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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
Per una alternativa allo sviluppo
P.zza A. Paleario 7
03100, Frosinone
ccp 10687036

   
CINEMA SU IMMIGRAZIONE - EMIGRAZIONE
   
La paura mangia l'anima (1973) di R.Fassbinder
CURVE E CORVÉE.
Appunti per un'analisi non solo formale del film "La paura mangia l'anima"
Francesca Coin
"La paura mangia l'anima" è un film decisamente complesso e provocatorio, certo da un punto di vista tecnico e simbolico, ma primariamente da un punto di vista storico e sociale. Il suo principale messaggio, peraltro decisamente esplicito, è la critica sostanziale ad una struttura sociale fondata sulla mercificazione degli esseri umani.
I due protagonisti sono subito rivelatori: lei è una donna delle pulizie, lui è un operaio immigrato. Entrambi rappresentano quindi una classe sociale subordinata, caratterizzata, nel primo caso, da una ulteriore inferiorità di genere, e nel secondo da un'inferiorità di "razza". I due protagonisti descrivono le caratteristiche del loro ruolo e della loro collocazione sociale sin dalle prime scene, attraverso il silenzio, l'oscurità, la povertà degli ambienti.
La donna, in realtà la vera protagonista del film, è Emmi. Emmi vive sola, vedova del marito polacco e dimenticata dai figli. Non parla mai con nessuno, non riceve visite, lavora. E' una donna vecchia e brutta. L'uomo invece è Alì, immigrato marocchino, maschio, giovane e forte, come la grandissima parte degli emigranti africani degli anni settanta.
La scelta di una donna di quell'età e con quelle particolari caratteristiche estetiche risponde ad esigenze ideologiche e narrative basilari, anche in questo caso evidenziate in modo esplicito. Emmi, infatti, è una lavoratrice che vive sola. La bottiglia di cognac che le ha regalato il figlio a Natale è ancora chiusa, ha pochi e futili rapporti con le vicine di casa, paga l'affitto regolarmente ed è una buona cliente del supermercato in cui va a fare la spesa. Il suo ruolo sociale, pertanto, si limita al lavoro ed al consumo. Oltre a queste funzioni, infatti, Emmi non vale niente, tant'è che non è considerata un essere umano né dai figli, né dalle vicine di casa, né dai conoscenti. Emmi, date la sua età ed il suo ceto sociale, ha un ruolo sociale come forza lavoro, come affittuaria e come cliente. Non deve più accudire il marito, non deve più accudire i figli, non è sessualmente appetibile, non è più in età riproduttiva. Emmi è il personaggio attraverso il quale Fassbinder rappresenta magistralmente il ruolo ed il valore sociale della donna, vincolato alle sue funzioni produttive e riproduttive ed alle esigenze sessuali maschili. La solitudine di Emmi è il mezzo attraverso il quale Fassbinder vuole evidenziare che la società della mercificazione lascia ben poco spazio alle donne come lei. La storia d'amore tra Emmi ed Alì, al contrario, gli consente di evidenziare che oltre il valore di scambio di Emmi come lavoratrice, cliente, ex madre e moglie, esiste ancora una donna che, prima di tutto, vive i sentimenti, le ansie, le gioie di ogni essere umano.
Anche Alì è un personaggio provocatorio. Alì, infatti, come tutti gli immigrati, è solo forza lavoro. Alì parla poco e spesso si esprime attraverso Emmi. Fino alla fine sembra ambiguo. Ciò che sappiamo di Alì è che è nero, alto e muscoloso, e che queste sue caratteristiche fisiche gli consentono di essere utilizzato in più occasioni come operaio, come corpo, come braccia utili in casa.
Fassbinder pone Alì ed Emmi al centro di una pellicola che metaforicamente rappresenta un contesto sociale mercificato e mercificante. Alì ed Emmi sono gli unici esseri umani che compaiono nel film. Essi sono circondati, infatti, da comparse e personaggi caricaturali attraverso i quali Fassbinder ci racconta le contraddizioni della società contemporanea, giocando con gli spettatori attraverso continue provocazioni.
Fassbinder ci presenta numerose donne, e non perde occasione per evidenziare la differenza tra loro ed Emmi, inquadrando di continuo le curve dei corpi delle bariste e della figlia, suggerendone la bellezza ed il valore. Provocatoriamente il regista mette in scena gli approcci della barista con i capelli neri nei confronti di Alì, ed il suo rifiuto. Si sofferma anche sulla figlia di Emmi, che viene presentata di schiena, attraverso un'accurata inquadratura che induce lo spettatore a rilevarne la sensualità del corpo. A queste attente rappresentazioni femminili fa seguire azioni provocatorie: uno stralcio della vita di coppia tra la figlia e suo marito, tra un: "Vammi a prendere una birra", e un: "Tra un po' ti arriva uno schiaffo". E le continue fughe nel retrobottega della moglie del gestore del supermercato, disgraziata assistente del marito, ennesima metafora della subalternità sociale della donna rispetto alle esigenze maschili lavorative, domestiche (la birra) e sessuali (i corpi).
Le bariste vengono presentate attraverso i loro corpi e parlano molto poco. Le poche frasi che pronunciano sono emblematiche: la barista avvisa Emmi di ricordarsi che "Il locale è mio", le parla quasi esclusivamente per dirle quanto costa la coca, con Alì non ha dialogo, quando lui entra a casa sua lei gli chiede che cosa vuole, e lui le risponde "couscous". Segue uno scambio gelido di corpi. Si può dire che Fassbinder metta esplicitamente in scena il valore di scambio della donna attraverso i corpi di questi personaggi che, al contrario di Emmi, non dimostrano umanità. Ma il processo di mercificazione coinvolge anche tutti gli altri personaggi: il figlio di Emmi quasi non le parla, ma le rompe il televisore, le manda i soldi, le chiede di fare da baby sitter alla bambina; la vicina restituisce ad Emmi il saluto in cambio dello spazio nella sua cantina, il gestore del supermercato le restituisce il saluto perchè è una "buona cliente". I rapporti mercificati dominano anche tra le colleghe di lavoro di Emmi, che emblematicamente escludono la nuova arrivata perché non appartiene alla loro fascia salariale. Tutti, inoltre, prima o poi giudicano Emmi una prostituta, proiettando in lei la loro stessa abitudine alla mercificazione.
