che la teoria
Neoclassica ci dà e ce lo dobbiamo tenere.
La moneta come risultato
di una forma di credito: le posizioni alternative
Allora, visto che anche
la scuola Neoclassica ha cercato di fare fronte a questo quesito
di come si crea davvero e da dove viene la moneta esistente, ed
ha risposto in questo modo particolare - se in un certo istante
esiste una certa quantità di moneta questa può venire soltanto
dal disavanzo pubblico - vediamo quali sono invece le risposte
alternative.
Anche la teoria alternativa
ha una sua storia, però è una storia molto più sotterranea di
quello che non sia per la teoria monetaria Neoclassica - nota
a tutti: dal vecchio baratto nasce la moneta metallica, poi la
moneta cartacea che rimpiazza la moneta metallica e così via e
poi attraverso perfezionamenti tecnici successivi si arriva alla
moneta elettronica di oggi, ma la base rimane sempre il metallo,
il baratto.
La teoria alternativa,
invece, è una teoria che è stata coltivata in maniera discontinua,
da studiosi a volte celebri e a volte no, da studiosi che se erano
celebri lo erano per contributi dati in campi completamente diversi,
e i nomi che si trovano in questo cammino sono a volte anche nomi
illustri - perché troviamo Wicksell
, Schumpeter
, Kalesky
ed altri, persone che si
sono affermate per contributi dati forse in campi diversi da quello
monetario; nel campo monetario sono stati sostanzialmente eterodossi
e il loro pensiero monetario non è stato mai definitivamente accolto
nella accademia ufficiale.
La
prima osservazione che costoro fanno è che se noi dobbiamo capire
qualcosa della creazione della moneta non dobbiamo affatto pensare
allo Stato, né al signore dei tempi andati: dobbiamo pensare ai
rapporti di affari che si svolgono all'interno del settore privato,
perché ogni settore privato
crea la propria moneta quando ne ha bisogno. Pensiamo anche
alla circolazione medioevale: noi tendiamo a pensare alla moneta
metallica, ma questo è uno sbaglio perché la moneta metallica era soltanto la moneta piccola, i soldi spiccioli, che servivano
per pagare i salari o per vendere nei mercati i beni di consumo
e quella era una forma di moneta davvero imposta dal potere del
signore e che recava il conio e la sua immagine. Ma il vero mondo
degli affari, il mondo dei grandi commerci fra città, fra stati,
fra continenti, si svolgeva attraverso il finanziamento dei banchieri.
Chi doveva comprare si faceva dare un finanziamento da un banchiere,
chi doveva vendere si faceva dare una lettera di credito. I banchieri
erano in rapporto in tutto il mondo ed i veri commerci in tutto
il mondo erano finanziati da moneta privata, la quale non era
altro che una forma di credito.
Allora
a questo punto, per capire in che cosa consista la circolazione
monetaria, dobbiamo guardare all'interno del settore privato,
prescindere dal potere politico del "signore " usato
per imporre una moneta coniata, e dobbiamo stabilire che la
moneta nasce da una forma di credito. Quale forma di credito,
esattamente? Noi dobbiamo dire subito che la moneta, in questa
concezione e con un'affermazione nettamente contraria a quella
della teoria Neoclassica, non è una moneta merce e questo per
le stesse ragioni dei neoclassici. Infatti se la moneta fosse
una moneta merce allora noi avremmo un'economia di baratto. Può
darsi benissimo, forse, che in tempi antichi si siano fatti degli
scambi pagati in oro, in argento o in bronzo, ma quella - direbbero
i teorici di oggi - non era un'economia monetaria bensì un'economia
di baratto. Se vogliamo una vera economia monetaria la moneta
non dev'essere merce, dev'essere una moneta astratta, una moneta-segno.
Se dev'essere una forma di credito, però, non dev'essere una forma
di credito bilaterale - è perfettamente possibile che il credito
bilaterale ci sia (io vado a comprare dal mio fornitore il pane
e gli dico che lo pagherò alla fine del mese e questa è una forma
di credito fra lui e me, ma siamo in un'economia di credito in
cui le merci circolano lasciando queste pendenze di un debito
e di un credito, e
non siamo ancora in un'economia monetaria). Invece un'economia
monetaria è un'economia nella quale le merci circolano senza baratto
e senza questo strascico di un debito e di un credito; questo
avviene quando vi è una situazione triangolare, con l'intervento
di un finanziatore che è, sostanzialmente, ed è sempre stato,
il banchiere. Se io ottengo un finanziamento bancario - e questo
era vero nel medioevo come è vero oggi - io accedo al mercato,
compro delle merci, non lascio alcun debito pendente (perché la
transazione è perfettamente regolata, tant'è che io divento proprietario
della merce) e allora cosa accade? Accade evidentemente che mentre
fra i due contraenti la transazione è regolata e il pagamento
è fatto, la natura creditizia della moneta rimane, perché io che
ho avuto il finanziamento bancario sono indebitato verso la banca
e l'altro, quello che mi ha venduto la merce, adesso è creditore
della banca e può rivolgersi alla banca per incassare quello che
gli spetta avendomi venduto una merce - ma fra lui e me la transazione
è regolata. Quindi la moneta ha natura creditizia, ma non è mai
un credito diretto e bilaterale, è sempre un credito triangolare.
Il funzionamento
di un'economia monetaria
Allora vediamo come
funziona un'economia monetaria con un principio di questo genere,
senza moneta-merce, senza moneta pubblica, con moneta creditizia
di natura privata. Un'economia monetaria funziona esattamente
come noi tutti sappiamo. Come fanno le imprese a mettere in moto
il processo produttivo? Un processo produttivo si mette in moto
perché le imprese, avendo in vista un profitto assumono dei lavoratori,
svolgono un processo produttivo, e poi vendono la merce. Come
fanno a mettere in moto tutto questo processo? Si rivolgono ad
un istituto bancario e si fanno dare un finanziamento, con questo
finanziamento pagano il monte salari e così i salariati diventano
creditori della banca [avranno fra le mani un assegno da riscuotere, N.d.R.] e l'imprenditore
rimane indebitato con la banca. Poi i salariati vanno sul mercato,
comprano le merci che vogliono comprare, in questo modo il loro
credito ritorna nelle mani delle imprese e le imprese - avendo
venduto le merci - possono rimborsare il credito bancario. Se
i salariati - il che è ovvio - decidono di non spendere, di non
consumare per intero il loro reddito e di risparmiarne una parte,
avranno la possibilità di una scelta, potranno tenerne una parte
sotto forma liquida - e questo per le imprese è la cosa peggiore
perché se il salariato mantiene sotto forma liquida una parte
del suo reddito, magari versandolo in un deposito bancario, queste
somme sono perdute per le imprese le quali restano indebitate
verso le banche di altrettanto. Per questo le imprese cercano
di convincere invece i salariati a impiegare il loro salario,
anche il loro risparmio, in un modo per cui questa liquidità ritorni
nelle casse delle imprese. L'ideale per le imprese sarebbe se
i salariati, una volta deciso di risparmiare una parte del loro
reddito, impiegassero il loro risparmio nei mercati finanziari,
comprando delle azioni: se io risparmiatore con un reddito di
100 ne spendo 80 per comprare prodotti alimentari e altri beni
finiti, avrò 20 lire di risparmio; ma se queste 20 lire di risparmio
io le impiego in borsa per comprare azioni della Fiat o della
Olivetti o della Pirelli, io praticamente restituisco la liquidità
alle imprese, ne ho in cambio dei titoli azionari od obbligazionari,
divento idealmente comproprietario del patrimonio produttivo della
nazione, ma intanto ho restituito completamente la liquidità alle
imprese, le quali possono così rimborsare completamente il debito
bancario.
Infatti questa realtà
della circolazione monetaria è una realtà che poi alcuni autori
neoclassici avevano visto con molto acume - i più smaliziati -
e uno di questi era proprio l'autore della Teoria dell'equilibrio generale, il famoso economista francese Walras
, il quale era forse un po' troppo smaliziato e infatti pur essendo un
economista di grande valore, non riuscì mai ad avere una cattedra
in Francia - dovette insegnare all'Università di Losanna per tutta
la vita, il che per lui era una sorta di esilio. Walras
, appunto,
affermava che la Borsa è il vero tempio del capitalismo moderno,
perché con l'emissione di titoli in borsa le imprese nel loro
complesso riescono a risucchiare
tutto il risparmio monetario e così - in parte vendendo
merci, in parte vendendo titoli - il circuito si chiude: le
imprese si indebitano per pagare i salari, poi recuperano tutto
e rimborsano il debito.
Questo circuito viene
disturbato quando la Borsa non funziona; e la Borsa può non funzionare
per tre ragioni sostanziali:
1. la prima ragione
è che, appunto, i risparmiatori decidano di tenere i loro risparmi
sotto forma liquida (es. io ho un po' di risparmio, le mie 20
lire le tengo in un deposito bancario - questa è una forma di
risparmio prediletta dalle banche perché così le banche sanno
che se prendono 20 lire in deposito da me ci saranno certamente
delle imprese indebitate esattamente per 20 lire, perché queste
20 lire non sono state restituite alle imprese; così le banche
faranno i loro affari: da un lato le imprese saranno costrette
a finanziarsi e rifinanziarsi e dall'altro avranno il mio deposito).
2. Una seconda eventualità
in cui la borsa non funziona è che nei mercati di borsa - questo
è il caso del nostro Paese oggi - si presenti lo Stato a emettere
titoli (allora io risparmiatore potrei preferire i titoli di Stato
ai titoli privati. Questo è il fenomeno ormai cristallizzato nella
nostra economia contro il quale le nostre imprese, la nostra Confindustria
ha sempre tuonato: la vera ragione per cui la Confindustria ha
sempre tuonato contro il disavanzo pubblico non è il pericolo
di inflazione, lo squilibrio finanziario, non è l'impatto sui
tassi d'interesse, ma è che tutto quel risparmio che va a comprare
titoli di Stato è perduto per le imprese e le imprese sono costrette
a fare ricorso a surrogati, a ottenere dei trasferimenti pubblici,
dei sussidi, oppure a restare indebitate verso le banche. Le imprese
vedono il debito pubblico come una sorta di sanguisuga che sottrae
liquidità alle grandi imprese e le obbliga a ricorrere a dei surrogati
per finanziarsi, per recuperare il necessario a rimborsare il
debito bancario).
3. Una terza possibilità,
infine, è che in un'economia aperta possono esservi delle esportazioni
di capitali (io ho le mie 20 lire di risparmio e decido di comprare
dei marchi tedeschi, cosa di grande moda al giorno d'oggi - evidentemente
si ha una esportazione di capitali, cadono le riserve valutarie,
ma anche questo comporta per le imprese una perdita di liquidità
perché se io compro marchi tedeschi le imprese nazionali non recuperano
per altrettanto quello che hanno erogato e per cui si erano indebitate).
Lasciamo questi casi
patologici e immaginiamo che il meccanismo funzioni - infatti
ha sempre funzionato, sia pure con delle toppe e degli aggiustamenti.
Come fanno le imprese a realizzare dei profitti? Ecco, qui la
risposta è estremamente semplice, perché se noi vediamo l'economia
di mercato in questo modo, allora noi vediamo anche una caratteristica
che è stata riconosciuta da tutti gli studiosi - quelli un po'
smaliziati, non proprio miopi o bendati - e cioè che in un'economia
di mercato le imprese, avendo in mano l'accesso al credito bancario,
potendo loro e soltanto loro mettere in moto il processo produttivo,
perché hanno il finanziamento e possono pagare i salari e realizzare
il processo produttivo, le
imprese hanno anche il dominio della produzione e cioè le imprese
possono decidere che cosa produrre e che cosa non produrre.
In particolare le imprese possono decidere quanto
produrre sotto forma di beni di consumo e quanto produrre sotto
forma di beni strumentali, beni capitali che non saranno venduti
ai consumatori.
Quando il consumatore,
il famoso salariato di cui dicevo prima, va al mercato e decide
di spendere il suo reddito, in realtà potrà spenderlo solo per
comprare ciò che nel mercato si trova, e cioè soltanto quello
che le imprese - non il consumatore - hanno deciso di mettere
in vendita. Di conseguenza fra imprese da una parte e salariato-consumatore
dall'altra, si determina questa divisione di poteri per cui le
imprese decidono il meccanismo reale - quanti lavoratori occupare,
che cosa produrre, quanto produrre - e il salariato consumatore
si trova in mano dei pezzi di carta che sono il suo salario monetario,
può andare al mercato, ma può comprare, di fatto, soltanto i beni
che le imprese hanno deciso di mettere in vendita. Per cui le
imprese decidono l'occupazione, decidono gli investimenti e decidono
anche i consumi reali dei lavoratori.
Con
questa impostazione tutto il meccanismo viene sconvolto, perché
la sovranità del consumatore scompare e compare invece una sorta
di sovranità dal lato dell'offerta, sovranità del produttore,
sovranità dell'impresa.
E questa è anche la chiave del profitto perché una volta che le
imprese abbiano deciso di produrre una quantità di beni sotto
forma di impianti, macchinari, beni strumentali che i lavoratori
non potranno comprare mai, quelli costituiscono necessariamente,
almeno in parte i profitti delle imprese. Supponiamo infatti che
i lavoratori decidano di spendere anche
tutto quello che hanno, tutto il loro reddito per comprare
beni di consumo; potranno spendere tutto in termini monetari -
cioè potranno spendere il loro reddito fino all'ultima lira -
ma potranno comprare in cambio, in termini reali, solo
i beni che sono stati prodotti sotto forma di beni di consumo
(vestiario, beni alimentari ecc.) e tutto il resto rimane nelle
mani delle imprese ed in termini reali è il loro profitto.
