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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
Per una alternativa allo sviluppo
P.zza A. Paleario 7
03100, Frosinone
ccp 10687036

   

RASSEGNA DI FILM SUL LAVORO

   
My name is Joe di K.Loach (GB, 1998) Drammatico. "My name is Joe" fa parte della marea di titoli inglesi che invadendo ultimamente le nostre sale, fanno parte della cosidetta rinascita del cinema britannico. L'idea (fin'ora decisamente riuscita) e' quella di puntare su prodotti medi di buona qualita', generalmente commedie agro-dolci su problemi attuali: la disoccupazione soprattutto (vedi "Grazie signora Tatcher" o "Full monty"). Quest'ultima opera di Ken Loach, in linea col trend di qui sopra, parla di un disoccupato, ex-alcolizzato (Peter Mullan, premiato a Cannes) che sopravvive grazie ai servizi sociali e a lavoretti vari. La sua vita si risolve nell'allenare una squadra di calcio provinciale a cui tiene in modo quasi ossessionante. Arriverara' a rischiare la sua stessa vita per tirar fuori da una brutta vicenda di droga e malavitosi uno dei giocatori (ma il finale sara' prevedibilmente tragico). Ambientato in una Glasgow grigia e uniforme, "My name is Joe" spazia da scene di dubbio humour inglese (come quella della macchina rovinata dalla vernice del protagonista), a storie d'amore e drammi piuttosto stereotipati. Il lato tecnico e' decisamente ben curato (come al solito nei film inglesi), ma l'originalita' quasi assente. Comunque sia, il film si lascia guardare e riesce a coinvolgere lo spettatore fin dall'inizio. Come ci si aspettava, "My name is Joe" e' un prodotto medio di buona qualita'.In questa più verace vena civile si colloca My Name is Joe, che vive della sofferenza e degli aneliti di serenità di Joe Kavanagh, ex alcolista, il quale vive col sussidio di disoccupazione e si dà da fare per tenere alto il morale (e il gioco) della squadra di calcio dei giovani del quartiere. Siamo a Glasgow, gli anni sono sempre questi fatidici di fine secolo, segnati, per il proletariato britannico, dalla disoccupazione e dalla droga, dal degrado sociale e dai soprusi. Joe sembra esserne fuori, ha anche la fortuna di conoscere Sarah, un'impiegata del dipartimento di sanità, con la quale costruisce un inaspettato (vista la differenza di classe) legame sentimentale. Ma uno dei ragazzi della squadra, Liam, è nei guai: uscito da poco dal carcere e dalla tossicodipendenza, con una moglie che ancora si buca ed un bambino che rischia di essergli sottratto dall'assistenza sociale, deve vedersela col racket locale a cui è debitore di una grossa somma di denaro. Per aiutarlo Joe (un formidabile Peter Mullan, vitale e comunicativo) arriva ad invischiarsi in traffici illegali, compromette il suo rapporto con Sarah, perde le staffe, sfida il boss locale, si riaffida alla bottiglia...
L'escalation di destabilizzazione e disperazione che investe Joe è descritto da Loach con quel suo magico tocco di lievità documentarista, di spontaneità d'affetti, di intensità di sguardi, situazioni, emozioni. Nella sceneggiatura del fido Paul Laverty ogni quadro ha un suo spessore narrativo, ogni aspetto del vivere dei personaggi è intriso di un'intima valenza civile. In My Name is Joe valori come l'amicizia, l'amore, la solidarietà emergono con naturalezza nella radicalità del racconto ed anche quando lo schermo trasuda l'angoscia di una ineluttabile, tragica conclusione, la scrittura cinematografica sa coniugare il cupo fatalismo del dramma con un finale carico di umanità e di speranza. Se vi eravate convinti che la verve sociale del cinema britannico si fosse esaurita nella scanzonata trasgressione di Full Monty, tornate con i piedi per terra con My Name is Joe. Cinema e testimonianza civile, coerenza d'ideali e passionalità filmica per Loach hanno ancora un senso compito.la trama - Joe è un ex alcolista, disoccupato, che allena la peggiore squadra di calcio di Glasgow. Anche se agli occhi del mondo è un perdente, non rinuncia a lottare per aiutare e difendere i suoi giovani pupilli: in particolare Liam, innamorato di Sabine. Attraverso i due ragazzi, Joe conosce l'assistente sociale Sarah e se ne innamora...
il commento - Ken Loach afferma che i suoi film riguardano sempre relazioni tra le persone, quindi sono tutti film d'amore. Dopo "La canzone di Carla", l'amore tra un uomo e una donna è di nuovo il tema centrale di "My name is Joe": senza che Loach perda affatto di vista l'ambiente, gli altri personaggi o il senso della realtà (sociopolitica) odierna. La sua forza è la chiarezza del punto di vista, unita alla volontà di continuare a raccontare le storie di eroi della "working class" (o della "workless class"); vite non smaglianti, spesso infelici, ma che meritano di essere vissute e possiedono intensità, grandezza, tragicità e allegria insieme. Non è certo la prima volta che il cinema britannico ci racconta storie di proletari emarginati, di alcolismo, di squadre di calcio e di redenzione. Ma Loach si muove con la destrezza di un ballerino nell'evitare i pericoli del pietismo, della condiscendenza, dell'invettiva politica o della cronaca verista. Il regista ama i propri eroi, li fa lottare e intanto regala loro storie d'amore. Come il George de "La canzone di Carla", Joe è un uomo vitale, che non si arrende mai, capace di amare e di battersi fino in fondo. I suoi momenti di felicità, il suo entusiasmo e le sue ire sono contagiosi: anche per merito dello straordinario Peter Mullan, meritatissimo premio per la migliore interpretazione a Cannes. "My name is Joe" è un dramma, un film d'azione, un film d'amore, a tratti anche una commedia. Riuscire a sposare in modo così naturale il dramma. Riuscire a sposare in modo così naturale il dramma con i tocchi umoristici e sentimentali non è cosa che riesca a molti. Un merito che va riconosciuto a Ken Loach.
Sabato sera, domenica mattina di K.Reisz (GB, 1960)  
Nuvole in viaggio di A.Kaurismaki (Fin, 1996) Sceneggiatura: Aki Kaurismaki
Interpreti: Kati Outinen, Kari Vaananen, Elina Salo
Durata:
Paese: Finlandia
Anno: 1996 Titolo originale: Drifting Clouds