In mezzo a tanti personaggi caricaturalmente deumanizzati, Emmi ed Alì spiccano per il loro calore umano e per la loro emotività istintivamente contraria alla mercificazione. Fassbinder esplicita in più punti questa loro capacità, quando sottolinea che Alì preferisce Emmi al bel corpo che gli muove continue avance, quando evidenzia la foga di Emmi nel rifiutare i soldi di Alì, quando mette in scena la reazione indignata di Alì al tentativo delle amiche di Emmi di mercificarne il corpo ("Senti che muscoli") dopo che le stesse avevano proiettato su di lui la loro stessa tendenza alla mercificazione ("Quelli vogliono solo sesso").
Lo spettatore viene coinvolto in questa contraddizione, ed apparentemente rileva con disapprovazione l'emarginazione di Emmi ed Alì. Lo spettatore, tuttavia, sino alla fine segue in modo incredulo e diffidente il sorgere di un legame tra Emmi ed Alì, e sino alla fine non sarà persuaso dalla buona fede del compagno. La provocazione di Fassbinder è spietata, perché il regista più volte seduce lo spettatore attraverso le inquadrature dei corpi della figlia e delle bariste, e sottolinea la stonatura tra l'esteriorità rugosa di Emmi e il bel portamento di Alì. In questo modo il regista coglie in fallo lo spettatore nella sua stessa introiezione delle dinamiche di mercificazione degli esseri umani, e nel contempo ne provoca il disappunto quando lo stesso errore viene compiuto dai personaggi del film. Fassbinder sembra giocare ed ironizzare aprioristicamente sull'ipocrisia degli spettatori, svelando, ad un tempo, la contraddizione che domina i rapporti sociali, la sua atroce attualità e la sua facile, subdola introiezione. La simbologia dello specchio in cui, più di una volta, si vanno a riflettere i volti dei protagonisti sembra esprimere esattamente questo: la rappresentazione contemporanea dentro e fuori la pellicola di soggetto ed oggetto. Emmi è emarginata dalle persone care, ma a sua volta emargina la collega di lavoro; così anche lo spettatore rileva la difficile compatibilità della coppia ma si dissocia dalla frase del commerciante che vede in Emmi solo una cliente.
Dalla contraddizione tra valore umano e valore di scambio degli esseri umani si genera, pertanto, tutta la pellicola, che sceglie l'immigrato come prima, esplicita metafora di un essere umano considerato solo per il suo valore di scambio. Affianca a questa forza lavoro Emmi, altra forza lavoro produttivo-riproduttiva. Queste due non-persone riescono a volersi bene come esseri umani, aldilà delle regole del contratto matrimoniale, aldilà delle trappole della mercificazione sociale. Emmi e Alì si riconoscono come esseri umani (Emmi definisce disumano vivere in sei uomini in una piccola camera) e resistono, per quanto possibile, alle regole del do ut des: Emmi, per esempio, aiuterà il figlio e la vicina di casa senza volere nulla in cambio. Ma Emmi e Alì resistono per quanto possono: Fassbinder vuole dimostrare, infatti, che essi vivono in una società contraddittoria che, voglia o no, influenza anche loro. Emmi, infatti, per due volte sposata a un immigrato, festeggia con Alì il matrimonio nel locale in cui pranzava sempre Hitler, scegliendo non le cose più buone ma quelle che costano di più, anche se non sa che cosa sono. Ed anche Alì cede ai rapporti mercificati quando va a casa della barista per farsi fare il couscous, e nel loro freddo atto sessuale. Ma se il regista non critica questa contraddizione, anzi sembra comprenderla, al contrario, chi Fassbinder sembra criticare in modo graffiante è lo spettatore, continuamente colto in fallo e beffeggiato in quanto debole accusatore della discriminazione di Alì (nero), ma nel contempo sino all'ultimo incredulo di fronte alla possibilità di una storia d'amore tra Alì ed Emmi (brutta).
Di fronte a questo tipo di lettura, il "tradimento" di Alì e le offese all'officina nei confronti di Emmi sembrano essere un'ulteriore provocazione del regista, che finge di dare ragione ai dubbi dello spettatore addirittura mettendoli in scena, per poi confutarli definitivamente. I lunghi silenzi di Alì e la sua poca espressività vengono, infatti, di continuo giudicati dallo spettatore come sintomatici del probabile disinteresse di Alì. Lo spettatore, in realtà, sino all'ultimo non crede che Alì possa amare una donna vecchia e brutta proprio come le vicine di casa ed i figli non credono che Emmi possa amare un negro, e la chiamano "puttana". L'abilità di Fassbinder si rivela nel suo rappresentare lo spettatore come davanti ad uno specchio, rappresentandolo nei difetti delle stesse persone che giudica con un ghigno, suggerendogli che neanche lui, come Emmi e Alì, può ritenersi estraneo alla società in cui vive e che, pertanto, la sua prima necessità è quella di andare a fondo delle contraddizioni che egli stesso interiorizza. La proiezione degli spettatori-società nei personaggi che, nel film, rappresentano la società, ed il parallelismo dei loro difetti, rivelano, inoltre, l'attualità del film, che rimbalza di continuo dalla pellicola alla sala, precisamente in un gioco di specchi.
Fassbinder chiude la pellicola con un'ultima, triste provocazione. Alì, infatti, viene ricoverato all'ospedale. Il suo stile di vita, dice il medico, è una grossa fonte di stress, e difficilmente "quelli come lui" riescono a guarire. Infatti, anticipa, "tra sei mesi sarà di nuovo qui". Un monito, quello di Fassbinder, ed una accusa ad ampissimo raggio, che coinvolge tutti i campi della società contemporanea, nella quale anche il malato cessa di essere un soggetto unico per essere solo un corpo uguale a tutti "quelli come lui", che potrà vivere o, indifferentemente, ammalarsi e morire, senza suscitare emozioni, commozione o tristezza. Giustamente, infatti, i corpi sono tutti uguali, e sotto i corpi non c'è niente per cui valga la pena commuoversi. Un monito, quindi, ed un avvertimento da parte di Fassbinder, che proietta lo spettatore all'interno della pellicola, avvisandolo che la società della mercificazione coinvolge tutti, deturpa anche ciò che le resiste, e spesso non consente il lieto fine.
Pièces d'identitè Mweze D. Ngangura, Rep. Dem. Congo, 1998, 97'. Versione originale sottotitolata in italiano.