Il ruolo delle banche
Allora a questo punto
forse sorge un piccolo quesito. Gli autori che ricostruiscono
così il funzionamento di un'economia monetaria partono dal principio
- che possiamo ritenere abbastanza ragionevole - che per entrare
nel mercato occorra avere della liquidità. Un secondo assunto
che possiamo ritenere ragionevole è che la liquidità venga prodotta
da questi grandi intermediari finanziari che sono le banche. Un
terzo assunto, che potrebbe invece sembrare un po' dubbio,
è che le banche finanziano soltanto le imprese. Non potrebbe
il lavoratore farsi finanziare anche lui dalle banche e servirsi
del finanziamento ottenuto per andare a comprare e poi ripagare
il debito dopo che avrà lavorato? In linea di principio, evidentemente,
potrebbe.
In realtà vi è una
ragione precisa, analitica, per cui le banche finanziano soltanto
le imprese ed è una ragione di certezza. Torniamo al meccanismo
che abbiamo descritto prima e supponiamo che questo meccanismo
funzioni - cioè che non vi sia uno Stato che pretende di risucchiare
tutto il risparmio dei risparmiatori, che non vi sia questa propensione
alla liquidità per cui i risparmiatori vogliono tenere tutto il
risparmio sotto il materasso e non vogliono spendere in borsa,
che non vi siano fughe di capitali,
cerchiamo di accantonare per un momento queste situazioni
patologiche per cui supponiamo che il meccanismo funzioni - allora
quando il meccanismo funziona, le banche che finanziano le imprese
hanno anche la sicurezza del rimborso del credito, perché il finanziamento
viene dato a imprese le quali nel loro complesso erogano i salari,
i quali poi verranno tutti restituiti alle imprese o perché si
comprano dei beni finiti o perché si comprano dei titoli sul mercato
finanziario. Perciò le imprese nel loro complesso, in un meccanismo
che funzioni senza malattie patologiche, recuperano sempre tutto
il finanziamento avuto e lo possono rimborsare. Quello che le
banche finanziano alle imprese nel
complesso è un finanziamento senza rischi. Naturalmente ci
potrà essere una singola impresa che fa grandi profitti e l'altra
che fa grandi perdite e come in una corsa di cavalli noi possiamo
puntare su un cavallo vincente o su quello perdente, ma nell'insieme
il finanziamento complessivo delle banche al complesso delle imprese
è un finanziamento senza rischi. Quindi le banche per loro natura
finanziano le imprese, perché quella è la via ragionevole da percorrere,
mentre se io finanzio un lavoratore può anche darsi che la maggioranza
dei lavoratori resti disoccupata e nessuno mi garantisce che quel
finanziamento possa essere restituito.
Facciamo solo due o
tre osservazioni laterali per far vedere che questo modo di vedere
le cose non è soltanto una costruzione fantastica o teorica, ma
è anche una costruzione che ha delle conseguenze concrete.
La contrattazione
del salario reale
La prima questione
riguarda quello che dicevo prima riguardo a quella divisione dei
poteri. Le imprese decidono occupazione, produzione, natura della
produzione, cioè tutte le grandezze reali di questa economia,
mentre i salariati si trovano in mano soltanto questi pezzi di
carta e quando vanno al mercato non sanno nemmeno quanto potranno
ottenere in termini concreti contro il loro salario monetario.
Allora che cosa dovremmo dire, forse che il salariato non ha alcun
potere nella determinazione del suo salario reale e cioè che i
salariati non potranno mai contrattare i loro salari reali, e
potranno solo contrattare dei salari monetari trovando sempre
un'incognita nella quantità di beni reali che otterranno quando
andranno a spendere il loro salario monetario? Secondo questo
modo di vedere è proprio così. Non
esiste alcun meccanismo di mercato che consenta di contrattare
il salario reale. I salariati possono contrattare il salario
monetario, ma non possono contrattare il livello dei prezzi, quindi
quando vanno al mercato non sanno quale livello dei prezzi troveranno
e quanto potranno comprare in termini reali. Questo però non significa
che le imprese abbiano un potere illimitato nel fissare i salari
reali e spingerli più in basso possibile. Significa solo che il
salario reale non è oggetto di contrattazione di mercato, bensì
è oggetto di una contrattazione sociale e la sua determinazione avviene in base al
potere di contrattazione delle classi sociali. Abbiamo dei periodi
in cui i salari reali crescono - anche nel nostro Paese per tanti
anni i salari reali sono cresciuti - ora invece da parecchi anni
i salari reali declinano. Questo non dipende dalle contrattazioni
di mercato, ma da una ascesa e poi un declino della forza sociale
della classe lavoratrice: le contrattazioni sul salario reale
si possono fare, sì, ma solo fuori del meccanismo di mercato.
Il bilancio dello
Stato: imposte e spese
Seconda osservazione
- dovuta a quell'economista polacco citato in precedenza, Kalesky
, il quale aveva un modo di pensare molto simile a questo: su chi ricade
il carico tributario, cioè chi paga le imposte? In termini monetari,
in teoria, le pagano tutti in proporzione al loro reddito. Ci
saranno gli evasori, speriamo che non ci siano, ma a parte gli
evasori tutti pagano le imposte in proporzione al loro reddito.
Ma in termini reali, cioè come perdita di beni reali, chi paga
le imposte? Ecco, Kalesky faceva questa osservazione che discende
direttamente da quello che dicevamo prima: in realtà le imposte
le pagano soltanto i lavoratori salariati perché le imprese, nel
momento stesso in cui hanno deciso quanti beni strumentali (impianti,
macchinari ecc.) produrre, hanno anche deciso la quantità di beni
di cui avranno la disponibilità - questi beni strumentali li usano
soltanto le imprese. Allora le imprese in realtà possono decidere
loro stesse i loro profitti semplicemente decidendo l'ammontare
di beni strumentali da produrre e invece quelli che non possono
decidere il loro reddito in termini reali sono proprio i salariati
che ricevono soltanto un salario monetario. Quindi in apparenza
le imposte vengono pagate anche dalle imprese, ma le imprese possono
sempre reagire continuando a produrre la stessa quantità di beni
strumentali che intendevano produrre prima ed in termini reali
non avranno perduto nulla sotto forma di prelievo fiscale. Quindi
Kalesky ne deduceva che nel
bilancio pubblico, quello che veramente conta in una economia
monetaria, non è il lato del prelievo su cui, appunto, lui
era molto pessimista - il prelievo ricade soltanto sulla classe
salariata - ma quello che conta è il lato della spesa perché una parte del prelievo
può essere restituito in natura ai lavoratori salariati apprestando
dei servizi sociali, utilizzando la spesa pubblica per offrire
servizi sociali - scuola, assistenza, ospedali ecc. Quindi il
meccanismo di una società democratica si vede non dal lato del
prelievo, perché in un'economia monetaria non c'è molto da fare,
ma da quello della spesa.
Il debito pubblico
Infine un'ultima considerazione
che viene ancora da questo modo di vedere, ed è quella sul debito
pubblico, visto però questa volta non dal lato dello Stato che
si indebita. Quando noi sentiamo parlare del debito pubblico in
Italia ci sentiamo sempre dire che lo Stato è indebitato, che
di conseguenza tutti noi siamo indebitati, che ogni cittadino
nasce con un debito di circa 30 milioni ecc. Già aritmeticamente
questa affermazione non regge perché il debito pubblico, per la
sua gran parte è debito pubblico interno e quindi è debito che
una parte di cittadini ha contratto verso un'altra parte di cittadini,
quindi se è vero che ogni nuovo nato nasce con 30 milioni di debiti,
allora nasce anche con 30 milioni di crediti verso la controparte.
C'è chi si è indebitato e c'è chi ha in mano i titoli del debito:
ci sono 2 milioni di miliardi di debito pubblico e ci sono 2 milioni
di miliardi di titoli nelle ricchezze private, di singoli cittadini
italiani. Dunque il problema è che se noi guardiamo al debito
pubblico non già dal lato dello Stato italiano indebitato e sul
punto di fare bancarotta, ma dal punto di vista dei risparmiatori
che hanno in mano i titoli del debito pubblico - questa immensa
ricchezza - poniamoci una domanda: a parte il capitale - cioè
l'entità immensa di questa ricchezza che nessuno di noi riesce
ad immaginare - pensiamo per un attimo al reddito che se ne ricava,
a quella che a volte viene chiamata rendita
dei titoli pubblici. Bene, questo è un reddito molto protetto
perché, dato che lo Stato deve tenere la spesa pubblica a livelli
più o meno stabili in termini reali - non può ridurla drasticamente,
quando si fa una manovra di 20 mila miliardi sembra già un cataclisma
- questo significa che il debito pubblico è inevitabilmente destinato
a crescere con l'inflazione. Infatti, se vogliamo che la spesa
pubblica conservi più o meno lo stesso potere d'acquisto, la spesa
pubblica deve crescere almeno quanto crescono i prezzi e cioè
la mole del debito pubblico cresce per l'aumento dei prezzi. E
cresce anche, naturalmente, questa massa di ricchezza che i cittadini
privati hanno in mano. In più, quando attraversiamo periodi di
inflazione - è sufficiente un'inflazione modesta come quella attuale
del 4 o 5 %, ma abbiamo avuto periodi peggiori - la prima cosa
che accade è che i tassi d'interesse crescono, perché i tassi
d'interesse devono in qualche modo compensare il creditore per
l'inflazione. Allora i possessori di questa massa enorme di titoli
del debito pubblico vedono la loro ricchezza crescere due volte:
una volta perché il debito deve crescere per effetto dell'aumento
dei prezzi - per mantenere stabile la spesa pubblica - e una seconda
volta perché hanno questi tassi di interesse indicizzati, riveduti
continuamente in base al tasso di inflazione. E cioè, in termini
reali, questi risparmiatori percepiscono una autentica rendita
a un tasso di interesse estremamente elevato.
Tutto questo spiega
bene la ragione dell'indebitamento continuo e ineluttabile dello
Stato italiano, perché con tassi d'inflazione non ridotti a zero
e con tassi d'interesse che non vengono contenuti, ma sono invece
continuamente indicizzati al tasso di inflazione, lo Stato italiano
è caduto nella tipica trappola del debitore. Deve indebitarsi
sempre di più perché crescono i prezzi e tutto quello che lo Stato
deve comprare costa di più e quindi ci si indebita sempre di più;
inoltre lo Stato deve pagare dei tassi d'interesse sempre più
alti perché questi sono indicizzati continuamente all'inflazione.
Per questo lo Stato ha oneri finanziari che crescono in maniera
astronomica.
Il problema del disavanzo
pubblico, d'altra parte, non può essere affrontato riducendo la
spesa corrente - cioè riducendo una volta la spesa per la sanità,
una volta riducendo la spesa per la scuola, una volta riducendo
le spese per la sicurezza sociale - perché ormai il bilancio dello
Stato è in pareggio o addirittura ha un leggero attivo nel settore
delle entrate e delle spese correnti. Il disavanzo deriva unicamente
dagli oneri finanziari, cioè dal pagamento degli interessi sul
debito. Fino a che non si ridurranno gli interessi il bilancio
pubblico italiano sarà sempre in disavanzo. Quelle poche migliaia
di miliardi che potranno essere ottenuti dalle manovre che vengono
annunciate così pomposamente poi vengono mangiate in poche ore
non appena i tassi d'interesse crescono. Quindi fino a quando
non si affronterà il problema partendo dai tassi d'interesse,
il problema della finanza pubblica non sarà mai risolto.
E, naturalmente, per
affrontarlo dal punto di vista degli interessi occorre fare in
modo - quello che molti altri paesi in passato hanno fatto - di
isolare il mercato finanziario
italiano da i mercati finanziari degli altri paesi europei
e cioè restaurare quei controlli amministrativi che soltanto nel
1990 sono stati aboliti - controlli amministrativi sulle esportazioni
di capitali. Tutta la costruzione della Unione Europea è fatta
in nome della integrazione finanziaria, oltre che della integrazione
commerciale, quindi prevede libertà di movimenti finanziari, libertà
di speculazione, libertà di fughe di capitali. Tuttavia non sarebbe
male se l'Italia, per alcuni anni almeno, ritornasse al vecchio
regime, precedente all'Unione Europea, il vecchio regime di Bretton
Woods per cui era previsto, invece, che pur avendosi integrazione
commerciale, i movimenti di capitali, quindi i movimenti speculativi
fossero controllati. Questo ci consentirebbe di tenere tassi d'interesse
un po' più miti e ridurre il disavanzo in maniera definitiva.
D. E' possibile arrestare la speculazione?
La domanda è delicata,
perché in Italia vi sono state esperienze a volte molto particolari.
Quando si mette in moto questo meccanismo speculativo diciamo
contro la lira, arrivano in borsa non soltanto i piccoli risparmiatori
che chiedono di convertire in marchi i loro piccoli sudati risparmi
- non saranno mai loro a far crollare la lira - ma arrivano anche
degli speculatori i quali, senza avere una lira di patrimonio
proprio, si finanziano in banca, comprano marchi e poi li rivendono
pochi giorni dopo ad un prezzo più alto, incassano la differenza,
ripagano il debito con un onere di interessi molto ridotto e realizzano
profitti per migliaia di miliardi.
Allora un modo veramente
serio di difendere la lira contro gli attacchi speculativi, sarebbe
quello di rifiutare di finanziare questi movimenti speculativi
di pochi giorni. Invece il sistema bancario italiano appellandosi
alla neutralità del
sistema bancario, alla libertà di esportazione dei capitali, ha
sempre finanziato questi movimenti speculativi. Tutte le volte
che vi sono stati crolli della lira, quando poi si è avuto modo
di controllare le statistiche e si vanno a guardare parallelamente
l'andamento della lira in quei giorni e l'andamento dei finanziamenti
bancari a breve termine in quei giorni, si vedono due impennate:
cioè in quei giorni in cui la lira è crollata, le banche hanno
fatto impieghi per migliaia di miliardi. Chi hanno finanziato?