Una capo cameriere di un piccolo albergo viene licenziata perché le banche hanno tolto il credito alla padrona e una catena di fast food diventa il nuovo proprietario. Anche il cuoco e i camerieri sono licenziati. Il marito della capo cameriera viene licenziato dall'azienda di tram della città perché alcune linee non rendono più. I due vagano in cerca di lavoro da un posto all'altro, attraversando varie vicissitudini, fino quando alla padrona dell'ex ristorante viene l'idea di rimettersi in affari e aprire un ristorante di lusso che attira clienti.

La recensione di Paolo Vernaglione
Il lavoro, la città, il deserto
Nuvole in viaggio del regista finlandese Aki Kaurismaki - già apprezzato in Italia per Calamari Union (85), Ariel (88), Leningrad Cowboys go America (89) e I Hired a contract Killer (90) - è un film eccezionale. Il migliore visto finora nel 97 e uno dei migliori degli ultimi anni.
In un'atmosfera spoglia, caratteristica del regista, in cui si inventano amarissime gag di follia quotidiana, in un set devastato dall'aria cittadina di non lavoro che la storia racconta, si stagliano le grandissime figure della coppia Ilona (Kati Outinen) e Lauri (Kari Vaananen), marito e moglie che acquistano a rate il tv color e si vedono, nel giro di cinque minuti, trascinati sul lastrico come niente fosse.
La banca ha un consiglio di amministrazione criminale, lo stato è assente nonostante il sussidio di disoccupazione. Nuvole in viaggio parte con una citazione da Aurora: lui va a prendere lei col tram dell'ultima corsa, per indicare uno spazio comune di Mitteleuropa prima di qualsiasi eventuale unificazione monetaria. Il ristorante Dubrovnick ammicca ad una Jugoslavia di cogestione e località turistiche, precedente la guerra, mentre nelle vite dei due personaggi si agitano i fantasmi della crisi sociale e di sistema dell'economia capitalista che ricorre alla globalizzazione per autorigenerarsi. Attenzione però.
Nel film c'è Fassbinder, non l'asse estetico-politico Vienna-Berlino-Hollywood, l'artigianalità geniale che mette a nudo i rapporti di classe e non la fabbrica per l'esportazione dell'immaginario. Fa star giustamente male, Nuvole in viaggio, perché quelle piccole vite simil anni Cinquanta riproducono alla lettera i pensieri e terrori della gente, oggi, nel 2000. Senza bisogno di essere operaio, giovane o rivoluzionario. Così ti mette a rischio come spettatore un attimo prima che l'inevitabile battuta risolutiva ("mi hanno licenziato", "ho perso il lavoro", "non sono stato assunto perché sordo" etc.) si abbatta sulla sequenza e la laceri, la polverizzi in un atroce crescendo di crudeltà.
E' il primo film (europeo) di fiction sulla disoccupazione anni 90 (come Roger and Me in America lo è stato per il decennio Reagan-Bush). E' sfolgorante nella sua acuta povertà e luminescenza di quei verdi e giallo ocra degli esterni del tram e degli interni con divano comprato a rate. E' terribile, ammaestrante, devastato dall'evidenza bellissima di un passato preindustriale che oggi, nel post, diventa forma mentale di guardare, di camminare, di parlare.
Kaurismaki crea la sinfonia della perdita mentale e materiale del lavoro narrando i centri nevralgici di ogni via crucis della disoccupazione: mobilità, indennità di disoccupazione (rifiutata), ricerca di un lavoro, qualsiasi cosa purché sia, umiliazione, fame, povertà e ubriachezza, mentre le banche sono sempre più ricche e strozzine.
Insopportabili per bravura i due attori: lei, mitica costruttrice di qualcosa che non c'è quando tutto è perduto; lui, martire che ascende in cielo lungo le tappe di una santificazione che presuppone emarginazione e spossessamento di sé. Ma soprattutto c'è la freddezza acuminata di poche, lucide, essenziali battute che valgono un saggio sulla civiltà del lavoro che oggi nessuno si azzarda a fare.
Nuvole in viaggio fa vedere tutto, compresa la scommessa e la vera alternativa al capitale, il lavoro autogestito, in cui lo stesso gruppo di amici che è stato licenziato abbandona la strada, il bicchiere, la disperazione e lo stato. E mette su un posto in cui si cucina e si mangia bene.