Pièces d'identités, Carte d'identità, […] è di una simpatia unica: desta il riso senza sommergere l'idea che lo ha ispirato, la necessità di un africano di sapere chi è, da dove viene, quale è la sua cultura, e come questa può sopravvivere di fronte alle proposte non sempre accessibili della vita occidentale. E' un tema "caldo" quando si affronta a scuola o altrove la riflessione sulla storia, sulla propria identità e sulle radici culturali proprie di ognuno.
Nel film, il tema dell'identità è affrontato in maniera tale che la riflessione e la circostanza drammatica, che costituisce la trama, ci muove contemporaneamente al sorriso, al riso e nel medesimo tempo a considerare con qualche tremore i pericoli di un'emigrazione verso terre e culture abissalmente distanti dalla propria.
E' una giovane principessa che affronta, per motivi di studio, il viaggio verso un'università belga. Ma un giorno si interrompono i rapporti epistolari con i familiari e così il padre, che è re, un re di quelli delle nostre fantasie e delle leggende popolate da imperatori, re, stregoni, foreste vergini ed altri elementi esotici, arriva, avvolto nel suo tradizionale e anacronistico abbigliamento regale e accompagnato dai dignitari di corte, in Belgio a cercarla.
Equivoci a non finire, naturalmente, incontri illuminanti, scoperte incredibili ai suoi occhi e alla sua sensibilità, scandali, imbrogli, cattive furbizie di malavitosi contro i dignitosi atteggiamenti del vecchio re, letti solo come comportamenti ingenui e, per fortuna, il lieto fine come si addice alla commedia, qualunque sia la sua provenienza. (Michele Serra)
Temi possibili di discussione e approfondimento:
- L'identità: cos'è, come la esprimiamo? Cosa accade quando ciò che consideriamo caratterizzare la nostra identità diventa un elemento di discriminazione?
- Ciò che è "civile" e ciò che non lo è, cambia a seconda del sistema di valori in cui ci si trova. Il vecchio re suscita ilarità in un mondo che non conosce la sua cultura. Cosa sarebbe successo se fosse stato un uomo d'affari belga a recarsi in Congo per cercare la figlia? L'effetto sarebbe stato lo stesso o sarebbe stato diverso? Cosa avrebbe incontrato secondo te? Le cose sarebbero cambiate se la ragazza si trovasse in un villaggio o nella capitale?

Lamerica Gianni Amelio, Italia 1994, 127'. Versione originale in italiano.