Certamente non hanno finanziato gli imprenditori che producono,
i quali proprio in quei giorni dovevano finanziarsi a condizioni
esagerate. Hanno finanziato gli speculatori che in quei giorni
giocavano sul marco e contro la lira.
Allora
sembra davvero assurdo che un sistema bancario così integrato
come quello italiano, sotto il controllo quotidiano, ora per ora,
della Banca d'Italia non possa essere controllato e che la Banca
d'Italia non possa tirare le redini e consigliare o addirittura
impedire alle banche di finanziare gli speculatori in maniera
così smaccata. La possibilità tecnica certamente esiste, perché
noi sappiamo che tutte le volte in cui la speculazione si è rivolta
contro il franco francese, sebbene abbia portato il franco francese
sull'orlo della bancarotta, però non lo ha mai fatto crollare.
La banca federale tedesca è sempre intervenuta a sostegno della
Francia perché la Francia è un ingrediente essenziale in quest'area
europea di cui la Germania è il perno. Insomma i salvataggi sono
possibili nonostante i movimenti speculativi.
D. Che cosa pensa della finanziarizzazione progressiva dell'economia?
Che cosa implica il fatto che le imprese investano in titoli del
debito pubblico?
La nostra economia
è un'economia ancora largamente reale. Le economie veramente finanziarizzate
sono quelle come l'economia svizzera che ha un settore manifatturiero
molto ridotto e vive di transazioni finanziarie, di banche. Nelle
economie avanzate si è creato un settore finanziario molto ampio,
però c'è ancora una base produttiva rispettabile, come del resto
capita anche in Germania.
E' vero che anche le
imprese investono in titoli del debito pubblico, ma queste sono
deformazioni che confinano quasi con il codice penale, perché
molte volte le imprese ricevono trasferimenti, finanziamenti dal
settore pubblico per la ricerca, per la ristrutturazione, per
gli impianti costruiti nel mezzogiorno, fondi che invece di essere
investiti per gli scopi per cui sono stati concessi sono investiti
- provvisoriamente dicono - in titoli di Stato il che da un lato
fa comodo allo Stato che trova un collocamento più facile e vede
rientrare le somme che aveva erogato, però crea evidentemente
una stortura nella spesa pubblica.
Docente di Antropologia
sociale, università di Roma "La Sapienza"
17/05/1996
Il mio compito oggi
è quello di informarvi sul tipo di esperienza che ho avuto, in
parte come studioso ed in parte come "esperto internazionale".
Ho avuto infatti occasione di fare il consulente, per brevi periodi,
per la cooperazione italiana, per il Ministero degli Esteri e
per alcune agenzie del sistema delle Nazioni Unite, in particolare
l'UNDP
e l'IFAD che è l'agenzia
per lo sviluppo agricolo che ha la sua sede a Roma. La mia esperienza
diretta mi ha convinto, come ha convinto tanti altri osservatori,
di questo curioso paradosso: la cooperazione internazionale -
cioè l'erogazione di fondi tratti dalle tasche dei contribuenti
dei paesi ricchi e canalizzati in una forma sui
generis a partire dalla fine della seconda guerra mondiale
- è cresciuta enormemente nelle sue dimensioni (si tratta oggi
di miliardi di dollari che circolano per il mondo con questo "vestito"
dell'aiuto allo sviluppo
per le popolazioni del Terzo Mondo), ma è al tempo stesso un'attività
che è messa in discussione quasi da tutti. Non ho mai visto in
anni recenti un documento entusiasta sulla cooperazione internazionale.
Padre Alex Zanotelli, che voi avete ospitato, quando era direttore
di Nigrizia lanciò una campagna critica contro la cooperazione internazionale
che gli ha procurato molte noie.
Per un verso dunque
la cooperazione internazionale è un'attività diffusissima, tutti
i paesi investono milioni di dollari ogni anno in aiuti economici
e tecnici alle popolazioni svantaggiate, e per un altro verso
non c'è nessuno pronto a sostenere che essa sia un'attività efficace
ed efficiente. Al contrario, molti sospettano che sia una specie
di automa che continua a muoversi perché soddisfa gli interessi
materiali di coloro i quali realizzano i progetti di cooperazione
(gli ingegneri, i tecnici, i consulenti e gli "esperti").
Tenete presente, ad esempio, che l'esperto internazionale che
fa il consulente stabile per un progetto delle Nazioni Unite guadagna
dai sette ai dodicimila dollari al mese, che tra l'altro sono
anche esentasse. Accanto agli interessi degli esperti, nella cooperazione
sono coinvolti anche gli interessi delle compagnie che vendono
servizi (cioè quelle società che vanno in Africa e fanno pianificazione)
e gli interessi dei fornitori di strumenti tecnici. Per una società
come la FIAT, che produce trattori, si può pensare che sussista
un certo interesse a programmi di sviluppo agricolo che comportino
l'utilizzazione di trattori italiani. In questo ambito esistono
molti meccanismi perversi che funzionano con regole precise: ad
esempio se un progetto della cooperazione italiana ufficiale prevede
l'acquisto di jeep c'è una regola non scritta che suggerisce che
queste siano 'Campagnole' FIAT.
Da questa piccola nota
è subito evidente che la cooperazione internazionale, qualunque
cosa sia (e vedremo che è qualcosa di importante nella storia
culturale dell'occidente), non è una cosa secondaria, anche se
non è semplicemente il dispiegarsi di interessi biechi e materiali.
E' certo, comunque, che sul piano degli interessi materiali è
forte l'attrazione che essa
esercita sugli attori economici italiani, perché le aziende
italiane vendono, oltre alle 'Campagnole', anche tecnologie che
vengono 'incastrate' nei sistemi economici locali. Pensate che
ci sono addirittura fabbriche "chiavi in mano" che vengono
vendute a paesi africani. Questo fenomeno è curioso perché si
tratta di un apparente trasferimento di denaro, che verrà in realtà
utilizzato per comprare le nostre tecnologie. Questo spiega perché
la cooperazione internazionale sia tanto diffusa e perché tutti
i paesi potenti industrialmente abbiano interesse a lavorare con
i paesi africani.
Oggi l'aiuto allo sviluppo
è in un certo senso il dispiegamento di questi interessi che noi
dobbiamo seguire con attenzione. Ad esempio dobbiamo chiederci
perché si progetta una grande diga in India e perché questa diga
la costruisca la più grande impresa di costruzioni di questo tipo
che abbia l'Italia. Anche le Organizzazioni Non Governative devono
essere sempre molto vigili. Diversi anni fa una ONG, di cui io
ero allora presidente, ricevette da una società la proposta di
realizzare in Malaysia un programma ad alto tasso tecnico, ma
comprensivo della parte formativa, tipica delle Organizzazioni
non Governative. Si trattava di un progetto di 8 miliardi che
prevedeva delle forniture sanitarie per gli handicap in 15 ospedali
della Malaysia. Questa società produttrice era venuta da noi a
proporre questo progetto perché sapeva bene che mentre le ONG
possono ricevere l'affidamento di un progetto dal Ministero degli
Esteri semplicemente con un libera scelta del Direttore Generale
della Cooperazione (sulla base del suggerimento degli uffici tecnici),
una società deve partecipare a una gara di appalto e vince solo
se offre il prezzo più vicino a quello stabilito. Quindi la società
è un soggetto che deve superare una competizione per ottenere
un affidamento, una ONG, che si suppone sia umanitaria, può invece
ottenerlo liberamente. Era ovvio che quella società era venuta
da noi perché desiderava ottenere la copertura di una ONG per
ottenere l'affidamento di quel progetto. Ma la cosa interessante
è ancora un'altra: io telefonai in Malaysia e chiesi all'ambasciatore
italiano in Malaysia quale fosse la situazione delle forniture
sanitarie per handicap. Lui mi rispose che la Malaysia era uno
dei più grandi produttori di questi strumenti di tutto l'Est Asiatico
e che gli ospedali erano pieni di tutte queste attrezzature. Mi
spiegò anche che i progetti come quello che mi era stato offerto
funzionavano tutti allo stesso modo: le forniture tecniche arrivavano
in Malaysia e venivano messe
nei sotterranei degli ospedali perché non servivano a nessuno.
Era chiaro che si trattava di una vendita di tecnologie italiane
che non sarebbero mai state utilizzate; il tutto comportava una
spesa di 8 miliardi, di cui due sarebbero stati affidati alla
ONG. Noi ovviamente rifiutammo, però questo episodio ci insegnò
molto, e cioè che la cooperazione internazionale è spesso, in
buona parte, stimolata da interessi perversi, e non dal desiderio
di venire incontro con proprie professionalità a esigenze altrui.
Ma non si tratta solo
di questo: a partire dal 1944, dopo gli accordi di Bretton Woods,
gli USA, usciti dalla guerra come Paese dominatore, stipularono
degli accordi con gli altri paesi per rispondere alla grande crisi
di liquidità che avevano le banche di tutto il mondo a quel tempo,
rilanciando i prestiti internazionali, e questo, secondo alcuni,
in parte per ragioni umanitarie ed in parte per propri interessi.
Dal 1945 tutte le popolazioni del mondo ricevettero prestiti con
interessi medio-bassi con obblighi di restituzione in base a
criteri particolari. Uno di questi grandi prestiti fu il
Piano Marshall che consentì
all'Europa di rinascere dopo la guerra e che prevedeva un sistema
rigidissimo di restituzione.
Che cosa c'era dietro
questa logica? C'era l'idea che gli
USA dovessero essere a capo di una cordata: gli USA infatti
suggerivano i progetti, stabilivano il modello tecnologico, i
modelli di gestione organizzativa, i valori generali (la competizione,
l'individualismo, la proprietà privata dei mezzi di produzione),
e così facendo esportavano un intero pacchetto ideale-concettuale,
insieme ai soldi prestati. Questa idea si diffuse presto in tutto
il mondo e fu accompagnata dal concetto di sviluppo
(che prima nessuno aveva usato), che divenne una specie di concetto-orientamento,
di concetto-chiave, di concetto-simbolo. Fino al 1940-'45 non
si usava molto il concetto di sviluppo,
perché si usava di più il concetto di progresso.
A partire dal 1944-'45-'50 in tutto il mondo svilupparsi
diventò un'obbligazione prioritaria di carattere non soltanto
economico-tecnico, ma anche morale. Tutte le elités intellettuali e politiche dei paesi del Terzo Mondo furono
contagiate dall'idea di svilupparsi, che in realtà voleva dire
modernizzarsi all'occidentale,
cioè accettare l'american
way of life. Questo modello americano veniva esportato anche
attraverso dei simboli particolari, come era ad esempio per l'Italia
la gomma americana: chewing-gum e jeans furono il veicolo formale
di questa americanizzazione. Il jeans è oggi il prodotto che in
tutto il mondo si produce
di più; naturalmente non lo si produce negli USA, ma tutte
le fabbriche di produzione dei jeans vanno dall'India a Taiwan
alla Tunisia, perché lì ci sono dei costi di manodopera bassi,
ci sono sgravi di carattere fiscale e, dal momento che si può
nascondere la produzione, si pagano meno tasse.
A partire dunque dal
'45-'50 si diffuse in tutto il mondo questo modello americano
che si accompagnò all'elaborazione di una specie di teoria
dello sviluppo. A livello macro mondiale si affermò il concetto
di sviluppo, una parola che è stata la parola guida che ha orientato
tutte le popolazioni che si sono modernizzate, le quali hanno
assorbito immediatamente un senso di rigetto del passato.
Questo modello che
si diffondeva dagli USA, che era dominato dall'idea di achievement,
cioè di crescita, portava con sé un'idea fondamentale, quella
dello spreco delle risorse primarie: le cose andavano usate e
poi buttate. Altri concetti fondamentali del modello americano
erano l'idea della competizione sociale e l'idea che tutti avessero
le stesse possibilità ai punti di partenza. Questo concetto è
fondamentale nella società americana: 'ognuno può diventare Presidente'. La prima volta che sono stato negli
USA ho avuto un'impressione tremenda: ho conosciuto decine e decine
di famiglie in cui delle madri cinquantenni parlavano dei loro
figli - che erano
bravi a scuola - come dei futuri Presidenti. Tutte le madri d'America
con un figlio bravo a scuola pensavano che questo figlio sarebbe
diventato presidente. Il sistema americano, che è geniale, è concepito
però in modo che poi nella sconfitta non ci sia delusione, perché
si perde gradualmente ed è come se si perdesse una sola competizione,
mentre in realtà progressivamente si è scartati fuori dal sistema.
E' un sistema molto interessante nel quale la mobilità dei bisogni,
la crescita continua, il cambiamento di livello di vita è fondamentale
nella storia di un individuo. Un individuo non può rimanere nello
stesso punto per tutta la vita, tutta la storia della vita di
un individuo è concepita come una scala. Quest'idea del cambiamento
costante e della salita, dell'achievement continuo, è importante perché gli americani, così come
l'hanno applicata per tanti anni all'interno della loro società,
l'hanno anche esportata diffondendo la loro concezione-mondo.
Questa idea, "condita" con un'infinità di altre idee,
di pratiche sociali, e con l'aggiunta dei prestiti fatti ai popoli
del Terzo Mondo, ha costruito l'aiuto allo sviluppo, nel quale
gli americani sono stati i pionieri.