Curiosità
Ipse dixit
"Questo film" racconta Aki Kaurismaki, "è stato scritto durante una bufera di neve sette mesi prima delle riprese e parla di persone all'antica in questo mondo moderno.. Il vero tema del film è la disoccupazione, esaminata più dal punto di vista mentale che da quello economico... La situazione della disoccupazione in Finlandia, così come nella maggior parte del mondo, influisce talmente sulla psiche umana che sono convinto che un film su questo argomento in questo specifico momento non possa avere altro scopo che dare speranza, documentando la realtà allo stesso tempo".

"...Le persone parlano della disoccupazione giovanile perché i giovani sono realmente le vittime. Se un giovane non riesce a trovare un lavoro nei primi tre anni dal completamento della scuola, gli risulterà sempre più difficile imparare un qualsiasi mestiere....". "...Non sarei mai riuscito a descrivere questa recessione creando il diario del disoccupato, dove il cattivo è sempre il datore di lavoro. Questa situazione tocca tutti noi. Il nemico è invisibile e io dovevo riuscire a rendere l'idea".

Marius e Jeannette di R.Guedigujan (Fra, 1997)
Durata: 102 m Regia: Robert Guédiguian CASTAriane Ascaride, Gérard Meylan

E una storia d'amore tra poveri che vivono nel quartiere popolare di Estaque a Marsiglia. Marius fa il guardiano in un cementificio in disuso e Jeannette tira su due figli di due uomini diversi con uno stipendio di cassiera. Fanno da coro i vicini di casa con le loro liti familiari, le loro confidenze E una favola realistica ma senza retorica né demagogia populista, una commedia di quartiere con molta luce, una ventata di aria fresca con personaggi amabili, credibili, raccontati con un affetto che non esclude l'ironia. L'incanto e la vitalità del film nascono dalla sapienza con cui R. Guediguian sa mescolare il buffo e il tenero, la commedia e il melodramma.

La fiammiferaia di Kaurismaki (Fin, 1990)  
Il maestro di Vigevano di E.Petri (Ita, 1963) Antonio Mombelli, maestro in una scuola elementare di Vigevano, è un uomo semplice e contento della propria condizione seppur modesta. La centrale1.jpgcentrale1.jpgmoglie Ada, invece, è una donna ambiziosa e smaniosa di cambiar vita tanto da convincere Antonio ad abbandonare il suo amato mestiere e ad intraprendere un'attività artigianale investendo i soldi della liquidazione. La vita dei Mombelli cambia del tutto, non solo dal punto di vista economico, fino a quando la redditizia impresa non dovrà chiudere a causa di un'indagine fiscale. Per Antonio è l'inizio della fine: al fallimento della sua attività segue anche l'amara scoperta di non essere mai stato amato e di essere tradito dalla moglie. Ma il crudele destino continua a perseguitare il povero Antonio: rimarrà, infatti, solo a causa della morte della moglie.
Clock watchers di J.Sprecher (USA, 1997) Fa piacere incontrare ogni tanto un piccolo film indipendente. "Tredici variazioni sul tema" fa parte di questa categoria. La regista Jill Sprecher racconta cinque frammenti di esistenze neworkesi sospese tra la solitudine e la ricerca della felicità.

C'è John Turturro, professore di fisica che lascia la moglie per cercare in un nuovo amore la possibilità di cambiare vita; c'è Amy Irving, la moglie che scoperto il tradimento resta sola; c'è Alan Arkin, capoufficio che non sopporta il sottoposto sempre di buon umore e che non riesce a instaurare un rapporto col figlio tossicodipendente; c'è Matthew McConaughey, rampante avvocato di buona famiglia che vede crollarsi il mondo addosso dopo avere investito con l'auto una ragazza; e c'è Clea Duvall, la vittima dell'incidente, giovane addetta alle pulizia che in seguito all'investimento cambia la sua ottica sulla vita.

Le storie si incrociano seguendo uno sviluppo non cronologico. Passato e presente si alternano senza soluzione di continuità evidenziando di volta in volta particolari che permettono di fare luce sulle vicende.
Le "Tredici variazioni sul tema" sono introdotte da altrettanti capitoletti i cui titoli riprendono alcune battute del film che servono da chiave di lettura. Il film scorre lieve seppure molto intenso e i livelli di comprensione si succedono e si sovrappongono.

La Sprecher che ha scritto la sceneggiatura con la sorella Karen non fornisce risposte sul significato della vita o sulla ricerca della felicità. Racconta piccoli frammenti di vita immersi in una aura di pessimismo nella quale aggiunge piccoli gesti che virano verso un maggiore ottimismo. Siano essi un sorriso, una battuta, uno sguardo, un aiuto non richiesto. Le due sorelle sembrano avere imparato in pieno la lezione di Kieslowski: la vita può cambiare, può andare in una direzione o in un'altra, proprio grazie a una coincidenza, a un gesto, al caso. A noi non resta che seguirla o provare a dirigerla.
Nei titoli di coda, tra i vari ringraziamenti segnaliamo quello al Torino Film Festival che nel 1997 incoronò come miglior film l'opera prima di Jill Sprecher "Clockwatchers".