Gino e Fiore sono italiani. Ma vogliono fare i soldi in Albania. Siamo nel 1991 e loro avrebbero trovato il modo per raggranellare un po' di denaro illecito, costruendo un'industria di calzature fantasma. Ma se Fiore è un imbroglione abituato a vivere di espedienti, Gino è un credulone presuntuoso. E finisce ben presto in mezzo ai guai. Prima viene piantato dal socio. Poi si scontra con la realtà di un Paese che odia. Un popolo, gli albanesi, che lui disprezza. Così lontani dall'Italia nei pensieri, nelle azioni, nel modo di vivere...Eppure eternamente attaccati alla nostra tv nazionale. Gino si trova tra loro, senza saper comportarsi. Senza sapere dove sbattere la testa. Ma sulla sua strada di imbroglione fallito sulla via del ritorno, finisce per apprezzare la stessa gente che detestava a priori. Tra i quali uno strano vecchio particolare, di nome Michele. Conosciuto anche col nome di Spiro. Un compatriota che ha perso il senno, dopo dodici anni di dura prigionia albanese. Tra la sua povera follia e la sua strana saggezza, comincia la loro conoscenza. Osteggiata, senza troppa convinzione, dalla prosopopea di Gino: che non ammetta la sua sconfitta umana. E quando la coppia raggiunge Tirana, il pover'uomo e il giovane italiano s'imbarcano sulla nave che li riporterà in Italia. Ma la vita di Michele si fermerà prima. Col sorriso sulle labbra, convinto com'è di essere partito per Lamerica...
Il regista offre una visione dell'Albania post - comunista, nei suoi atroci conflitti. Crudele e travagliata nelle sue differenziazioni etniche, ma allo stesso tempo così morbosamente attaccata all'Italia, che rappresenta una sorta di Eldorado al di là del mare. La critica elogia il lavoro di Amelio, senza però premiarlo a dovere: conquista un'Osella d'oro alla regìa, al Festival del cinema di Venezia. Ma vince anche nel 1995 il Premio della Critica al Sao Paulo International Film Festival, l'anno dopo si aggiudica sia il Goya Award, come Miglior Film Europeo che il Bodil Film Festival, come Miglior Film non Americano. Nel 1997, infine, ottiene una nomination all'Indipendent Spirit Award.

Pummarò di Michele Placido, per la RAI, versione originale in lingua italiana.

"Non si è mai liberi se si è lontani da casa".
Una storia c he inizia come tante altre : un giovane ghanese emigra in Italia, sognando di poter raccogliere abbastanza denaro per pagare gli studi del fratello, Kwaku. Dopo un certo tempo, è Kwaku stesso ad imbarcarsi per raggiungerlo. Il giovane arriva dapprima nei pressi di Napoli,nei campi di lavoro stagionali dove il fratello, affettuosamente chiamato da tutti Pummarò (come sono chiamati gli stagionali che lavorano nella raccolta dei pomodori) ha lasciato le ultime tracce. Ma non lo trova, perchè è sparito nel nulla per sfuggire alla polizia e alla camorra dopo aver minacciato un "caporale" con la pistola e rubato un camion, e ha lasciato una ragazza in attesa di un figlio. Da lei Kwaku scopre che dopo aver lasciato Napoli il fratello si era trasferito a Verona, e decide di raggiungerlo.
Lì, ospite di alcuni connazionali, il giovane trova lavoro in una fabbrica, entra in contatto con un associazione di appoggio agli immigrati e si innamora di Eleonora. La situazione, dopo un momento di iniziale serenità, si complica, per il rifiuto che Kwaku sente intorno a sé a causa del colore della sua pelle. Anche l' ex marito di Eleonora si rifiuta di farle incontrare la figlia per la sua relazione con un "nero". Dopo un'aggressione da parte di un gruppo di teppisti, lascia Verona per raggiungere Pummarò, che nel frattempo gli ha scritto una cartolina dalla Germania. Ma arriverà troppo tardi, o meglio, giusto in tempo per il riconoscimento legale del cadavere del fratello.
N.B: Pummarò è più che altro un film-dossier: non è un film di grandi qualità cinematografiche, presenta alcune ingenuità e alcuni stereotipi piuttosto grossolani nella rappresentazione delle diverse "tipologie" di personaggi che a tratti possono deviare dalla realtà dei fatti, ma è interessante per poter produrre un confronto con altri film girati sull'argomento, e per capire come esistano diversi modi di leggere e rappresentare una realtà.
Target consigliato: a partire dalla scuola media
Temi possibili di discussione e approfondimento:
· Il film ritrae la situazione degli immigrati in Italia tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90: cosa c'è di diverso nella situazione attuale?
· Il film cade talvolta nello stereotipo, soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Quali sono secondo te, anche alla luce della tua personale esperienza?
- le difficoltà dell'immigrato: il permesso di soggiorno, la casa, il lavoro…

L'odio di Mathieu Kassovitz Francia 1995. Versione doppiata in lingua italiana. Premio Migliore Regia Cannes '95.

Lo scorrere di una giornata nella desolata periferia parigina insieme a tre ragazzi, un maghrebino, un nero e un ebreo. Famiglie disgregate, fallimenti scolastici, mancanza di prospettive di lavoro, inesistenza di una rete sociale e istituzionale, se non quella della piccola criminalità e della polizia, provocano noia, rifiuto, aggressività, violenza, odio. Anche l'amicizia è senza speranza. Come quello che sta cadendo da un grattacielo e dice "Fino a qui tutto bene". Ma il problema è l'atterraggio.
Temi possibili di discussione e approfondimento:
· la seconda generazioni di immigrati tra desiderio e rifiuto di integrazione
· la concentrazione degli immigrati nelle periferie urbane, luogo di emarginazione sociale e di violenza
Target consigliato: solo gli ultimi anni delle superiori.