La concezione della
crescita, del miglioramento, si fonda su una ideologia, la quale
afferma che i beni a questo mondo sono illimitati, quindi basta
raccoglierli e prima o poi si raggiungerà la soddisfazione massima
dei bisogni. L'idea che i beni sono invece limitati, l'idea che
ci siano die limiti allo sviluppo, in America non ha mai attecchito:
lo sviluppo, la crescita, l'espansione si autoconcepiscono come
illimitati.
Tuttavia nel '69, con
il famoso Rapporto Pearson, che è il primo rapporto critico elaborato
nell'ambito della tradizione americana da un grande economista
legato alla BM
, gli USA si resero conto che lo sviluppo era fallito, che gli aiuti non
miglioravano la condizione delle popolazioni. Era pressoché fallita
anche la rivoluzione verde,
cioè l'idea secondo cui con la genetica vegetale, con il ritrovamento
di alcuni "risi speciali" e dei "grani meraviglia",
si sarebbe risolto, riuscendo ad ottenere due raccolti l'anno,
il problema della povertà. Alcuni articoli del '54-'55 affermavano
che la povertà era destinata ad essere sconfitta nel giro di cinque
anni. Le Filippine sono state uno dei luoghi in cui è stata sperimentata
la rivoluzione verde: oggi le Filippine sono in uno stato di desolazione
spaventosa, di distruzione ambientale, di scardinamento totale
dei sistemi di produzione, perché la tecnologia raffinata e avanzata
che vi è stata applicata era inadeguata al contesto di ricevimento.
Inoltre bisogna considerare che queste grandi tecnologie agrarie
riducono le varietà vegetali, perché specializzano una specie
nuova che è stata geneticamente costruita, e obbligano questa
specie ad essere la sola specie coltivata in territori immensi.
Questo può rappresentare una forza, perché questa specie non ha
antagonisti, ma anche una debolezza,
perché questa specie che non vive più in un rapporto di
interdipendenza biotica con le altre specie, e quindi va alimentata
e assistita continuamente. I "grani meraviglia" e i
"risi speciali" avevano bisogno di un sistema di tecnologie
locali che i locali non possedevano (quindi nasceva il bisogno
di servirsi di tecnici americani) e avevano bisogno di un sistema
di irrigazione molto forte e molto raffinato, che non c'era e
che doveva essere indotto. Il tutto comportava quindi un dominio
e un controllo delle risorse idriche che imponeva a sua volta
l'induzione di tecnologie molto complicate e l'impiego di materiali
chimici: diserbanti e facilitatori chimici che, naturalmente,
venivano prodotti negli USA. In sostanza perciò, con l'espansione
della rivoluzione verde
gli USA, un po' consapevolmente ed un po' inconsapevolmente, stavano
creando dipendenza.
La stessa cosa accade
quando in un Paese, per migliorare la produzione agricola, vengono
esportati dei trattori. I trattori costano molto e dunque per
averli i paesi che li acquistano spesso si indebitano. Ci siamo
mai chiesti che cosa porta con sé l'impiego di un trattore? La
prima conseguenza assoluta del trattore è che c'è bisogno di qualcuno
che lo manovri. Bisogna quindi formare i guidatori. Ma questo
non basta, perché il trattore per funzionare ha bisogno di carburante,
e quindi oltre al trattore deve essere acquistata anche la benzina.
Se poi il trattore si rompe servono i pezzi di ricambio. Alcuni
studi economico-tecnici molto raffinati hanno esaminato il sistema
a quattro trattore-guidatore-benzina-pezzi
di ricambio e l'hanno comparato con la triade uomo-buoi-aratro per cercare di valutare il rapporto di efficacia
e di efficienza del sistema-trattore e del sistema-aratro a parità
di investimenti: il risultato sorprendente è che è risultato più
efficace e più efficiente il sistema uomo-aratro-buoi
poiché nei tempi medio-lunghi ha dei costi minori e dei rendimenti
più alti. Il sistema-trattore funziona solo se la produzione è
molto intensa ed industriale e non è venduta sul posto ma serve
per mercati lontanissimi. In questo caso il Paese diventa come
'un utero che è stato fecondato
da una seme portato da lontano',
come dicevano gli Indiani d'America.
Il
caso del trattore pone un problema molto serio per ogni proposta
economico-politica: il trattore sostituisce il lavoro umano, il
lavoro animale ed il consumo della falce e dell'aratro. In America
Latina si calcola che un trattore equivalga ad 8-9 uomini. Questo
significa che l'introduzione del trattore implica l'espulsione
dal mercato del lavoro di 8-9 uomini. Il sistema tecnologico del
trattore è infatti, come si suol dire, capital
intensive, cioè ad alta intensità di capitale, e non labuor intensive, cioè non ha alta intensità di lavoro. Nei paesi
cosiddetti 'sottosviluppati' però, il vero problema è la sovrabbondanza
di manodopera non occupata, quindi il nodo centrale per risolvere
i problemi dell'economia locale è quello di trovare un tipo di
miglioramento economico che assorba manodopera, non un tipo di
miglioramento economico che espella manodopera. Già questa distinzione
fondamentale non veniva percepita dagli americani perché a loro
importava il risultato finale, cioè che un Paese producesse di
più: la redistribuzione e i costi sociali a quel tempo non
interessavano a nessuno.
Negli anni '60-'70
gli americani cominciarono a porsi il problema dello sviluppo;
nel frattempo, dopo la conferenza di Bandung, iniziarono ad emergere
alcuni paesi del Terzo Mondo che cominciarono a porre delle condizioni
all'Europa e all'America per frenare, ad esempio, il processo
perverso dei crediti condizionati.
Nel '44, infatti, dopo Bretton Woods, ai paesi del Terzo Mondo
venivano prestati milioni di dollari con l'intesa che una percentuale
di questi dovevano servire ad acquistare tecnologie dei paesi
creditori. Era un modo come un altro per vendere prodotti. Tali
debiti contratti dai paesi subivano poi anche le conseguenze delle
variazioni nei cambi tra le monete, e poiché tutti i debiti internazionali
dei paesi del Terzo Mondo sono stati negoziati in dollari, con
la modifica dei valori comparativi delle monete e quindi con la
modifica del cambio del dollaro, i debiti aumentavano di anno
in anno in modo spropositato (pensate, ad esempio, che se fossero
stati negoziati in franchi svizzeri i debiti oggi sarebbero la
metà di quello che sono).
I primi dubbi che vennero
negli anni '70 suggerirono di cominciare a cambiare registro,
di cominciare a considerare non più solo l'aspetto tecnico dello
sviluppo, e quindi si abbandonò il mito dell'industrializzazione
e si recuperò l'ipotesi di un ritorno all'agricoltura. La FAO
, in una famosa conferenza degli anni '70, cercò di convincere il mondo
che l'agricoltura andava riconosciuta come settore prioritario
e primario, mentre invece fino a quel momento la BM
aveva finanziato solo grandi
opere: porti, grandi strutture industriali, dighe. Le dighe costruite
nei paesi del Terzo Mondo sono state tutte un fallimento, non
c'è un solo caso di una diga che sia stata utile a quello che
si chiama sviluppo, cioè alla crescita diffusa del benessere di
un Paese.
A questi aspetti di
carattere economico si accompagna immediatamente anche una considerazione
di carattere più concettuale-culturale, che riguarda la rincorsa
alla crescita, che viene indotta in questi paesi e che li costringe
a chiedere soldi nel tentativo di diventare come noi. Noi siamo
diventati dei modelli da imitare, proprio nel momento in cui cominciamo
a dubitare di essere veramente i migliori di questo mondo, dal
momento che molti pensano che la società moderna, che ha avuto
dei risultati in tecnologia indubitabili, ha anche fortissimi
difetti con costi gravi ed ha finito per esportare i suoi difetti
in tutto il mondo.
Tutto questo ci fa
comprendere come il cosiddetto sviluppo
non sia un fatto che riguarda solo il Terzo Mondo; esso infatti
riguarda principalmente l'Europa e l'America e solo secondariamente
il Terzo Mondo. Molti sostengono che l'Occidente è costituito
in un modo tale che impone di svilupparsi, di puntare sulla crescita
del prodotto lordo generale e di sostituire continuamente i bisogni.
L'Occidente deve rappresentare a se stesso il mondo come una catena,
nella quale esso sta al culmine, dirigendo le altre società. Al
di là degli interessi economici contingenti delle varie classi
sociali, nell'idea di sviluppo
come crescita è sottintesa una concezione del mondo e della
Storia in senso progressivo, che per realizzarsi ha bisogno della
presenza delle popolazioni del Terzo Mondo, che diventano dunque
indispensabili. Per l'Occidente vedere i neri poveri è fondamentale
per misurare con soddisfazione il livello della propria crescita.
Si comprende allora come le testimonianze scandalose, drammatiche,
della povertà, siano funzionali al mantenimento del sistema: senza
queste testimonianze l'Occidente non potrebbe crescere.
Il nodo centrale è
che la nostra civiltà ha inventato lo sviluppo e per portarlo
avanti ha bisogno di un confronto continuo. Il meccanismo che
si è identificato è quello del rapporto fra scandalo e rimedio necessario:
l'Europa ha sempre avuto la necessità di sapere che da qualche
parte del mondo c'era qualcuno inferiore a sé. Questo confermava
la sua visione del mondo fatta a scala, con la progressione continua
verso il Regno dell'Abbondanza, della Felicità ecc. Quindi per
la cooperazione internazionale il bambino con la pancia grossa,
la carestia nel Sahel, le tragedie delle guerre tribali sono fondamentali,
perché fanno scattare immediatamente il meccanismo dello scandalo-rimedio
necessario.
Da queste considerazioni
ci rendiamo conto che il processo è molto complesso: si tratta
di un processo tecnico, economico, ma anche culturale e ideologico
generale. Se poi ci basassimo solo sulle cifre ci renderemmo conto
che lo sviluppo, inteso come livellamento delle potenzialità economico-produttive
e dei livelli di vita di tutti gli uomini, è impossibile. Nel
corso degli anni la forbice tra nord e sud si è allargata: l'aiuto
ai poveri ha determinato spesso la soluzione delle crisi dei ricchi.
I prestiti ai paesi poveri sono fondamentali, perché con essi
i paesi industrializzati limitano la liquidità delle banche centrali
e frenano l'inflazione, differiscono una rendita nel prossimo
decennio-ventennio, tengono sotto controllo, attraverso il negoziato
sui prestiti, le nazioni emergenti che potrebbero rivelarsi pericolose
(teniamo presente che i poveri sono i 4/5 della popolazione del
pianeta). Il meccanismo è di difesa e di offesa, in un quadro
generale che è più ideologico-culturale di quanto non sembri.
Secondo alcuni studi,
affinché si realizzi lo sviluppo,
inteso come parità fra i popoli, cioè azzeramento delle differenze
che sono frutto delle età coloniali, delle distruzioni storiche
e degli attuali meccanismi perversi, ci vorrebbero 48 anni. Le
condizioni da mantenere in questi 48 anni dovrebbero essere le
seguenti: le grandi nazioni ricche dovrebbero bloccare il tasso
di sviluppo, limitandolo allo 0,1-0,2%, contenendo socialmente
i bisogni; nel frattempo tutte le eccedenze dei sistemi economici
ricchi dovrebbero essere investite per consentire alle popolazioni
del Terzo Mondo di avere un tasso di accrescimento del 2%. Questo
paradosso dimostra come lo sviluppo sia irraggiungibile, come
non costituisca un ragionevole obiettivo, ma sia solo una grande
illusione culturale che si accompagna al tipo di Storia nella
quale noi viviamo.
Questo non vuol dire
però che non si possa far nulla. Per fare qualche cosa bene, secondo
il nostro parere, bisogna capire queste questioni a livello macro,
senza illudersi, e bisogna anche avere la spregiudicatezza di
cercare di farle capire alla gente comune, che appoggia queste
vicende senza pensarci. Alla gente comune dobbiamo dire ad esempio
che l'Italia è uno dei paesi responsabili della distruzione delle
foreste del Camerun, che forniscono il legno per i famosissimi
mobili di Cantù. I nostri mobilieri hanno ottenuto in Camerun
delle condizioni privilegiate: devastano foreste senza fare l'operazione
che oggi dovrebbe essere sacrosanta, così come imposto dalle Nazioni
Unite, e cioè che per ogni albero tagliato se ne piantino altri
due. Il Camerun gestisce in questa maniera le proprie risorse
naturali perché esse costituiscono una delle poche fonti di guadagno.
Io sono uno specialista
di deforestazione nella foresta amazzonica. Sono andato a distanza
di tre anni nello stesso posto in Brasile e non lo riconoscevo:
tutto secco, centinaia e centinaia di ettari ridotti in condizioni
penose. Una volta tagliati gli alberi, la pioggia, che è potentissima,
buca il terreno, scorre in superficie, non penetra in profondità,
porta via alcuni tipi di sostanze e lascia soltanto la laterite
e una specie di fango di fiume che si secca con il sole. In un
posto così non cresce più niente. La distruzione delle risorse
naturali è una grande responsabilità e continua perché non c'è
nessun controllo. I Giapponesi sono l'esempio di come funziona
l'Occidente: rispettano le loro foreste in maniera ossessiva,
maniacale, si costruiscono le foreste in casa, con l'ikebana e
il bonsai, le loro foreste sono stupende, eppure le loro case
sono piene di legno, sono tutte coperte di legno. Da dove
prendono tutto questo legno? Dalla Malaysia, dalla Thailandia,
dal Borneo. I Giapponesi sono i distruttori delle foreste dell'Asia
sud-orientale.