Il cammino della speranza di P.Germi (Ita, 1960) In questo film Federico Fellini collabora al soggetto e alla sceneggiatura.

Un gruppo di poveri siciliani senza lavoro parte verso la Francia, in cerca di un futuro migliore. Hanno pagato un tale per passare il confine clandestinamente, ma questi tenta la fuga e pur ripreso da Vanni, si vendica denunciandolo. Il gruppo è rispedito al paese, ma alcuni tentano di proseguire il difficile viaggio. Riusciranno a raggiungere la meta, a costo di dolorosi sacrifici.

L'età inquieta di B.Domont (Fra, 1997) Freddy vive a Bailleul, Nord. Freddy è senza lavoro, epilettico, ama con una forza selvaggia una certa Marie, cassiera di supermarket. Freddy ha un gruppo di amici come lui, che rastrellano le strade vicine con delle moto scassate, vivono in un'incoscienza testarda, un'implacabile discesa agli inferi: la morte, la paura, l'aggressione sessuale, l'assassino razzista, e forse la redenzione.
Dopo la discesa verso il male, c'è un movimento verso il pentimento e la grazia. Non è un film disperato, mostra il nero che è in noi, ma c'è una piccola luce che può accendersi… Freddy è uno stronzo, ma non si rende conto di quello che ha fatto. La pietà è un sentimento naturale che ci inclina l'uno verso l'altro. Alla fine del film, io provo pietà per Freddy, il mio amore per l'umanità si esprime in quel momento. Bisogna amare il prossimo e io amo Freddy, anche così sporco.
(Bruno Domont, dossier della stampa del film)
La Vie de Jésus è un film di una brutalità estrema, dall'immagine dei gesti che descrive, che conducono all'abominevole… non è un film pensante, né bene né male, fortunatamente, ma di cinema pensato, un po' troppo a volte, sul quale planano le ombre di Bresson e Pialat.
(Pascal Mérigeau, Le Nouvel Observateur, 5 giugno, 1997)
RICOMINCIA DA OGGI
(ÇA COMMENCE AUJOURD'HUI)
CAST TECNICO ARTISTICO
Regia: Bertrand Tavernier
Sceneggiatura: Dominique Sampiero, Tiffany Tavernier e Bertrand Tavernier
Fotografia: Alain Choquart
Scenografia: Thierry François
Costumi: Marpessa Djian
Musica: Louise Clavis
Montaggio: Sophie Brunet
Prodotto da: Alain Sarde & Frederic Bourboulon
(Francia, 1999)
Durata: 113
Distribuzione cinematografica: Bim
PERSONAGGI E INTERPRETI
Daniel: Philippe Torreton
Valeria: Maria Pitarresi
Samia: Nadia Kaci
Signora Delacourt: Françoise Bette

Qualche tempo fa Bertrand Tavernier dichiarava alla stampa di stare realizzando un nuovo film, tutto incentrato su "quelle persone di cui non si parla mai come gli insegnanti e gli educatori, sui quali, però, è fondata la nostra società". Ed ecco il regista francese nel suo nuovo lavoro Ricomincia da oggi calarsi nella realtà di una scuola dove problemi di ogni genere sono all'ordine del giorno.
Il protagonista, Daniel Lefebvbre, è il direttore di un asilo nido a Hernaing, cittadina situata nella regione mineraria di Valenciennes, un tempo prospera e felice, ora desolata e improduttiva. Tra gli abitanti della zona il tasso di disoccupazione è altissimo e molte famiglie vivono nel più totale degrado sociale, abbandonate anche dalle istituzioni. Di fronte a questa situazione, Lefebvre reagisce come può: cerca di aiutare i suoi allievi, li coccola, li nutre, li protegge, lotta fino alla fine e ogni tanto deve rassegnarsi all'evidenza e all'impossibilità ad agire.
In quest'ultimo film Tavernier non tradisce la sua essenza più profonda che lo ha contraddistinto in tutti suoi lavori: la capacità di scandalizzarsi. Nel regista francese non c'è un'indignazione spicciola, che si accontenta della denuncia sociale, ma una vera rivolta dell'anima. Ricomincia da oggi è un film arrabbiato contro tutto e tutti. Contro la società, pronta a costruirsi dei facili nascondigli, pur di non entrare in contatto con realtà poco piacevoli. Contro lo stato, che resta insensibile di fronte al grido di aiuto dei poveri. E per ultimo, il film è un atto di accusa per tutta l'umanità, che permette che alle soglie del terzo millennio esistano anche nella civilissima Francia famiglie che vivono in baracche, senza elettricità, senza riscaldamento e che si nutrono fino alla fine del mese di biscotti inzuppati nel latte. In questo contesto, Tavernier riesce a realizzare un film sobrio, ma allo stesso tempo duro, che non cade mai in facili pietismi. Nel lavoro di Tavernier tutto è sincero e vero, a partire dalla splendida prova di Philippe Torreton, lo avevamo lasciato soldato sprezzante del pericolo in Capitaine Conan (1996), lo ritroviamo qui in tutta la sua fisicità, come se avesse trascorso l'intera esistenza in un asilo nido.
Per realizzare il film, il cineasta francese ha incontrato realmente alcuni insegnanti che quotidianamente si danno da fare, anche se Tavernier rivendica il soggetto come completamente di fantasia, pur di risparmiare ai veri protagonisti la vergogna di dovere rappresentare ancora una volta i drammi della propria esistenza di fronte alla cinepresa.