Clando di Jean-Marie Téno, Camerun 1996, 94', versione originale francese con sottotitoli in italiano Perseguitato dalla polizia del suo paese, Sobgui decide di emigrare in Germania per darsi al business dell'esportazione di autovetture. A Colonia si innamora di Irene che lavora con un gruppo di assistenza ai rifugiati politici.
I ricordi, il passato drammatico della prigione e della tortura lo assillano continuamente. Anche in Europa Sobgui non trova pace e comincia a
pensare di ritornare al suo paese.
Il film illustra bene la figura del rifugiato politico, tra la situazione traumatica vissuta nel proprio paese e le speranze di poter cambiare le cose, non soltanto per se' ma anche per la propria comunita'. La solidarietà di chi accoglie, il divario tra i due mondi, l' impossibile di capire fino in fondo la situazione di chi e' fuggito dal proprio mondo e sogna comunque di tornarci, ma anche, contrariamente a cio' che può sembrare, la possibilita' di volgere questa situazione in qualcosa di piu' di un nostalgico volgersi indietro: il ritorno non porta con se' illusioni, ma disincantata speranza, forse la speranza piu' autentica e costruttiva, ritrovata attraverso il confronto con un mondo "altro".
Temi possibili di discussione e approfondimento:
-La situazione dei rifugiati in Europa
-Immigrati e rifugiati
- Il ritorno al paese d'origine
Target consigliato: scuole superiori
Mississippi Masala di Mira Nair, USA 1990, 109', versione doppiata in italiano. Con D. Washington . Premio UNICEF alla Mostra del Cinema di Venezia 1991.

Non è facile per una ragazza indiana, nata in Uganda e immigrata negli Usa, e un afroamericano portare avanti la loro storia d'amore: le rispettive comunità cercano in tutti i modi di impedirlo per i pregiudizi e le diffidenze reciproche. Isolamento e divisione contro il mito del melting pot. L'amore tra le persone però può contribuire a vincere le resistenze.
E a far capire qualcosa in piu' anche agli adulti…
Due i fili conduttori in questo film di Mira Nair: da un lato idea del ritorno, mitizzato e idealizzato da un indiano espulso dall'Uganda e immigrato negli stati uniti, che rifiuta il mondo in cui si e' trovato a vivere in nome di una casa e di una patria lontane. Dall'altra la voglia di integrazione, di superamento delle barriere culturali - che si rivelano piu' imposte che reali - vissuta dalla figlia , Mina, che anziche'indiana ugandese si autodefinisce un "mix masala", cioe' una mistura in uso nella cucina indiana, che mescola un gran numero di spezie diverse. Sarà alla fine la scelta di Mina a rivelarsi la più saggia, e il padre lo capirà a modo proprio, dando alla fine la giusta dimensione alla realtà e ai ricordi.
Possibili spunti di discussione e approfondimento:
· la difficoltà di comunicazione tra culture
· la stratificazione sociale dei gruppi etnici negli USA: pregiudizi incrociati, conflitti, mancanza di solidarietà
· la relazione affettiva tra i giovani come possibile forma di superamento dei conflitti e di integrazione della comunità
(Marina Medi)
· il rapporto del padre di Mina con l'Uganda ci riconduce alla delicata questione dell'identità dell'immigrato. Quale è il "suo" paese? Quale cultura riconosce come propria?
· Le coppie miste: una realtà sempre più presente nella società contemporanea.
-Target consigliato: a partire dalla terza media.

Le cri du coeur di Idrissa Ouedraogo, Francia/Burkina Faso 1994 86' colore,versione originale francese sottotitolata in italiano

Parte dall'Africa il grido del cuore del piccolo Moctar, uno dei molti ragazzi africani che lasciano il loro paese e seguono i genitori immigrati in Francia. Mentre i genitori si adattano preso alla nuova vita, felici di poter essere di nuovo insieme dopo anni di separazione, per Moctar è difficile adattarsi ad un mondo così diverso da quello che gli era familiare, ed egli incomincia ad essere perseguitato dalla visione di una iena, che gli appare nelle situazioni più improbabili. Genitori, insegnanti, amici, compagni di classe…nessuno sembra comprendere il profondo disagio del piccolo, e nessuno sembra quindi in grado di aiutarlo. L'unico a riuscirci è un amico inaspettato, Paulo, un simpatico sessantenne parigino, anch'egli "fuori dagli schemi", anch'egli un po' un "diverso", che aiuterà Moctar a riconoscere le proprie paure, a superarle…e che alla fine riceverà dal suo piccolo amico un aiuto importante, altrettanto inatteso come lo sono forse i doni più importanti.
Target consigliato: dalla terza media in su
Temi possibili di discussione e approfondimento:
- I bambini immigrati e le difficoltà di integrazione
- Superare completamente cio' che ci fa paura talvolta non significa rimuoverlo, ma far pace con esso. In che senso? Uno spunto ci può essere dato da un altro film africano, in cartoni animati:Kiriku' e la strega Karabà, di M. Ocelot.