Dunque a livello macro
rileviamo l'espansione degli interessi economici e l'estensione
ossessiva dei bisogni. Se invece spostiamo l'attenzione a livello
micro, a livello locale, ci accorgiamo di un fenomeno interessante:
tutto il pessimismo che galleggiava nelle questioni macro assume
una configurazione diversa a livello micro. A livello locale,
fortunatamente, queste gigantesche opzioni planetarie, questi
entusiasmi sono destinati all'insuccesso. C'è
una percentuale di insuccessi eccezionale a livello locale.
E allora che cosa succede, che cosa diventa il sistema mondiale
dello sviluppo? E' un sistema che ottiene i suoi fini perché mantiene
il modello filoamericano e alimenta le illusioni in tutto il mondo,
però le sue realizzazioni pratiche sono spesso in controtendenza.
E' un sistema che mantiene i tecnici, vende i trattori, ma si
limita spesso a fare solo questo. Chiunque abbia viaggiato per
l'Africa occidentale ha visto i famosi cimiteri delle fabbriche,
l'archeologia industriale; il Mali, il Niger, la Mauritania, la
parte settentrionale della Nigeria, sono pieni di strutture di
metallo esportate dall'Europa, di canalizzazioni, di industrie
che sono tutte ormai sepolte dalla sabbia e arrugginite, perché
sono investimenti che sono serviti solo a spendere denaro, a collocare
sul mercato inutilmente dei beni tecnologici che però poi non
sono stati efficienti.
Questo ci chiarisce
come per il sistema mondiale dello sviluppo non sia importante
l'efficienza, mentre è importante che si stabilisca il modello
vincente, che cioè quei popoli disistimino la loro storia, si
considerino arretrati, accettino il modello esterno, e ambiscano
a diventare tutti come gli americani. Serge Latouche
ne L'occidentalizzazione del mondo racconta di quando teneva dei corsi
appassionati in Tunisia o in Marocco cercando di convincere i
tunisini e i marocchini ad amare di più la loro Storia, a trovare
le risposte nelle proprie radici. I suoi allievi ad un certo punto
cominciavano tutti a guardare l'orologio perché avevano fretta
di andare a guardare Dallas alla televisione.
A livello macro c'è
dunque un mostro che si diffonde contro il quale sembra che non
si riesca a combattere più di tanto. Però a livello locale si
avverte un fenomeno curioso: mentre il modello generale filoamericano
sembra perfetto, pienamente funzionante, tuttavia questo pacchetto
di idee, di tecniche, di saperi, mentre si allontana dal centro
e arriva verso la periferia viene adattato secondo quella che
è stata definita la prima legge dell'acculturazione: un elemento culturale, sociale, tecnico, economico di origine esterna,
non può essere assorbito da un contesto locale senza che questo
contesto ne alteri alcune caratteristiche, integrandolo e adattandolo
al contesto ricevente.
Questo meccanismo quindi
comporta alcune alterazioni curiose: il pacchetto ideologico e
tecnologico dello sviluppo, in periferia determina i risultati
più strani. Noi abbiamo esempi che sono stati recentemente studiati
molto accuratamente. In Senegal è stata studiata l'insorgenza
di mediatori dello sviluppo.
E' nata una classe intermedia di soggetti sociali semialfabetizzati
che sono diventati i mediatori culturali che vivono sullo sviluppo,
riuscendo anche a redistribuire il denaro, cambiando di segno
le destinazioni previste nei progetti originari in modo da rispondere
alle esigenze politico-sociali specifiche di cui loro si sentono
interpreti. I "mediatori" non partecipano alla negoziazione
dei progetti di sviluppo: arrivano questi pacchetti dall'esterno,
i "mediatori" li prendono, li conoscono e li adattano
al contesto locale determinando dei risultati diversi da quelli
che si prevedevano.
Nelle periferie del
mondo c'è una dinamica dell'interferenza tecnico-economica e della
modernizzazione che è completamente diversa da quella che viene
immaginata al centro. Questo ci dà una certa fiducia poiché dimostra
che l'uomo è un animale plastico, molto inventivo, e riesce ad
adattare le cose molto più di quanto non si creda. Se guardate
a questi fenomeni dal punto di vista del centro li troverete riprovevoli,
ma dovete cercare di considerare la condizione di una società
che si trova inserita in un mondo che ha un'altra velocità; a
queste società non vengono dati i princìpi veri, autentici, per
aumentare di velocità, vengono concessi solo soldi. Non c'è nessuna
innovazione reale: la società è statica, utilizza risorse provenienti
dall'esterno, stravolgendone le finalità. Lo sviluppo in periferia
e in molte parti del mondo avviene in questo modo.
C'è un libro bellissimo,
scritto da sociologi e antropologi (Development
in practice paved with good intentions), che è la storia di
un progetto di sviluppo australiano in Kenya, finanziato dal governo
dell'Australia: i tre autori, D.Potter
, B.Allen
e G.Thompson
, hanno
intervistato centinaia di persone, hanno osservato il processo
durante anni, e hanno studiato la dinamica locale, la sottrazione
di fondi da una destinazione data e stornati per altre, la nascita
di figure intermedie, la fibrillazione dinamica di una società
rurale contemporanea del Kenya, che di fronte ad una offerta di
aiuto stupida, grossolana e fatta un po' male, si adatta e riesce
a vivere.
In definitiva quello
che è importante è che c'è un'attività creativa notevole, che
spesso nasce come effetto della dinamica di sviluppo indotta.
Nello schema generale che abbiamo fatto nella prima parte dell'intervento
a livello macro abbiamo visto che c'è il sostegno del modello
economico forte, che però a livello locale si può trasformare
in una cosa assolutamente contraria a quel modello. Spesso le
popolazioni locali imparano a far fruttare le tendenze, le mode
politiche e le parole d'ordine dell'Occidente. Molti indigeni
che venivano dall'America Latina in Europa negli anni '70, appena
entravano nelle università dicevano: "Companeros, la revolucion".
Io li conoscevo bene e sapevo che non erano veri companeros, che
di Marx
non sapevano niente, che si adattavano, che utilizzavano quel
linguaggio perché avevano capito che era dominante, in quel momento,
in Europa. Anni dopo, quando la situazione politica era cambiata,
anche loro hanno cambiato le loro parole d'ordine: "La naturaleza,
la madre tierra...". Non dico questo per criticarli ma per
ammirare la loro capacità adattativa: hanno capito che noi abbiamo
espresso certi messaggi e hanno percepito l'utilità di questi
messaggi.
Il Terzo Mondo è più
vivace, più dinamico, più creativo di come ce lo immaginiamo.
Questa idea della ricezione ricostruttiva, reinterpretativa dei
modelli in periferia, è molto importante anche per le grandi istituzioni
internazionali. Infatti queste istituzioni hanno capito che le
periferie del mondo sono in ebollizione, reinterpretano, non accettano,
elaborano forme di rivolta forti al modello europeo-americano.
Per questo anche le grandi istituzioni internazionali hanno cominciato
ad utilizzare le parole d'ordine della dissidenza politica dello
sviluppo. Infatti oggi la BM
ha creato un ufficio per
le popolazioni svantaggiate: the
poorest of the poorest; i più poveri fra i più poveri, sono
oggi diventatati un oggetto di attenzione: la FAO
ha realizzato 24 strumenti,
libri, modelli perché si rispettasse la partecipazione popolare
(community participation,
people's participation). Anche il linguaggio delle grandi
istituzioni sta accogliendo le dissidenze reinterpretative delle
popolazioni del Terzo Mondo. Noi siamo dunque in un'epoca nella
quale sta accadendo questo: la sicurezza alla quale ho accennato
nella prima parte del mio intervento si sta sfrangiando; la FAO
comincia a dubitare di se stessa, il linguaggio non è più quello
della sicurezza di una volta, del dominio assoluto dei modelli
europei, il Terzo Mondo si sta riassestando.
Molti di noi cercano
di favorire progetti che decentralizzino il più possibile le decisioni
dello sviluppo, che consentano alle popolazioni locali di reinterpretare
in maniera costruttiva le loro attività e questo cambiamento che
lentamente sta avvenendo è alimentato anche dagli studi di carattere
storico. Vi sembrerà strano: da alcuni documenti dell'America
Latina risulta che non fu affatto facile per gli Spagnoli conquistare
l'America. Ogni vent'anni c'erano ribellioni, rivolte, morti e
feriti, adattamenti locali. Ci sono dei documenti originali che
dimostrano che ci sono voluti tre secoli per addomesticare gli
Indiani d'America e gli indigeni in genere del Perù o della Bolivia.
Questo vuol dire che la vittoria dell'Occidente non è stata così
semplice, non è stata così poco cruenta e non ha provocato poche
reazioni. Si scopre poi che molte delle eresie che hanno tormentato
l'Europa nel '600 ed in parte del '700 sono di origine americana,
sono state elaborate da missionari, i quali lavorando con gli
indigeni avevano capito la vivacità e l'importanza creativa di
queste culture, avevano adattato il cristianesimo a società native
traendone una nuova teologia che è stata stroncata immediatamente
dall'Inquisizione. Ricostruendo la storia del contatto fra Occidente
e Terzo Mondo ci rendiamo conto che in molti casi le società del
Terzo Mondo vinsero e imposero la loro regola. La vittoria definitiva
è stata nostra perché noi avevamo delle tecnologie molto raffinate
e abbiamo saputo usare la spada e la croce.
Tutto questo spiega
il sentimento diffuso nelle organizzazioni internazionali di oggi:
nessuno è più convinto come una volta della sicurezza dei propri
modelli e la via che si suggerisce è quella di approfondire le
analisi micro, cioè di vedere che cosa succede concretamente.
Le società si stanno
ribellando, rielaborano, capiscono. Sta nascendo un movimento
diffusissimo in tutto il mondo su quella che si chiama indigenous
knowledge, conoscenza indigena. La gente ormai non accetta
più i programmi di agricoltura esportati dall'Italia alla Tanzania,
vogliono adattarli alle conoscenze locali. I contadini locali
sanno di agricoltura più di noi, conoscono le stagioni, le acque,
la natura dei loro terreni. I contadini della foresta amazzonica,
ad esempio, classificano i terreni a secondo dell'acidità, perché
sono agronomi a modo loro, hanno 7 tipi di terreni diversi, riconoscono
un terreno da un tipo di cespuglio che c'è. Il movimento Indigenous
knowledge ha una rete di 120 centri in tutto il mondo è pubblica
la rivista 'Indigenous knowledge
development monitor'. Approfondendo lo studio e la raccolta
delle conoscenze locali ci si è resi conto che un progetto agricolo
elaborato tenendo conto del sapere locale ottiene un grande risultato
perché la gente ne resta coinvolta, si eccita, perché si tratta
di una materia che conosce e sa manovrare ottenendo alti rendimenti.
Ad esempio, per avere un buon rendimento in termini di produttività
su terreni poveri di fosforo e di potassio come sono i terreni
delle zone tropicali, il primo principio è quello di usare piante
antagoniste fra di loro, per cui gli insetti dell'una si combattono
con gli insetti dell'altra e non ci sono plaghe ed epidemie di
insetti. Il secondo principio è quello di coltivare tenendo vicine
piante che rilasciano sostanze utili l'una all'altra: con l'esperienza
infatti in queste zone sono state selezionate piante tali che
una sottrae potassio e l'altra dà potassio. Inoltre si cerca di
non fare piantagioni continue, mentre si mescolano varie piante
di diversi tipi. Il tutto crea una moltiplicazione vegetativa
anche di tipo verticale: in alto, ad esempio, c'è il cacao, che
ha una pianta altissima e che fa ombra, poi il pepe rampicante,
quindi alcune piante intermedie e in basso una pianta di radici
come la manioca. Quindi sulla stessa unità vivono più piante che
non sono antagoniste, non succhiano le stesse sostanze e danno
un rendimento molto forte. Sperimentazioni del genere imitano
la foresta.
Il nuovo filone, che
si sta enormemente espandendo, è dunque quello della conoscenza
indigena. Questi sono gli ultimi saperi da non trascurare. Con
questi saperi si possono risolvere i problemi di moltissime zone
di montagna dell'America Latina. Gli Inca, nelle Ande, coltivavano
fino a 4800 metri di altitudine: oggi, per coltivare in quelle
zone, si stanno recuperando le tecnologie andine. Non so se voi
avete sentito mai nominare le terrazze degli antichi Inca. Sono
stato a visitarle, in Bolivia, e sono rimasto esterrefatto: centinaia
di chilometri di terrazze tutte con un orientamento diverso rispetto
al sole: erano terrazze di sperimentazione per verificare come
reagivano le varie specie di patate. Con questo sistema selezionavano
250 tipi diversi di patate, perché ognuna, con un'esposizione
diversa e con un'altezza diversa, creava una sottospecie. Se c'era
una gelata che provocava la moria della specie A si poteva contare
sulla specie B di patata che non moriva perché si era adattata
a vivere quel livello. Queste terrazze avevano poi una specie
di canale, fra due pareti di ardesia, in cui si faceva passare
l'acqua. Quest'acqua rimaneva stabilmente nel canale e la potenza
di tre quattro ore di sole riscaldava l'acqua di tre gradi; durante
la notte l'acqua rilasciava il suo calore e impediva alle patate
di gelare. Queste tecnologie importantissime sono state introdotte
in progetti di sviluppo. Capite come si tratti di una prospettiva
completamente diversa, dalla periferia e non dal centro, in controtendenza
ma non così stupida da non accettare le regole supreme del mercato
vincente, cioè produttività, qualità di prodotti e rapporto buono
tra costi e benefici.
Concludo con un'idea
sull'irrigazione. In alcune zone andine in cui gli insediamenti
Inca erano stati molto forti, tanti anni fa dei tecnici tedeschi
avevano realizzato un programma di agricoltura in altura basato
su un pozzo; un pozzo terribile che, succhiando l'acqua dalla
terra, la toglieva ai contadini che stavano ai livelli più bassi.