Daniel, il protagonista di Ricomincia da oggi, è il direttore della scuola materna di Hernaing, cittadina di una regione mineraria ormai in crisi, appassionato sia al suo lavoro coi bambini che nella volontà di risolvere quei problemi della comunità che ricadono pesantemente sulla vita e sulla coscienza dei suoi piccoli scolari. Colpisce, nel succedersi delle scene e dei momenti, la straordinaria concretezza dell'approccio di Bertrand Tavernier, tra il drammaturgico e il documentaristico, l'accumulo di situazioni via via più problematiche e pressanti e l'incrollabile testardaggine con cui Daniel le affronta, favoriscono il paragone con i film di Loach ma il "franco-americano" Tavernier ha in più un anelito alla poesia che è tutto suo e a cui non rinuncia nonostante la crudezza della storia. Viene in mente Loulou, il poliziotto protagonista di Legge 627 che girava filmini matrimoniali in cui cercava di mettere qualcosa di suo. Anche Daniel cerca sfoghi ulteriori alla sua fremente umanità e scrive poesie, magari un po' rudi ma fortemente espressive. E Tavernier non rinuncia ad una narrazione sapientemente modulata, che guarda un po' ai generi. Daniel è un insegnante che si muove in una storia che potrebbe essere quella di un poliziotto: un personaggio che lavora "sul campo", osteggiato dal pavido immobilismo dei superiori, burocrati di scarsa consapevolezza, con una vita privata che si complica (vive con la sua compagna, il cui figlio è pronto a rinfacciargli di non essere suo padre; ha un padre con problemi di cuore con cui i rapporti sono molto freddi) e viene a contatto con una realtà sociale ed umana, quella delle famiglie dei bambini, che sembra sul punto di crollare ad ogni minimo accenno di debolezza da parte di Daniel. C'è molto Loulou in Daniel. Tavernier però ci mostra e ci fa "sentire" anche dov'è che nasce la passione di Daniel per il suo lavoro, cioè dal contatto coi bambini. Nel grigiore della cittadina mineraria, i bambini e le aule in cui studiano e giocano sono di un'accesa policromia. Nei giochi in classe Daniel è capace di coinvolgere e affascinare il suo piccolo pubblico, che la macchina da presa segue da molto vicino, indagando su espressoni e movimenti registrati in maniera fintamente casuale, cronachistica ma non documentaria. Alla fine, quando il suicidio di una madre coi suoi due bambini sembra svuotare di senso tutto il lavoro di Daniel, è la sua compagna Valeria a sostenerlo. Il cortile della scuola, pieno, stracolmo di bottiglie trasparenti piene di colore preparato per dipingerlo, e le facce dei bambini in primo piano che guardano in macchina riempiono ancora una volta questo senso, quello di farne uomini liberi.

Una storia vera di David Linch; Tutti conosciamo spazi misteriosi, ci sono cose nella vita che vengono percepite, sentite, più che conosciute razionalmente. Spesso riceviamo segnali che ci dicono che le cose vengono da lontano, da un prima, non stanno semplicemente accadendo in quel momento. Sono segnali che arrivano dalla mente, da spazi nascosti, non sai cosa ci sia veramente dietro la porta, in fondo a quel corridoio buio che ti inghiotte, ma puoi immaginarlo. E io faccio cinema per aprire quella porta sul nulla." --David Linch---

Se vi sedete sulla poltrona della vostra sala preferita e non sapete chi sia David Linch, il regista di questo film, rischiate soltanto di trovarvi davanti ad un piccolo capolavoro. Se invece conoscevate già il caro Lynch allora rimarrete anche un bel po' stupiti. Da chi ha alle spalle film come "The Elephant Man", "Velluto Blu", "Cuore Selvaggio", tanto per citarne tre, non ci si aspetta un film così. Ci si aspetta una pellicola più cupa, morbosa, eccessiva. Ci si aspetta si, la provincia americana, ma non quella dei campi lunghi su distese di grano, ci si aspetta un colore, ma non certo l'azzurro...

Superato lo stupore, veniamo al film. Alvin Straight ha più di settant'anni, vuole andare a trovare il fratello che non vede da anni e che ultimamente ha avuto un piccolo infarto. Alvin abita nello stato dello IOWA. Il fratello Lyle invece abita nel Wisconsin. Guardate sulla cartina degli Stati Uniti quanto distano i due stati, per favore. Alvin decide di partire. Alla guida di un tosaerba. Centinaia di miglia. Su un tosaerba. È un road-movie, un lungo percorso che attraversa il tempo più che lo spazio, una storia raccontata dagli occhi e che va ascoltata con gli occhi. Ci ritroverete dentro non solo la vita di Alvin, che scoprirete poco a poco, ma anche la vita tout-court, quella di tutti che spesso si riconosce nel dolore o nel ricordo comuni. Alvin ha un tempo diverso dagli altri, è il tempo della riflessione se vogliamo, o forse è il tempo di chi non si affanna alla ricerca di mille cose perché sa che quelle che contano sono molte meno.