L'articolo 2 di Maurizio Zaccaro, Italia 1993, 106', versione originale in lingua italiana

Said, algerino, è da vari anni a Milano dove lavora e vive, con la moglie Malika e tre figli, in modo decoroso, anche se non privo di problemi. Ha lasciato però in patria una seconda moglie, Fatma, con altri tre bambini per prendersi cura dei vecchi genitori. Quando il suocero muore, Fatma decide di raggiungere il marito, ma la legge italiana, che pure riconosce il diritto al ricongiungimento del coniuge, non prevede modelli familiari diversi dal proprio. Ottusità delle istituzioni che contraddicono l'articolo 2 della Costituzione sui diritti inviolabili dell'uomo.
Target consigliato: scuole superiori
Temi possibili di discussione e approfondimento:
Nonostante qualche stereotipo nella presentazione della cultura algerina, il film è interessante per i temi:
· difficoltà di integrazione legale
· accettazioni e rifiuti da parte degli italiani
· stereotipi italiani sul mondo arabo-musulmano
incidenti di lavoro agli stranieri (Marina Medi)

"La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale" così recita l'articolo 2 della Costituzione Italiana.
Così si intitola anche il film di Zaccaro che narra la storia di una famiglia algerina immigrata in Italia.
La violazione dei diritti umani, a cui il titolo sembra rimandare, non esaurisce completamente la sostanza del film. Anzi sembra un pretesto per ribadire un evento antropologicamente devastante che è l'immigrazione di popolazioni impoverite e "traumatizzate" dalla rappresentazione del progresso.
La sofferenza di un domani avvolto dalla nebbia della rincorsa di un minimo di sostentamento in una società diversa e sicuramente poco accogliente, traspare in tutti i protagonisti immigrati del film. Anche e soprattutto attraverso i movimenti, gli sguardi, le riflessioni dei bambini passa una immagine, oltre che di tenerezza, di generale difficoltà a essere felici nella "terra promessa".
La poesia che il film trasmette va oltre il racconto della storia e sottolinea nel montaggio, nella recitazione, nella fotografia, il suo intento di critica a un modello di società, quella occidentale, molto poco disponibile a essere una cultura tra le altre culture, anzi. Un film che non disdegna di essere un tentativo di documentazione antropologica della realtà dei nostri tempi attraverso lo sforzo di far ridiventare le immagini cinematografiche, nella loro composizione, quello che sono: immagini parziali per un messaggio ideologico.

La Promesse di Jean Pierre e Luc Dardenne, Belgio Francia Tunisia Lussemburgo 1996, 90', versione doppiata in italiano.

Un padre, Roger, che dà lavoro a cittadini immigrati, li sfrutta e quando un incidente ferisce gravemente uno di loro anziché aiutarlo lo lascia morire. Un figlio, Igor, che promette ad Hamidou, immigrato morente, di prendersi cura di sua moglie e del suo bambino, e che manterrà la promessa tagliando prima con titubanza poi definitivamente i fili che lo legano al padre e ad un mondo di adulti corrotto e senza valori. Perché "promettere vuol dire scegliere". Un film assai realistico, duro e di grande valore artistico. Un film che ferisce, che per spiegare la durezza della realtà sceglie un linguaggio crudo e sofferto. L'immigrazione in Belgio, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri, ma soprattutto la miseria morale degli sfruttatori. La situazione dell'immigrato, indifeso e assolutamente alla mercé dei suoi sfruttatori, fa emergere e risaltare il marcio della società del benessere, e capovolge i ruoli: da che parte sta la miseria, da che parte sta la civiltà? Igor attraversa tutto il film per capirlo, e alla fine sceglie da che parte stare.
Target consigliato: ultimi anni delle superiori
Temi possibili di discussione e approfondimento:
· sfruttamento dei lavoratori immigrati
· sfruttamento della prostituzione e "tratta" di donne straniere
· incidenti di lavoro agli stranieri
osservare le tappe del percorso attraverso il quale Igor compie la sua Scelta affermando la propria identità e liberandosi dall'influenza deviante del padre.

Bread and roses di K.Loach. 1h 52'