Il programma non aveva successo fra gli indigeni. Parlando con
un anziano scoprii che c'erano 45 km di canali interrati che appartenevano
al sistema idraulico Inca. Era facilissimo riattivare questi canali:
con sei mesi di lavoro 70 persone hanno riattivato 45 km di canali.
I canali arrivavano fino in alto, con un sistema geniale per percorrere
le discese, e giungevano a delle lagune che avevano un piccolo
scalino, e questo permetteva all'acqua di entrare un po' per volta
e di realizzare il tipo di irrorazione a
goccia. Quando il terreno di una terrazza era diventato umido,
l'acqua automaticamente colava, perché la terra era gonfia e faceva
da argine. A poco a poco l'acqua se ne andava in un'altra terrazza:
nel giro di una settimana tutto era irrigato costantemente. Le
lagune erano distribuite a più altezze: se una di esse si svuotava,
allora si aspettava che l'altra più in alto si riempisse (perché
in alto piove di più) e facesse tracimare l'acqua in quella sottostante.
Un sistema spettacolare di tecnologia incaica e pre-incaica che
ha risolto i problemi. Utilizzando le tecnologie antiche il processo
cambia completamente, si possono creare fenomeni in controtendenza,
i risultati sono forti, si arriva a un padroneggiamento del meccanismo
delle trasformazioni economiche in atto e spesso si trova una
conciliazione con i modelli provenienti dall'occidente che vengono
adattati, ritagliati, attenuati e resi compatibili con le situazioni
locali.
Per realizzare questo
tipo di progetti è necessario fare delle indagini accurate, bisogna
lavorare in periferia, utilizzare le scelte sociali come strumenti
indispensabili di conoscenza, produrre libri e documenti che parlino
dalla periferia. I libri che parlano dalla periferia sono tutti
innovativi, tutti danno il senso della dinamicità e quindi leggendo
questi libri si ha un'impressione moderatamente ottimista sulle
periferie del mondo. Se invece uno considera i fenomeni dal centro
si accorge che non è passando per quella strada che si cambia
il mondo, noi siamo troppo piccoli per questi giganti. L'unica
speranza è favorire il processo di divergenza, di molteplicità
che si sta determinando nelle periferie facendo piccoli progetti
ben mirati e favorendo il processo di appropriazione e reinterpretazione.
Non si può pensare che un unico progetto di sviluppo possa essere
applicato a un intero Paese: bisogna conoscere il territorio,
la distribuzione, il controllo, il grado di conoscenza delle risorse
da parte degli uomini, i sistemi storici che si sono costituiti
in quella zona e bisogna essere aperti a una flessibilità dei
progetti. Le iniziative di cambiamento devono essere adattate
ai contesti locali.
Queste sono alcune
considerazioni di carattere generale che cercano di trovare il
nesso fra il sistema macro e il sistema micro. Il nostro lavoro
si svolge soprattutto a livello micro, analizzando, partecipando
in situazioni locali, stando nelle periferie del mondo.
La globalizzazione, l'omologazione culturale
Come antropologo studio
e analizzo l'attuale processo
di globalizzazione come nient'altro che uno
dei processi di unificazione che nella storia dell'umanità
si sono verificati centinaia di volte e si sono
manifestati con la perdita
di specificazioni culturali e con l'omogeneizzazione
in certe aree. Tali processi sono avvenuti al tempo dell'espansione
romana, della civiltà cristiana e dopo la sconfitta degli Arabi
a Poitiers, quando l'Europa assunse una sua identità. Si tratta
di fenomeni di omogeneizzazione a scapito delle differenze che
sono caratterizzati da cicli di forte unità e da cicli di riemergenza
delle differenze.
La globalizzazione
è un fenomeno mondiale. L'eccezionalità consiste proprio nel fatto
che è un fenomeno planetario e che il tempo, il ritmo, è la chiave
di tutto: il ritmo è infatti velocissimo, troppo rapido perché
i soggetti sociali abbiano il tempo di percepire la totalità di
ciò che sta avvenendo. Rapidità,
carattere planetario e unificazione al ribasso sono le caratteristiche
della globalizzazione contemporanea. E' in atto un processo semplificatorio
- è questo il problema - che rende illusi gli uomini che stanno
padroneggiando il mondo, mentre in realtà con la televisione,
con gli strumenti di comunicazione, non si padroneggia il mondo.
Il mondo si può rivoltare contro l'uomo. L'uomo sta vivendo una
crisi spaventosa perché non elabora le differenze, non ha tempo
per costruire dissensi, che sono troppo pericolosi per le armi
che egli possiede, ma che sono fondamentali perché tutta la storia
dell'umanità è fatta di dissensi.
Il rischio della globalizzazione
sta nel fatto che essa fa illudere di avere vantaggi che poi non
sono reali. Quali sono i veri vantaggi della globalizzazione se
non per il centro del mondo che vende oggetti, vende Dallas, a
tutti i popoli? Voi credete che i popoli del Terzo Mondo abbiano
un vero vantaggio a occidentalizzarsi? In realtà no, perché mentre
assorbono tecnologia perdono autonomia.
La rapidità di questo
processo però, lo poterà a collassare inesorabilmente. Analizzando
la storia dell'umanità ci rendiamo conto che tutti i fenomeni
di grande concentrazione e di uniformazione danno luogo in tempi
medio-lunghi a reazioni di divergenza, che assumono i linguaggi
più strani. Uno di questi è lintegralismo
islamico, che è probabilmente l'unico vero baluardo all'occidentalizzazione.
L'altro baluardo è l'India che è un Paese in cui ci sono 600.000
villaggi, e in cui si è colpiti da una fisionomia fisica delle
persone che è completamente diversa da quella occidentale (in
Africa e in America Latina la gente è tutta vestita come noi):
in India mangiano altre cose, camminano diversamente e si vestono
diversamente. I due baluardi sono l'India, che è resistente-passiva
e il mondo islamico, che è attivo-aggressivo. Dunque il dissenso
può canalizzarsi anche in queste forme esplosive.
Non sono convinto che
la globalizzazione condurrà a una distruzione o ad una omogeneizzazione
di tutto il mondo, perché più sono i soggetti che condividono
una stessa cosa, più la funzionalità delle istituzioni e dei modelli
si sfrangia. Essi possono essere mantenuti per un certo periodo
attraverso la comunicazione, nel nostro caso attraverso la televisione,
che però a mio avviso è destinata a morire. Si inventeranno altri
sistemi, sistemi digitali; la televisione morirà, perché l'immagine
quando ripete costantemente un messaggio ne diminuisce l'efficacia.
Le civiltà marginali,
ricevendo gli stessi messaggi, li rielaborano, li alterano, quindi
io sono moderatamente ottimista perché sono convinto che alla
lunga ci saranno costi enormi, i patrimoni si perderanno, ma l'ambiente
reagirà, nasceranno continuamente reazioni in controtendenza,
nuove forme che noi non sappiamo riconoscere, perché i nostri
modelli sono chiusi, precostituiti.
Il rapporto tra economia di sussistenza ed economia di mercato
Se noi separassimo
l'economia di sussistenza da quella di mercato consentiremmo di
eliminare la dipendenza che l'alimentazione primaria ha dalle
economie ricche e dai mercati. Già destinando parte delle risorse
della popolazione vincolate alle attività alimentari, noi de-economicizzeremmo
e de-mercantilizzeremmo il campo della sussistenza, che sarebbe
una cosa non da poco.
Lo sviluppo sostenibile
Il mondo della cooperazione
internazionale è entrato in crisi, non ha più i suoi slogan tradizionali
e cerca disperatamente di usare gli slogan degli avversari, dimostra
la sua crisi e tenta di addomesticare i termini. Il concetto di
sviluppo sostenibile
porta con sé un'idea semplicissima, che è quella del crollo della
concezione del dopoguerra dello sviluppo americano, dello sviluppo
senza limiti, della crescita continua, dell'accumulo sempre maggiore
di risorse, della variazione dei bisogni. Il concetto di sviluppo
sostenibile impone che ci sia un limite, quello ambientale, allo
sviluppo. Le grandi istituzioni internazionali hanno "inghiottito"
questo concetto perché l'hanno dovuto fare, perché hanno dovuto
cedere alla pressione dell'opinione pubblica.
Un progetto di sviluppo
non è sostenibile se intacca le risorse naturali e se non genera
risorse proprie per la popolazione locale che possano far proseguire
il progetto dopo la fine dell'intervento esterno. Quella dello
sviluppo sostenibile è un'arma che l'avversario ci ha concesso
sotto la pressione delle critiche dell'opinione pubblica. Quindi
ambiente, sostenibilità,
donne sono tutte parole
che sono entrate ormai nel vocabolario dello sviluppo, sono armi
in mano nostra perché dietro queste parole ci sono anche delle
norme che devono essere applicate. La BM
ha creato un ufficio particolare,
l'Environment Division
che sta cominciando ad occuparsi dei diritti sulla terra delle
popolazioni indigene dell'America, una cosa che prima non aveva
mai fatto.
La globalizzazione dal centro alla periferia
Io non sono catastrofista,
mi rendo conto della tragedia in cui ci troviamo e dei danni della
occidentalizzazione, però sono altresì convinto che nei tempi
medi o medio-lunghi i processi di diffusione di un modello da
un centro verso una periferia comportano adattamenti, modificazioni.
Si può citare il famoso esempio dell'Asia centrale e della Rivoluzione
sovietica con i turco-tatari e le popolazioni musulmane. I Russi
dislocarono kolchoz e sovchoz nelle zone dell'Asia centrale dove
erano presenti queste popolazioni nomadi, popolazioni di allevatori
che non avevano la minima idea di quello che fosse il sistema
sovietico e che quindi non potevano assorbire tali innovazioni
imposte dal centro. Che cosa successe? Queste popolazioni crearono
i kolchoz sulla base delle strutture
dei lignaggi segmentari, cioè la struttura di parentela
politica che loro avevano, e che quindi erano piccolissimi e non
produttivi. I funzionari da Mosca imposero l'allargamento dei
kolchoz. Allora tali popolazioni risistemarono i kolchoz lungo
il più grande gruppo di discendenza - che era il clan - quindi
troppo grande rispetto alle pretese sovietiche: è chiaro quindi
che non c'era una posizione intermedia, il kolchoz era troppo
piccolo oppure era costituito da tutto l'insieme dei discendenti
da un solo antenato e quindi era un kolchoz immenso, troppo grande
rispetto alla logica voluta. In questo ballottaggio ci furono
anni di negoziazione. Fortunatamente il potere sovietico era negli
anni della Nuova Politica Economica, ma poi venne interrotta dalla
strategia di Stalin di chiusura con il mondo dei piccoli e medi
proprietari contadini e quindi fu una tragedia per queste regioni.
E' interessante però che un modello imposto ai Tatari viene da
loro adattato alle loro forze: questo
è un esempio storico interessante.
Sono moderatamente
ottimista nei tempi medi e medio-lunghi: le società umane sono
molto più vive di quanto non si creda, perché il sistema è inefficiente.
Il segreto è che il sistema è stato costruito per essere messo
in funzione in una città: si vuole imporre e ha la presunzione
di imporsi alle campagne del mondo: non ci riesce bene perché
non ci sono le strutture.
Vi faccio l'esempio
della salute in generale: la salute non è argomento di cooperazione
internazionale perché non è possibile che nella savana dei Turkana
del Kenya si possa impiantare un ospedale. L'ospedale è una struttura
logistica complicatissima, ha bisogno di indotti, strade, luce
elettrica, generatori, tutte cose che è improduttivo economicamente
localizzare vicino al lago Turkana. Quindi dov'è la soluzione?
Prendere i Turkana e portarli in città, spopolando le loro savane:
l'Occidente reagisce in questo modo
perché non è in grado di esportare fino in fondo le sue
meraviglie, perché esse non sono adattabili a tutte le circostanze.
Riflettete ad esempio
sui Rapporti sullo Sviluppo Umano dell'UNDP
. L'UNDP
afferma una cosa che è un'altra arma che si è dovuto concedere
ad un modo diverso di affrontare i problemi: afferma che non si
misura più la graduatoria dei paesi mondiali solo dal prodotto
nazionale lordo, ma che bisogna intrecciare tre indicatori che
formano l'Indice di Sviluppo Umano (ISU):
-
l'aspettativa di vita alla nascita (che vuol dire spesa sociale
per la salute);
-
la media dei redditi
-
l'alfabetizzazione
Quando si giudica lo
stato di un Paese da un anno all'altro si vede che cosa cambia,
quindi non basta dire che il PIL è salito dell'1%, bisogna comparare
questo dato con gli altri indicatori: può accadere infatti che
un Paese produca di più ma spenda solo per la difesa e non per
lo stato sociale. Questo è il caso dell'Iraq, che secondo il sistema
di confronto tradizionale stava al sesto posto, mentre secondo
il sistema dell'UNDP
sta al ventunesimo, perché
non spende nulla per l'educazione, spende tutto per la difesa:
quindi la spesa sociale diventa uno strumento di valutazione della
politica economica di un Paese e il suo posto nella classifica
mondiale varia a seconda della capacità di reinvestire. Questa
è una rivoluzione di cui nessuno si è accorto. Infatti il passo
successivo potrebbe essere semplice: la BM
potrebbe stabilire una regola
secondo cui non verrebbero concessi più prestiti a paesi che non
hanno una crescita dell'1% annuo dell'ISU.