Due ultime piccole annotazioni: primo, fate caso al titolo originale "The Straight Story" tradotto come 'Una Storia Vera' qui in Italia. Straight vuol dire 'diritto', 'eretto', ma anche 'onesto', 'leale', 'franco' ma guarda caso è anche il cognome di Alvin... secondo: le musiche del film sono di Angelo Badalmenti. David Lynch....Angelo Badalamenti...Twin Peaks! Già la piccola serie televisiva ideata da Lynch e da lui diretta nella prima e nell'ultima puntata fu un primo assaggio di quanto questa accoppiata fosse perfetta. Le musiche sono davvero belle anche se in alcuni momenti forse un po' troppo didascaliche.

Rosetta di Jean-Pierre e Luc Dardenne;

La giovane Rosetta viene licenziata e a nulla serve la sua furiosa reazione a questa decisione. Rosetta torna al campeggio alla periferia della città, dove vive insieme alla mamma, donna debole dedita all'alcool e ad occasionali prestazioni sessuali. Per mettere insieme qualche soldo, la ragazza vende alcuni abiti, poi riesce a trovare un nuovo lavoro. La mamma fugge dalla roulotte e scompare. Rosetta va a casa di Rigaud, che lavora con lei. Lui le offre la cena e una stanza per dormire. Prima di addormentarsi, Rosetta dice a se stessa che in questo modo lei può avere una vita normale. Il giorno dopo però al panificio perde il posto. Allora denuncia al padrone Rigaud, che guadagnava di nascosto sulla vendita di frittelle. Lui viene licenziato e lei riassunta al posto suo. Rigaud vorrebbe vendicarsi, arriva al campeggio, cade in acqua, lei vorrebbe lasciarlo annegare ma poi lo salva. La mamma torna al campeggio ubriaca. Rosetta allora telefona al laboratorio e dice che non andrà più a lavorare. La mamma é a letto, lei apre il gas e la segue. Ma la bombola é finita. Allora Rosetta esce, va a comprarne un'altra, torna verso la roulotte. Qui arriva Rigaut, lei si ferma, lascia la bombola, lo guarda.

Nel 1996 il loro primo film, "La promesse" aveva ben impressionato per il vigore narrativo e la forza visiva con cui veniva delineata una drammatica vicenda di incomprensione e di sfruttamento. Un tema fortemente sociale, il lavoro, è al centro anche di questa seconda opera, nella quale però i fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne operano un leggero ma significativo cambio di approccio alla materia: la m.d.p. sta continuativamente e ossessivamente addosso alla protagonista, la pedina e la insegue, la schiaccia come una specie di 'soggettiva' continuata e implacabile. Rosetta aspira ad una vita tranquilla e metodica, ma il disadattamento la tallona di continuo: "Credo che si debba partire dalla miseria materiale per parlare di sgomento spirituale, solo così si può esasperare al massimo le situazioni per vedere le implicazioni morali che questo comporta" dice Luc Dardenne. Si tratta quindi di un film sul disagio, che non lancia accuse specifiche ma denuncia le zone d'ombra della società occidentale con le ferite che lasciano nel corpo e nell' animo dell'individuo. Dal punto di vista pastorale, si tratta dunque di un film da vedere con interesse, soprattutto nel la scelta finale di speranza tra la morte e la vita. Riserve per qualche passaggio un po' meno controllato, ma il tono é problematico e adatto a dibattiti.

Garage Olimpo (Italia/Argentina 1999)
Regia: Marco Bechis.
Sceneggiatura: Marco Bechis, Lara Fredmer.
Fotografia: Ramiro Civita. Montaggio: Jacopo Quadri.
Musiche: Jacques Lederlin.
Scenografia: Romulo Abad.
Interpreti principali: Antonella Costa, Carlos Echeverria, Chiara Caselli, Dominique Sanda, Enrique Pineiro, Paola Bechis.
Durata: 98'.
Produzione: Amedeo Pagani per Classic, Paradis Film, Nisarga.
Distribuzione: Istituto Luce.
La tragedia dei trentamila desaparecidos argentini rievocata da Marco Bechis

Garage Olimpo racconta la storia di Maria, una giovane oppositrice del regime dittatoriale argentino. Garage Olimpo racconta la storia del regista, Marco Bechis, che nel 1978 fu sequestrato e rinchiuso in un campo di concentramento di Buenos Aires.
Garage Olimpo racconta la storia di 30.000 desaparecidos che a partire dal 1976 sono stati imprigionati, seviziati, assassinati e "cancellati" dai militari argentini. Maria, una ragazza di 18 anni, insegna come volontaria ai poveri.
Rapita sotto gli occhi della madre, viene portata al "Garage Olimpo", uno dei 365 campi di concentramento attivi a Buenos Aires alla fine degli anni Settanta. In questo luogo, nascosto e inaccessibile, i carnefici diventano impiegati che timbrano il cartellino e, tra una tortura e l'altra, ascoltano canzoni e partite di calcio alla radio, giocano a ping pong, chiacchierano come vecchi amici. Si sa, anche l'inferno alla lunga diventa noioso e ripetitivo...
Tra gli aguzzini c'è Felix, un giovane un tempo ospite come affittuario della madre di Maria e di lei segretamente innamorato…