"Non è più lui, ti dico" - il metalmeccanico lo biascicò con un misto di rassegnazione e amarezza, mentre apriva la sua gavetta.
- "Dai, non essere estremista... le storie che racconta sono sempre importanti", rispose il suo collega.
Erano seduti su una panchina dentro la Breda. Sesto San Giovanni, l'ex-Stalingrado d'Italia, dava il meglio di sé con una nebbia da prendere a cucchiaiate e un grigiore da smarrircisi.
- "E' come Luther Blisset, Hatley, Wilkins, Ian Rush... te li ricordi, no?" - riprese il primo. "In Inghilterra campioni... poi venivano qua e non ne mettevano dentro uno neanche a piangere! Te lo dico io. Appena si mette a giocare fuori casa diventa un brocco!"
- "Mah, secondo me esageri. Loach è sempre un grande... magari meno che in Piovono Pietre o Riff Raff, ma è l'unico vero regista militante che ci resti..."
L'altro operaio prese un'aria leggermente offesa, come se l'argomento lo toccasse in un modo tremendamente personale:
- "Ma che militante e militante! Una volta prendeva la gente vera, le facce giuste! Adesso, se ne va in America e mette insieme un cast che potrebbe essere quasi quello di una telenovela..."Se questo dialogo non vi è sembrato molto credibile, se non credete che due operai di Sesto San Giovanni possano discutere in pausa pranzo di Ken Loach, probabilmente non crederete neppure a una certa parte di Bread And Roses, il suo ultimo film.
Il fatto strano, però, è che a guardarlo sotto il profilo della sceneggiatura e della regia, Bread And Roses non è poi radicalmente diverso dai grandi film che Loach ha realizzato in Inghilterra. Non è, cioè, un problema di struttura della storia (sceneggiata con piglio professionale), né di spessore di ciò che si racconta (beh, una rivolta di pulitori in una metropoli americana d'oggi non è proprio come la guerra di Spagna, ma comunque non è male), né, alla fine, è un problema di regia. Loach continua ad usare la cinepresa alla sua maniera, riprendendo i suoi attori da lontano, rifuggendo le focali corte, nascondendosi per scovare la vita vera, o l'imitazione che le si avvicini di più. Ma ciò che manca, come dice uno dei nostri metalmeccanici, sono il grigiore degli ambienti e le facce dei proletari d'oltremanica. Per carità, Adrien Brody (il punk di Summer Of Sam di Spike Lee, per intenderci) è bravo e ha un gran bella faccia, ma quelle dei protagonisti di Ladybird Ladybird o Piovono Pietre erano tutta un'altra cosa.
E' una notazione banale, è un modo anche antipatico di trattare un film giusto e nobile come Bread And Roses. Ma il fatto è che Kenneth Loach (che resta un grande, beninteso), ci ha trattati troppo bene. E che quindi possiamo anche permetterci di fare i raffinati e di storcere il naso dicendo che i suoi film inglesi erano migliori, e lo erano davvero. Ma Bread And Roses è comunque meglio, per la forza delle cose che racconta, di buona parte del cinema che ha intorno.
Vesna va veloce di Carlo mazzacurti  
East is east di Damien O'Donnell.

Poche migrazione come quella indo-pakistana verso l'Inghilterra hanno prodotto risultati davvero meticci, di reale contaminazione culturale. Giunti con logore valigie di cartone, trattati come paria dai compassati londinesi, i pakistani hanno conquistato posizioni di prestigio, soprattutto nell'ambito economico. Il problema della loro difficile integrazione è sempre stato quello di far convivere il curry con il tè, il peso della tradizione e della religione musulmana con la fiera delle vanità che il moderno Occidente lascia sfilare di fronte agli occhi dei meravigliati orientali. Questo decisivo e spesso insormontabile scalino è il centro della letteratura e del cinema che i pakistani si sono conquistati. Dei romanzi di Hanif Kureishi, e dei tanti film che da queste opere, o dal loro alone narrativo, sono stati tratti. East Is East non fa eccezione alla regola, pur facendo capo ad un regista che orientale non è. L'integrazione è sempre il motore, l'incidente scatenante, l'indispensabile contorno del racconto. Più di altre pellicole, tuttavia, East Is East spinge l'acceleratore del registro comico, sfruttando la babele di inconvenienti, ed incomprensioni, che l'alterazione dei livelli comunicativi genera. L'effetto è singolare, soprattutto nei momenti in cui il sorriso svanisce, ed il conflitto generazionale si colora di tinte drammatiche.
È l'ambientazione, in primo luogo, a suggerire buffi collegamenti. Siamo in piena era velvet goldmine, l'inizio degli anni Settanta, tra gli inevitabili camicioni, le lunghe chiome, il rock che spunta rumoroso da ogni angolo. Non mancano le tentazioni ai figli del rigido George, al quale il matrimonio con una donna inglese non ha fatto venir meno l'intenzione di educare la prole secondo i rigidi dettami degli antenati. E di scegliere le consorti secondo gli stessi precetti. La sarabanda di piccoli e grandi incidenti, di gaffes terrificanti e di violenti alterchi parte di qui. O'Donnell è sicuramente agile nel gestire il meccanismo del racconto, capitalizzando al meglio l'estro degli attori (indispensabile Om Puri in qualsiasi film pakistano) e orchestrando alcune salite di tono, piccoli momenti di riflessione sull'eterna conflittualità tra i figli ed i loro genitori.
Pur ben suonato, lo spartito ha qualcosa di risaputo, nella melodia e nei singoli passaggi. Qualcosa che appartiene a Frears, come umore e spigolosità dei personaggi, e ad altri film più o meno di argomento pakistano, Mio Figlio Il Fanatico su tutti. Ovvero, East Is East è divertente, ma non travolge. Visione piacevole, se non si ha la pretesa (assolutamente non necessaria, per la verità) di osservare qualcosa di nuovo.