L'Islamismo come movimento reattivo all'occidentalizzazione forzata
Non c'è dubbio che
la prima forma di reazione proveniente dal mondo islamico in età
moderna è quella della Persia, con la reislamizzazione di Komehini
, che non a caso ha come interlocutore lo scià, il quale era una specie
di punta di diamante del processo di modernizzazione occidentale
di un Paese islamico. L'Islam persiano, colpito alle radici da
una modernizzazione troppo filo-occidentale, reagisce con un fenomeno
in parte di ritorno al passato. Stabilisce certo una forma di
gestione non laica del potere, però ha gettato in qualche modo
un messaggio al mondo islamico, che l'Algeria
- ad esempio - ha ripreso in maniera molto violenta in
questi ultimi tempi. Si tratta di reazioni disordinate, violente,
pericolosissime per noi, ma sono forme di salvaguardia di patrimoni
storici specifici che hanno trovato un linguaggio, quello del
Corano, che è un linguaggio piuttosto secco, cioè può essere interpretato
restrittivamente o elasticamente. Il Corano stesso è infatti alla
base del modernismo islamico, cioè di forme di colloquio con l'Occidente
molto proficue.
L'obiettivo principale
delle varie forme di integralismo sono principalmente le donne,
perché sono il segno più evidente del cambiamento, perché sono
il baluardo tradizionale della famiglia e dell'identità islamica,
che quando si trasforma è interpretato come il cedimento all'Occidente.
Questi movimenti reattivi o si canalizzano in forme integraliste,
oppure sono forme sincretiche, creative, che nascono nelle attività
di un progetto. Io credo che il sincretismo sia la soluzione più
ragionevole. Pensate che anche il Cristianesimo è un grandioso
movimento sincretico di reazione all'omologazione imposta dall'impero
romano.
Concluderei con l'idea
che i fenomeni simbolico-religiosi siano fondamentali nel mondo
contemporaneo, a dispetto di tutto quello che dicevano i teorici
della desacralizzazione del mondo. Non c'è stata epoca storica
nella quale il sacro, i simboli, la simbologia siano tanto importanti
come la nostra. La non immediata utilità materiale ha un'importanza
cardinale in tutte le società e certi fenomeni si esprimono in
linguaggi sempre diversi perché non c'è più la canonizzazione
tradizionale. Ad esempio in America Latina la religione è la forma
culturale che assumono i cambiamenti: in quel continente è difficile
che siano esprimibili e comprensibili dei grandi cambiamenti se
non attraverso un linguaggio religioso. Più
è forte la sfida della modernizzazione tecnica e dei cambiamenti
materiali, più la gente dà una risposta di tipo concettuale-simbolico-rituale.
Ricercatore presso
il Consiglio Nazionale delle Ricerche
13/06/1996
E' iniziata una "terza
ondata" di democratizzazione. Nei primi anni '90 molti paesi
hanno adottato per la prima volta un sistema democratico. Altri
paesi sono ritornati alla democrazia dopo molti anni. Intere popolazioni
si sono schierate per prender parte al rito
più rilevante di ogni sistema democratico: le libere elezioni.
In Cile, Sudafrica, Cecoslovacchia, Ungheria, Russia, Cambogia
e in altre parti del mondo, i cittadini hanno atteso, a volte
per ore o giorni, per esercitare il diritto di eleggere i propri
rappresentanti.
Questi eventi epocali
hanno condotto molti osservatori a ritenere che le democrazie
possono esistere solamente all'interno delle nazioni e non tra
nazioni. Da qui le speculazioni sulla "fine della storia"
e sulla poca rilevanza delle relazioni internazionali che vanno
trasformandosi. Gli osservatori maggiormente ottimisti - o forse
quelli niente affatto consapevoli della natura ciclica della storia
- hanno argomentato che se ogni nazione adottasse un sistema
democratico, allora tutti i problemi del sistema internazionale
sarebbero risolti. Alcuni hanno persino previsto che in un certo
anno, per esempio il 2125, il processo di democratizzazione sarà
completo, con tutte le nazioni del mondo che stanno adottando
sistemi politici basati su libere elezioni.
Finora, tuttavia, gli
eventi degli anni '90 hanno mostrato che un semplice allargamento
della comunità delle nazioni democratiche non produce da solo
un sistema internazionale pacifico e giusto. Per esempio, la Guerra
del Golfo e i genocidi in Somalia e in Ruanda sono avvenuti dopo
il crollo del muro di Berlino. La democrazia, in Unione Sovietica
e in Jugoslavia, ha condotto a scoppi di violenza e a guerre civili.
Così rimane la domanda:
mentre la democrazia compie balzi in avanti a livello di nazione,
come può essere incrementata a livello internazionale?
lONU è la più
ambiziosa organizzazione internazionale mai creata per sviluppare
relazioni democratiche tra nazioni. Sfortunatamente lONU.
non riesce essa stessa ad adottare
l'idea di democrazia. Sin dalla sua nascita nel 1945, è
stata governata attraverso quattro grandi ipocrisie.
La
prima ipocrisia è quella delle democrazie occidentali. Stati
Uniti d'America, Gran Bretagna e Francia, le potenze che hanno
ispirato la costituzione delle Nazioni Unite, fondarono l'organizzazione
al fine di estendere i loro valori "democratici" al
contesto internazionale.
Tuttavia esse non hanno
avuto scrupoli ad appropriarsi del potere di bloccare qualsiasi
decisione inerente la sicurezza e ad arrogarsi del privilegio
"imperiale" di essere membri permanenti del Consiglio
di Sicurezza, con ampi poteri di veto.
La
seconda ipocrisia viene dalle nazioni dell'Europa dell'est,
guidate dall'Unione Sovietica. Queste hanno chiesto che la parola
"democrazia" non fosse menzionata nello statuto delle
Nazioni Unite. Questo termine era carico di un peso ideologico
che spaventava i leader del blocco totalitario dell'est. Così
per anni la parola "democrazia" è stata assente dai
documenti ufficiali delle Nazioni Unite.
La
terza ipocrisia riguarda i Governi del Terzo Mondo. Mentre
essi accusano continuamente le Nazioni Unite di essere insensibili
ai bisogni delle nazioni più deboli, molti di questi stessi governi
hanno mancato di applicare i principi democratici nei confronti
dei propri cittadini. Al contrario, molti governi del Terzo Mondo
hanno commesso violente atrocità nei confronti dei loro 'sudditi'.
La
quarta ipocrisia ci rimanda agli stati occidentali. Mentre
si atteggiano con enfasi come i maggiori campioni della democrazia,
tuttavia essi hanno spesso scalzato governi legittimi nel Terzo
Mondo, rimpiazzandoli con regimi autoritari fantoccio. Lontani
dall'applicare i valori democratici oltre i propri confini nazionali,
essi hanno manipolato la politica estera e internazionale al fine
di servire soltanto la logica meschina del loro interesse nazionale.
Queste ipocrisie derivano
da un autentico dilemma: in
che cosa, dopo tutto, dovrebbe consistere la democrazia tra le
nazioni, e quale dovrebbe essere la relazione tra la politica
interna di una nazione e la sua politica estera?
Le nazioni con sistemi
democratici al proprio interno, come gli Stati Uniti d'America
e Israele, hanno attaccato illegalmente stati meno democratici,
come Vietnam, Grenada, Panama, Siria e Libano. Queste aggressioni
differiscono poco dalla politica estera di stati totalitari come
l'URSS ai tempi dell'invasione di Ungheria, Cecoslovacchia e Afganistan.
In altre occasioni l'Unione Sovietica ha sostenuto la democrazia
internazionale in modo più consistente rispetto alle nazioni democratiche
occidentali, come nel caso della promozione del processo di decolonizzazione
e della sua opposizione all'apartheid in Sud Africa. In tal modo
ciò che i primi 50 anni delle Nazioni Unite ci dicono è che le
democrazie non necessariamente agiscono democraticamente all'estero
e che i regimi totalitari non si comportano necessariamente in
maniera antidemocratica al di fuori delle proprie frontiere.
Malgrado queste contraddizioni,
la democrazia sta emergendo come il più riuscito sistema politico
a livello internazionale. Al fine di proteggere questa convinzione
dal rischio di divenire meramente retorica, la riforma delle Nazioni
Unite deve essere penetrata di valori democratici. Sarebbe per
noi incoraggiante l'uscita di una nuova Agenda per la Democratizzazione da parte del Segretario Generale dell'ONU
Boutros Boutros-Ghali
. Aggiunta alla sua Agenda per la
Pace e all'Agenda per
lo Sviluppo, questa può essere un'altra pietra miliare per
migliorare il contributo delle Nazioni Unite alla legalità e alla
giustizia internazionale.
Ma si dovrebbe ricordare
che la richiesta di democrazia alle Nazioni Unite è stata sollevata
dalla società civile molto tempo prima che essa diventasse di
moda tra i diplomatici e i politici. Per esempio, la Campagna
per una maggiore democratizzazione delle Nazioni Unite, promossa
da Jeffrey Segall
e Harry Lerner
, sollevò queste istanze diversi anni fa, come hanno fatto molti altri
movimenti pacifisti e federalisti negli Stati Uniti e altrove.
Ma ancora non è chiaro che cosa dovrebbe essere un'ONU
"democratica" e
come dovrebbe operare.
Le espressioni "democrazia
cosmopolitica" o "democrazia transnazionale" sono
state usate da un gruppo di studiosi, tra cui Richard Falk
, David Held
, Mary
Kaldor
e me, per definire un modello
di democrazia che trascenda i confini nazionali. Studiosi e politici
realisti, naturalmente, potrebbero considerare questi modelli
futili e privi di contenuto. Essi potrebbero obiettare che le
forze trainanti della politica internazionale sono gli interessi,
il bilancio e il potere. Noi prendiamo atto di queste realtà,
ma crediamo anche che un modello basato su degli ideali debba
giocare un ruolo significativo in un'era come la nostra, in cui
è finito il regime stabile della Guerra Fredda, senza nessuna
chiara alternativa per sostituirlo. La pace di Westphalia (1648),
il trattato di Utrecht (1712), il Congresso di Vienna (1814),
la Conferenza di Parigi (1919) e la Conferenza Di San Francisco
(1945) sono stati tutti influenzati da politici che non solo hanno
risposto alle esigenze concrete della realtà, ma hanno anche elaborato
con cura le loro idee per una società internazionale migliore.
Il concetto di Democrazia
cosmopolitica definisce la democrazia da tre punti di vista
interconnessi:
1.
Democrazia all'interno degli stati membri
2.
Democrazia tra stati
3.
Gestione democratica dei problemi globali.
Le
Nazioni Unite potrebbero e dovrebbero avere un ruolo in ognuno
di questi tre obiettivi.
Malgrado la nuova ondata
di democratizzazione degli anni '90, molti stati che fanno parte
delle Nazioni Unite hanno ancora forme di governo non elettive.
Nell'ambito delle richieste di democratizzazione, non si dovrebbe
dimenticare che le Nazioni Unite hanno sia membri democratici
che autocratici. Tuttavia, le Nazioni Unite potrebbero ulteriormente
contribuire ad alimentare la transizione dai sistemi autocratici
a quelli democratici. Gli interventi delle Nazioni Unite si sono
spesso dimostrati vitali nelle situazioni di conflitto, permettendo
alle parti in opposizione di giungere ad un mutuo accordo. Le
missioni dei caschi blu e le azioni di peace-keeping
in Cambogia, El Salvador e Mozambico hanno aperto la strada per
la democratizzazione. Durante gli ultimi cinque anni è stato richiesto
alle Nazioni Unite di supervisionare le elezioni in più di 50
paesi. Tali operazioni non hanno violato la sovranità dello stato
poiché sono state fatte con il consenso dei governi coinvolti.
E' possibile, comunque,
per le Nazioni Unite promuovere la democrazia all'interno delle
nazioni anche senza l'esplicito consenso delle parti coinvolte?
Le Nazioni Unite hanno dovuto essere molto caute nel trattare
con i sistemi nazionali interni. Il principio
di non-interferenza negli affari interni di uno stato (un
dogma di diritto internazionale riconosciuto nella Carta
delle Nazioni Unite) ha effettivamente ostacolato pronunciamenti
su cosa accade all'interno dei singoli stati. Ma la Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani è, tuttavia, un tipo di interferenza
esterna che è stata ampiamente accettata. Tutti gli stati membri
delle Nazioni Unite si sono impegnanti a rispettare questi diritti
e con la ratifica di numerose convenzioni hanno autorizzato la
comunità internazionale a ritenere che i diritti umani siano da
loro tutelati.
Qui noi troviamo la
più grande contraddizione del sistema legale delle Nazioni Unite:
mentre esso richiede ai suoi stati membri di accettare alcuni
nobili principi (quelli elencati nella Dichiarazione Universale), non fa e non può fare molto per dare ad
essi forza. A parte sporadici esempi - come le sanzioni contro
l'apartheid in Sudafrica - sono state troppo poche le azioni delle
Nazioni Unite contro le principali violazioni commesse dai governi
nazionali contro le loro stesse popolazioni.
Ci sono naturalmente
buone ragioni per accettare il principio
di non-interferenza. Finora le interferenze esercitate da
una nazione negli affari interni di altre nazioni sono state dettate
più da interessi propri che dal reale interesse nei confronti
delle popolazioni oppresse. Al contrario, una istituzione multilaterale
come le Nazioni Unite dovrebbe rendere meno probabile che si interferisca
negli affari interni di alcune nazioni a beneficio di altre. Ma,
data la struttura istituzionale attuale, alcune nazioni hanno
più potere e possono evitare di essere biasimate per essere intervenute
negli affari interni di altre nazioni meno potenti. Per il momento,
come arbitro, le Nazioni Unite non sono né imparziali né onnipresenti.
Per rafforzare le sue funzioni bisogna agire sia all'interno degli
stati sia a livello globale.