Risorse umane di Laurent Cantet Il momento più tragico di Risorse Umane è quando il giovane neolaureato Frank (Jalil Lespert, unico attore professionista del film), il primo giorno del tirocinio in azienda, si reca insieme al padre nella fabbrica dove il genitore ha lavorato per trent'anni. Il padre mostra con fierezza al figlio le mansioni alla pressa: aggiungere pezzi il più velocemente possibile, una mano esperta assicura in poche ore il montaggio di centinaia di componenti. Il suo compito ripetitivo che ricorda le immagini cinematografiche classiche, chapliniane, della catena di montaggio in Tempi Moderni del 1936, non può essere oggi, nel 2000, motivo d'orgoglio, figuriamoci di felicità. Su questo paradossale sentimento Risorse Umane, premio Cipputi al festival di Torino 1999, inizia un percorso di pedinamento zavattiniano della realtà, affidandosi allo stile rigoroso, tipicamente francese (di recente la cronaca dello sfigato maestrino in Ricomincia Da Oggi di Bertrand Tavernier), che irrita quando illustra una tesi, e giustifica l'obiettivo descrivendo in "sottrazione documentaristica", con inquadrature regolari, un ambiente ristretto: la fabbrica con gli uffici dei dirigenti, la rumorosa sala delle macchine, la mensa che visualizza le distanze tra quadri superiori ed operai seduti in banchi separati, le abitazioni anguste dei protagonisti, la piccola birreria, pochissimi e irrilevanti esterni uggiosi di una qualunque provincia francese della Normandia.

Al suo primo lungometraggio il regista trentottenne Laurent Cantet, che ha già diretto per Haut et Court Les Sanguinaires, episodio della serie 2000 Vu Par (Il 2000 visto da...), ha candidamente rivelato alla conferenza stampa di Torino, che non è stato mai operaio, e nemmeno la sua famiglia ha avuto lavoratori in fabbrica. Eppure dimostra una discreta sensibilità nell'affrontare temi tanto spinosi, anche se i sentimenti rappresentati sono del tutto anacronistici. L'alternativa alla fabbrica in realtà non esiste, il lavoro di quel tipo esula da ogni possibile gratificazione e dipende esclusivamente dalle esigenze della produzione.

Nondimeno Risorse Umane delinea chiaramente lo scontro inevitabile e forse un po' surreale tra due opposte mentalità. Quella del padre che crede nel valore appagante del suo lavoro e quella di Frank, che ha già superato tale prospettiva (davvero impossibile) e lotta per le trentacinque ore, fiducioso che tale opzione (ancorché corrisponda ai processi di globalizzazione del capitalismo più arrogante) garantisca condizioni più umane agli operai. Ma non è il distacco tra generazioni l'unica resistenza allo spirito riformista del giovane Frank. Infatti, è ancora, dalla parte operaia, la necessità economica, lo stato sociale di precaria sopravvivenza degli esseri umani, che sono giocoforza costretti ad accettare la logica dei padroni. La solidarietà sindacale anche di fronte agli imminenti licenziamenti si spezza: gli operai rientrano in fabbrica per iniziare una nuova giornata di lavoro, mentre i padroni continuano a studiare nuove strategie di sfruttamento delle "risorse umane".