Oikos semi di zucca  
Il passo sospeso della cicogna Francia - Grecia - Svizzera - Italia 1991
REGIA: Theodoros (Théo) Anghelopulos
ATTORI: Marcello Mastroianni; Jeanne Moreau; Gregory Karr; Dora Chrysikou
Durante un servizio sui profughi di varia nazionalità (curdi, iraniani, albanesi) che si affollano in una cittadina macedone, un giornalista TV crede di vedere in uno di loro un importante uomo politico, scomparso anni prima senza lasciare tracce. Chiamata da Atene, la moglie non lo riconosce. L'uomo scompare nel nulla. Scritta con Tonino Guerra e Petros Markaris e situata sulla frontiera in un algido dicembre (del 1999?), è una storia intesa come archetipo dei limiti che impediscono la vera comunicazione tra gli uomini. È un altro film di alta classe stilistica e di liturgica lentezza sul quale pesa un'ombra costante di estetizzante frigidità. Un film sospeso, in tutti i sensi.
Un'anima divisa in due di S.Soldini (Ita - 1993) Un sorvegliante di un grande magazzino a Milano (separato e con un figlio) s'innamora di una zingara sorpresa a rubare. Fugge con lei ad Ancona e cerca di rifarsi una vita, ma la convivenza fra le due culture non è facile.
Soldini inizia a proporre in questo film la sua personale poetica: la solitudine metropolitana, la voglia di evadere dalla solita vita, l'apertura mentale verso etnie e culture diverse, il viaggio visto sì come fuga ma soprattutto come nuovo inizio. Più o meno gli stessi saranno anche i temi dei successivi "Le acrobate" o di "Pane e tulipani". Nei film di Soldini all'inizio scorre la normalità apparente: la routine di tutti i giorni, con qualche momento di gioia (il protagonista che gioca con suo figlio in una macchina scassata, fingendo di essere in un'avventura al mare) e più spesso lo squallore di situazioni note (la sera da soli con la cena davanti alla televisione). Poi però succede che il personaggio si trova di fronte a situazioni che la maggioranza della gente risolve tirando diritto per la sua strada (e in questo caso il film sarebbe già finito), mentre lui prende una deviazione imprevista dalla via maestra e questo lo porta in nuovi territori, sconosciuti ma appunto per questo affascinanti: ed è questo che fa "accadere" il cinema. Soldini ha avuto molto coraggio nel proporre questa storia d'amore fra un personaggio "normale" (l'ottimo Fabrizio Bentivoglio, uno dei migliori attori, se non il migliore, degli ultimi anni) e una rom. Gli zingari rappresentano una cultura totalmente diversa dalla nostra, col loro rifiuto del lavoro e la vita nomade che conducono: non c'era un modo migliore, probabilmente, per far diventare questa storia quasi un simbolo di tutte le intolleranze e gli inevitabili conflitti fra modi di vivere diversi che le recenti ondate di immigrazione dal terzo mondo hanno portato in Italia. La cosa notevole di questo film è che Soldini non ha bisogno di mettere in scena chissà quali soprusi per incrementarne il contenuto drammatico: gli basta mantenersi su un tono strettamente realistico e mostrare sia la mentalità dei rom (non dicono "ho rubato" ma "ho trovato") sia quella italiana che, anche di fronte ad una persona che sta lottando disperatamente contro se stessa per integrarsi nella nostra società, ritiene che una rom sia in ogni caso una ladra (il direttore dell'azienda di pulizie in cui lavora Pabe, zingara e moglie del protagonista, la caccia non appena si sparge la voce che sia una rom, nonostante si fosse dimostrata una lavoratrice modello). La sceneggiatura centra il bersaglio: il dramma scaturisce dal confronto fra l'amore che il protagonista mostra a Pabe (e che lei ricambia, anche sforzandosi di vivere in modo diverso da com'era stata abituata) e la diffidenza (se non l'odio) che gli italiani nutrono per i rom. Oltretutto bisogna dire che, pur essendo un film drammatico, l'uso della bella colonna sonora (musica etnica con venature "mediterranee") e qualche momento ironico ben riuscito stemperano a tratti la tensione del film, che per il resto non offre momenti di pausa (nonostante le sue due ore di durata) e nessuna facile via d'uscita, come mostra bene l'enigmatico finale. Soldini dirige in maniera ottima: da vedere assolutamente l'inizio, con l'intrecciarsi di diversi piani di racconto durante un viaggio in metropolitana, ma anche i frequenti e brevi carrelli ad inserire in una scena nuovi personaggi ed elementi, il tutto supportato da una bella fotografia e da un montaggio perfetto. Buona anche la recitazione di Marié Bakò nella parte di Pabe. (F.T.B.)
Rocco e i suoi fratelli (1960) di L. Visconti Trama del film:
La vedova Rosaria Parondi (Katina Paxinou), lascia con i suoi quattro figli, il paese in cui era nata nella Lucania, per trasferirsi a Milano. Qui vive già il figlio maggiore Vincenzo (Spiros Focas).
Questi costretto dalla madre ad occuparsi della famiglia, pregiudica il suo futuro matrimonio.La famiglia trova una sistemazione in un seminterrato in periferia, conoscono Nadia (Annie Girardot), una ragazza di strada, che prospetta loro la possibilità di arricchirsi con la boxe. Simone (Renato Salvatori) si dedica con passione alla nuova professione ma dopo un incoraggiante inizio, finisce per entrare negli ambienti della piccola malavita.
Il cammino della speranza di P.Germi (Ita, 1960) L'odissea di un gruppo di siciliani che, dopo la chiusura della zolfatara, partono verso il nord finché, dopo varie peripezie, passano clandestinamente il confine con la Francia. Poteva essere, ma non è, il Paisà della disoccupazione postbellica perché è un compendio di temi melodrammatici più che neorealistici. Troppo colore e folklore e ridondanza, ma anche vigore, dolente visione del penare umano, sincerità nella rappresentazione di una povertà rabbiosa con qualche bella pagina. Scritto dal regista con Fellini e Tullio Pinelli e tratto dal romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria. Orso d'argento a Berlino