Un aspetto essenziale
della democrazia all'interno di un Paese è il modo in cui sono
prese le decisioni che riguardano gli abitanti di altri paesi;
in breve, la politica estera. Tra tutti i tipi di politica, la
politica estera tende a sfuggire più spesso dalla rete del controllo
democratico. Anche nelle nazioni con le tradizioni democratiche
più antiche, il lavoro dei Ministeri degli Esteri e della Difesa
è svolto nella segretezza, tenendo i cittadini ignari dei reali
obiettivi del loro Paese e dei mezzi usati per raggiungerli. Ogni
governo ritiene che sarebbe dannoso per gli "interessi vitali"
della nazione rendere pubbliche le decisioni della politica estera.
Questo è il motivo per cui la politica estera ovunque è il vivaio
per meschini giochi diplomatici. Tuttavia uno stato non può essere
completamente democratico a meno che le decisioni della sua politica
estera siano anch'esse controllate dai suoi cittadini.
Finora il sistema delle
Nazioni Unite non ha provveduto ad alcun mezzo per verificare
il modo in cui all'interno dei suoi stati membri vengono prese
le decisioni riguardo alla politica estera. Se un governo autocratico
decide di invadere un Paese confinante, la comunità internazionale
ritiene responsabili tutti gli abitanti della nazione che invade,
anche quando essi sono le vittime, piuttosto che gli autori dell'azione.
In via di principio questo dovrebbe indurre il popolo di ogni
nazione a controllare la politica estera del proprio governo.
Per esempio, questo è il motivo per cui I.Kant
, nel suo famoso progetto di pace perpetua, vedeva con favore un'unione
di paesi con una forma di governo costituzionale. Egli argomentava
in questo modo:
«Se, come è inevitabilmente il caso, sotto questa costituzione è richiesto
il consenso dei cittadini per decidere se una guerra deve essere
dichiarata o no, è naturale che essi esiteranno molto ad imbarcarsi
in un'impresa così pericolosa.»
Ma, diversamente dai
suggerimenti di Kant
, le Nazioni Unite non hanno richiesto agli stati membri di avere politiche
estere controllate democraticamente.
Come per le relazioni
fra nazioni, le Nazioni Unite hanno approvato la regola
internazionale dell'eguaglianza. Tuttavia questa regola è
ovviamente solo una formalità, dal momento che tutti i paesi hanno
attualmente differenti livelli di potere politico, economico,
militare. Anche nel sistema costituzionale delle Nazioni Unite,
alcune nazioni sono "più uguali di altre". Per esempio,
solo 5 nazioni sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza,
con il potere di veto. Le Nazioni Unite hanno un sistema a due
livelli: da un lato l'Assemblea
Generale con le nazioni formalmente uguali, dall'altro il
Consiglio di Sicurezza
con un gruppetto di governi oligarchici. Per rafforzare la democrazia
nelle relazioni tra gli stati, entrambi i livelli devono essere
riformati.
Avendo un gruppo permanente
di membri, il Consiglio
di Sicurezza contraddice due principi democratici di base:
la regola della maggioranza e la nomina elettiva degli organi
esecutivi. E' stato asserito che, per quanto antidemocratico,
il Consiglio di Sicurezza
attuale va comunque mantenuto perché i suoi membri permanenti
hanno il potere militare più grande del mondo. Senza di esso le
decisioni strategiche potrebbero essere prese altrove, ad esempio
in un summit dotato di superpotere che potrebbe essere meno democratico
dello stesso Consiglio di
Sicurezza.
Molto del recente dibattito
sulla riforma delle Nazioni Unite ha enfatizzato il Consiglio
di Sicurezza e ha cercato di bilanciare le esigenze di rappresentatività
e di efficienza. Ma le proposte che ne sono risultate sono state
molto deludenti. Molte nazioni hanno cercato di acquisire privilegi
per loro stesse piuttosto che limitare l'uso del potere di veto.
E' difficile predire
se, quando e come il Consiglio
di Sicurezza sarà riformato. Gli interessi dei popoli sarebbero
di limitare il potere di veto a questioni di sicurezza, limitare
l'uso della forza, e ampliare il numero dei membri permanenti
includendo le organizzazioni regionali - come l'Unione Europea,
l'Organizzazione dell'Unità Africana e la Lega Araba - piuttosto
che singoli governi. Questo costringerebbe i governi a negoziare
e a raggiungere posizioni comuni prima a livello regionale. E'
improbabile, comunque, che i governi sosterranno una riforma che
limiti la loro autorità e il loro prestigio.
L'altra istituzione
globale interstatale delle Nazioni Unite, l'Assemblea
Generale, è stata una tribuna per i governi mondiali per esprimere
le loro opinioni. Ma i suoi poteri effettivi sono stati trascurabili.
Il principio "uno stato, un voto" non è necessariamente
democratico, dal momento che nazioni con popolazioni limitate,
come Malta o Lussemburgo, hanno lo stesso peso elettorale della
Cina, dell'India o degli Stati Uniti.
C'è una distanza tra
i poteri effettivi dell'Assemblea
Generale e le sue norme elettorali in merito alle decisioni
da prendere. L'allargamento dei poteri dell'Assemblea
Generale richiederebbe di valutare i voti riguardo al reddito,
alla popolazione e alla forza militare di ogni nazione. Sviluppare
la democrazia tra gli stati significa difendere l'indipendenza
del più debole, ma anche aver cura che le decisioni generali siano prese con il consenso dei governi
che rappresentano la maggior parte della popolazione che vive
sul pianeta.
Le Nazioni Unite, non
meno della Società delle Nazioni, furono fondate per risolvere
pacificamente le controversie bilaterali fra le nazioni. La Corte
Internazionale di Giustizia fu progettata per agire come un
arbitro tra le parti in contesa. Sfortunatamente i paesi membri
delle Nazioni Unite hanno intralciato duramente la Corte Internazionale,
dal momento che solo alcuni stati hanno pienamente accettato la
sua giurisdizione. Molte nazioni democratiche, inclusi gli Stati
Uniti, si sono rifiutate di accettare e riconoscere il suo potere
giuridico internazionale.
Nel lungo periodo,
l'insieme dei membri delle Nazioni Unite deve essere vincolato
ad accettare la sua istituzione giuridica. Per fare in modo che
la democrazia internazionale non diventi un atto vuoto, tutte
le nazioni devono accettare la giurisdizione della Corte.
Oggi abbiamo una nuova
agenda globale di problemi la cui soluzione trascende le singole
nazioni o gruppi di nazioni. La questione ambientale, la diffusione
dell'AIDS, la tutela dei diritti umani fondamentali: questi problemi non possono essere
risolti da un singolo governo che lavora da solo. Le Nazioni Unite
hanno affrontato pubblicamente tali istanze attraverso una serie
di conferenze tematiche, come il Summit della Terra a Rio (1992),
la Conferenza del Cairo sulla Crescita Demografica (1994) e la
Conferenza di Copenaghen sullo Sviluppo Umano. Le organizzazioni
non governative hanno anche dimostrato che i problemi globali
non possono essere risolti esclusivamente da organizzazioni intergovernative.
Ma le Nazioni Unite
rimangono un'organizzazione essenzialmente intergovernativa. Sebbene
siano nominate nel preambolo della Carta (Noi
Popoli delle Nazioni Unite...), molte popolazioni sono ancora
escluse dalle scelte più importanti dell'organizzazione. La sfida
più ardua delle Nazioni Unite durante la prossima metà di secolo
sarà quella di aprirsi a tutte le popolazioni della terra. Movimenti
federalisti e pacifisti hanno invocato la creazione di una Seconda
Assemblea che rappresenti i cittadini del mondo piuttosto
che i loro governi. Il Parlamento Europeo e quello Canadese hanno
appoggiato ufficialmente questa proposta. Questo potrebbe essere
il primo passo verso un sistema globale veramente democratico,
proprio come i parlamenti nazionali sono stati il primo passo
per rafforzare la democrazia all'interno degli stati. Una piena
democrazia delle Nazioni Unite richiede che gli individui abbiano
accesso al processo politico globale. Il suffragio sarebbe il
metodo più diretto per realizzare questo obiettivo.
Varie fasi di transizione
sono state individuate per giungere ad una Seconda
Assemblea delle Nazioni Unite elettiva. Se nella fase transitoria
i suoi membri non fossero eletti direttamente ad un tale organismo
probabilmente non sarebbe dato lo stesso potere che si pensa debba
avere nel suo assetto definitivo. Tuttavia, l'Assemblea dei Popoli
potrebbe servire inizialmente come un organismo consultivo per
l'Assemblea Generale e per gli altri organismi delle Nazioni Unite.
Questo è stato l'approccio adottato dal Parlamento Europeo per
affrontare la fase transitoria prima che si giunga all'elezione
diretta dei suoi membri.
Ma ci sono problemi
politici globali che sono più preoccupanti rispetto alla mera
rappresentatività delle popolazioni. Per esempio, in quali circostanze
le istituzioni internazionali possono legittimamente interferire
in modo coercitivo negli affari interni di una nazione? Qual è
il ruolo delle Nazioni Unite in queste occasioni?
Per cominciare, le
Nazioni Unite devono tutelare i Diritti Umani. L'Assemblea Generale
sta considerando ora la creazione di una Corte Internazionale
Criminale i cui compiti sarebbero paragonabili a quelli che hanno
i tribunali creati per investigare sui crimini contro l'umanità
nella ex - Yugoslavia e in Rwanda. Ma diversamente da questi tribunali,
questa corte sarebbe permanente, con la possibilità di promuovere
continuativamente la tutela dei Diritti individuali. Dal
momento che avrebbe giurisdizione sulle violazioni dei diritti
individuali commesse da altri individui, sarebbe identica alla
giurisdizione criminale che esiste all'interno di un Paese. In
qualsiasi luogo la giurisdizione nazionale si dimostrasse non
in grado di portare avanti i suoi compiti (per esempio quando
coloro che sono accusati dei crimini detengono il potere politico),
una giurisdizione internazionale potrebbe ricoprire un ruolo sostitutivo.
Anche se questa corte
venisse insediata, potrebbe non avere il potere coercitivo necessario
per dare attuazione immediata alle sue sentenze. Tuttavia la sentenza
stessa di un organismo giuridico indipendente sarebbe un'importante
delegittimazione di coloro che sono colpevoli di crimini contro
l'umanità. Sarebbe un primo passo verso la democrazia all'interno
degli stati.
Ancora: ci sono casi
in cui le Nazioni Unite hanno il compito di intervenire, usando
la forza se necessario, negli affari interni di uno stato? Possono
farlo legittimamente solo per fermare atti di genocidio. Se sono
effettivamente le popolazioni la comunità rappresentata dalle
Nazioni Unite, allora le popolazioni devono avere gli strumenti
collettivi per impedire il genocidio di una di loro. A questo
punto alle Nazioni Unite deve essere permesso di intervenire prontamente,
di mandare i suoi caschi blu per difendere le popolazioni civili
minacciate di sterminio. Ma questo richiederà un totale ripensamento
del ruolo di garanti della pace delle Nazioni Unite.
Fino alla fine degli
anni '80, la forza delle Nazioni Unite destinata al mantenimento
della pace era solo una struttura diplomatica di supporto allo
scenario della battaglia. Le esperienze negli anni '90, come in
Somalia, Rwanda e nella ex-Jugoslavia, mostrano che i principi
di mantenimento della pace devono essere sostanzialmente rivisti
se il genocidio deve essere effettivamente impedito.
Come accade per il
funzionamento dei sistemi nazionali, le Nazioni Unite devono essere
molto caute circa le loro prerogative. Robespierre
ammoniva contro il desiderio
di rendere le popolazioni felici contro la loro volontà. Allo
stesso modo i governi - il più potente prima di tutto - devono
essere ammoniti riguardo l'idea di rendere democratiche le nazioni
contro le loro reali aspettative. E' sempre difficile, talvolta
impossibile, distinguere l'amore sincero per il bene degli altri
dalle politiche che servono solo a difendere l'interesse nazionale.
Storicamente, gli ultimi
50 anni mostrano che la democrazia deve essere sviluppata all'interno
delle nazioni. I paesi democratici occidentali non hanno fatto
nulla per alimentare la democrazia nell'Europa dell'Est. Invece
le popolazioni dell'Est hanno agito da sole per rovesciare i loro
regimi autocratici. Al contrario i conflitti promossi dalle nazioni
occidentali durante la Guerra Fredda hanno rafforzato l'attuale
forza digli stati più estremamente antidemocratici fra quelli
all'interno del blocco della ex-Unione.
Le tre dimensioni della
democrazia, delineate qui, sono strettamente correlate. Solo se
le istituzioni sovranazionali saranno capaci di stabilire
le forme e le misure delle interferenze legittime negli
affari interni di uno stato, sarà possibile rinforzare l'autonomia
del singolo governo nelle sue relazioni con gli stati più potenti.
Alla fine del XX secolo,
la democrazia ha sperimentato molti successi come sistema politico.
Ma la sua vittoria rimane largamente incompiuta dal momento che
non è estesa alle relazioni internazionali. Le Nazioni Unite sono
il punto d'incontro della democrazia al di fuori delle frontiere
nazionali. Lavorando congiuntamente per raggiungere la democrazia
all'interno delle nazioni, nei rapporti tra le nazioni e nei problemi
globali, le Nazioni Unite contribuiranno tangibilmente allo sviluppo
della democrazia nel nostro pianeta. Durante le celebrazioni del
50° anniversario delle Nazioni Unite, la democrazia è stata spesso
invocata dai governi e dai diplomatici. Ancora molti degli stessi
governi hanno ignorato le proposte concrete della società civile
globale per una democrazia reale. Dal momento che ci avviamo verso
il 21° secolo, è più importante che mai prima d'ora organizzare
riforme specifiche per democratizzare le Nazioni Unite.