RIFF RAFF di K.Loach "Quando siamo andati da Channel 4 a chiedere soldi per il film e abbiamo detto che era la storia di un gruppo di operai in un cantiere, si sono messi a ridere e ci hanno cacciato. Siamo tornati e abbiamo detto che si parlava di un cantiere, ma in realtà era un'allegoria della società. Allora sona stati più disponibili. In verità è un film sul lavoro edile"
L'"edilizia sociale" di un maestro del cinema inglese quale è Ken Loach (Poor Cow, Family Life) è un grido prima sommesso, poi disperato sulla situazione della classe operaia e del sottoproletariato inglesi, su chi vive la disoccupazione come uno stato di emarginazione congenito: gente che lavora sotto falso nome per non perdere il sussidio, che accetta condizioni igieniche e di sicurezza aberranti, che non può permettersi la depressione ("...è per chi ha i soldi, non per chi deve svegliarsi presto alla mattina"), ma che conosce la fatica e la solidarietà, la desolazione e la rabbia. Con uno stile asciutto, un taglio documentaristico e la grinta amara del vecchio free cinema Loach guarda con impotenza e disappunto il cinismo dispotico del sistema e fotografa con stupefatta ironia le fiamme della vendetta e della rivolta.
La sua voce e il suo far cinema hanno ancor oggi la stessa caustica forza di denuncia che avevano trent'anni fa: "Adesso la Tatcher non c'è più, ma non è cambiato nulla. La sua sostituzione è stata solo una manovra tattica dei conservatori per mantenere il potere... Nell'Inghilterra degli anni Novanta, tutta tesa a difendere e promuovere la sua immagine di democrazia liberale, i problemi sono gli stessi degli anni Sessanta"
Piovono pietre (Raining Stones)
Ken Loach - Gran Bretagna 1993 - 1h 31'
(CANNES:) ...Tutt'altra emozione quella che ha saputo dare un veterano inglese come Ken Loach (uno dei maestri del free-cinema degli anni '60). Il suo Raining Stones che ha condiviso con Il maestro di marionette il Gran premio della giuria, avrebbe meritato un riconoscimento più "personalizzato" in virtù di una straordinaria carica di realismo sociale che il cinema contemporaneo pare aver colpevolmente dimenticato. La storia è ambientata in un quartiere popolare inglese e descrive i guai che piovono (come le pietre del titolo) sulla testa del povero Bob, un disoccupato che fa di tutto per mandare avanti la famiglia, ma che non sa a che santo votarsi quando gli rubano il furgone, unica ancora di salvezza per una serie di lavori occasionali. Come se non bastasse la figlia Coleen deve fare la prima comunione e l'acquisto dall'abito bianco per la cerimonia lo costringe ad invischiarsi con usurai poco raccomandabili. Quando la situazione precipita Bob, da buon cattolico, non sa far altro che correre dal suo parroco a chiedere conforto... La grinta dei sacerdoti britannici può lasciare interdetti, ma il messaggio di fiducia e solidarietà che Loach sa trasmettere va di pari passo con la scorrevolezza del suo stile e con il calore e la simpatia che i suoi personaggi.
Squattrinati organizzati (The Full Monty)
di Peter Cattaneo - Gran Bretagna 1997 - 1h 31'
Proletariato e disoccupazione, maschilismo e trasgressione. Una commedia inglese di incredibile umanità e travolgente humor: l'ambiente proletario rimanda a Ken Loach, ma il gusto dello sberleffo è personale e dirompente...\proposte_essai/98pagine-celluloide.htm - FullMonty..\proposte_essai/98pagine-celluloide.htm - FullMonty Tra amarezza e ironia, lo spogliarello dei disoccupati di Cattaneo vale anche come simbolico steap-tease morale delle sicurezze del maschilismo britannico.
Ladybird Ladybird
Ken Loach - Gran Bretagna 1994 - 1h 42'
da CIAK (Stefano Lusardi)
Duro, inequivocabile, doloroso, profondamente umano: è il cinema di Ken Loach, testa pensante e fuori schema del cinema contemporaneo. Stavolta, non solo rinuncia ai tocchi di humour presenti in Piovono pietre, ma addirittura, massimo virtuosismo d'autore, si annulla per diventare semplice occhio/memoria storica di una storia di una storia vera e necessaria. Sappiamo come costruisce i suoi film: sceglie, con encomiabile acume, i suoi non attori - in questo caso la straordinaria Crissy Rock, che si esibiva come comico dilettante nei pub di Liverpool, e premiata quest'anno a Berlino - e sul set offre appena un canovaccio lasciando spazio all'improvvisazione e all'immedesimazione. Così Crissy Rock "è" Maggie, donna proletaria e scurrile, violenta perché cresciuta nella violenza, che ha avuto quattro figli da quattro uomini diversi e che, uno dopo l'altro, assieme ai due nuovi bambini che farà con un nuovo compagno, uomo tenero e giusto, le saranno sottratti da un'assistenza sociale che prosegue la sua opera con cieca e acritica burocrazia. Loach non sposa alcuna tesi, non giudica, si limita a mostrare il dolore di questa donna e la sua lunga inutile battaglia. Ma regala allo spettatore beni inestimabili: forti sentimenti, la capacità di dubitare, la voglia di pensare.
da La Repubblica (Paolo D'Agostini)

Ancora fermo, in questa impetuosa primavera creativa che lo conserva a 58 anni di età nel suo aspetto di regista ragazzino, Ken Loach sta fermo sulla barricata del disagio sociale, più determinato che mai a sventolare la bandiera degli indifesi e dei disgraziati, [...] a ricordare che a stare male, ad essere infelici sono tanti, stanno dappertutto ed hanno disperatamente bisogno di qualcuno che li rappresenti.
[...] La diversità di Ladybird verso gli altri e anche verso i precedenti film "sociali" di Loach è in questo straordinario personaggio: che non chiama alla commozione obbligata né a una facile solidarietà. E' aspro, violento, controverso. A momenti ci sfiora il sospetto che abbiano avuto le loro ragioni a ritenerla una madre inattendibile e pericolosa. Loach non si limita ad allineare, con un ritmo ossessivo che si aggiunge alla consueta impaginazione aspra, un cumulo di disgrazie: colpisce al cuore con i modi di un'inchiesta implacabile, che si astiene dal dare ragioni e torti, ma si interroga pietosa sul come si possa sopravvivere a tanto carico di preoccupazioni, senza preamboli né divagazioni si chiede come si possa sopportare il peso di tanto strazio.
E scegliendo ancora una volta degli eroi un po' spenti e ingrigiti, né giovani né vincitori, ma neanche del tutto vinti, umili e fieri combattenti della guerra che va dalla mattina alla sera, rispetta il loro diritto alla vita. Anche il diritto di Maggie a urlare finché ha fiato.

La classe operaia va in paradiso di Elio Petri