La
società normale: conformismi, ipocrisie, intolleranze.
Martedì
3 aprile ore 21.00
Boys don't cry
Kimberly Peirce (USA, 1999)
Scheda
da Tempi Moderni
Sceneggiatura
e Regia: Kimberly Peirce
Fotografia: Jim Denault
Scenografia: Michael Shaw
Costumi: Victoria Farrell
Musica: Nathan Larson
Montaggio: Lee Percy, Ace Tracy Granger
Prodotto da: Jeffrey Sharp, Johm Hart, Eva Kolonder, Christine Vachon
(USA, 1999)
Durata: 114'
Distribuzione cinematografica: 20TH Century Fox
PERSONAGGI E INTERPRETI
Brandon Tena: Hilary Swank
Lana: Chloe Sevigny
John: Peter Sarsgaard
Tom: Brendan Sexton
Kate: Alison Folland
Madre di Lana: Jeannetta Arnette
Boys dont cry è un film di Kimberley Pierce, una
regista che scoprì il caso Brandon Teena durante il corso dei suoi
studi universitari. Dalla ricerca sulla vita di questa ragazza la
Kimberley ne ha tratto un film (quindi diretto e sceneggiato) che
scoperchia la grezza provincia americana nascosta sotto la fragile
coltre del puritanesimo. Più che Badlands,
di Malick (1973), film spesso accostato a BDC, è La
Caccia, di Arthur Penn (1966), che può aver ispirato
il film. Perché Brandon Teena ha catturato e ossessionato la capacità
creativa della talentuosa film-maker Kimberly Pierce? Perché la
protagonista, nei primi anni 90, nello sconfinato mid-west
del grande paese, è una deliziosa, vivace ragazza priva
di famiglia, che percepisce una naturale pulsione per le sue coetanee
e, costretta ad occultare un attegiamento diabolico, per via degli
alcolisti reazionari del Nebraska, si veste da maschio, si tuffa
nella vita di una famiglia di simpatici sbandati come fosse una
nuova sorellina, vive la strada da scaltro teppista. Finché non
sarà scoperto il suo segreto, non prima di avere flirtato con le
ragazze del posto, instillando invidia nei suoi compagni di strada.
Il film, più che per
alcune sequenze di smaccato amore saffico, è tagliente nelle menti
degli spettatori per lansante, vitale messa in scena di Teena:
una ragazza che per non morire con la propria identità rischia la
vita. E il coraggio di Teena nel perseguire una missione di sopravvivenza
nel cuore ottuso dellAmerica, la regista lo evidenzia ad ogni
inquadratura in cui il volto da bel ragazzo della credibile e giovane
attrice Hilary Swank aggrotta gli occhi da duro o freme di terrore
al pensiero di essere scoperta. La storia è il veicolo su cui scorre
la sinnedoche del coraggio, che è lemblema fregiato sulla
fronte di Hilary-Teena, è un monito per tutte quelle persone che
si ritrovano in un corpo che non è il corrispettivo di quel che
le loro menti auspicano. Le immagini compiono dunque un ampio giro
realistico sulla country-side del Mid-West, dove al centro, come
lobelisco della Casa Bianca di Washington, spicca il momumento
di Brandon Teena.
Se ogni storia esemplare
sul piano antropologico trovasse registi capaci di riassumerla visivamente
con sintesi e intensità come la pellicola della Kimberley, forse
in futuro nascerà un cinema che tenterà di rappresentare il dolore
della umanità più che allentargli le borse. In America anche
i più piccoli, accompagnati dai genitori, possono vedere e discutere
questo film mentre in Italia è stato vietato ai minori di 18 anni.
Luigi
Senise
Venerdì 6 aprile ore 21.00
Festen Thomas
Vinterberg (DANIMARCA, 1998)
Scheda
da Tempi Moderni
Regia:
Thomas Vinterberg
Sceneggiatura: Thomas Vinterberg, Mogens Rukov
Scenografia: Anthony Dod Mantle.
Suono: Morten Holm
Montaggio: Valdis Oskarrsdottir
(DANIMARCA, 1998)
Durata: 106'
Distribuzione cinematografica: LUCKY RED
PERSONAGGI
E INTERPRETI
Christian:
Ulrich Thomsen
Helge: Henning Moritzen
Michael: Thomas Bo Larsen
Helene: Paprika Steen
Pia: Birthe Neumann
"Famiglie, io
vi odio!": dell'invettiva gidiana sembra imbevuto questo "Festen",
secondo lungometraggio firmato dal ventinovenne regista danese Thomas
Vinterberg ed incarnazione filmica degli enunciati di Dogma 95 assieme
ad "Idioten" (tra breve sui nostri schermi) di Lars Von
Trier, illustre propugnatore del manifesto d'intenti del collettivo.
In sostanza, i cineasti firmatari del documento s'impegnano a tener
fede ad una sorta di rigidissimo decalogo che impone la rinuncia
ad una serie di espedienti oramai d'uso comune (niente set o costruzioni
speciali, no a trucchi ottici e filtri, bandite le luci addizionali)
ed obblighi desueti, quali quello di servirsi esclusivamente della
camera a mano e di non apporre la propria firma al prodotto finito.
Si può sorridere di detti assiomi, che sembran riportare al cinema
diretto delle peraltro respinte nouvelle vague degli anni '60, ma
per ora c'è da inchinarsi di fronte ai risultati: infatti "Festen"
- nel raccontare la celebrazione in grande stile del sessantesimo
compleanno d'un patriarca altoborghese, devastata dalle accuse di
pedofilia e di provocato suicidio d'una figlia rivoltegli pubblicamente
dal primogenito nel corso della cena - compendia certa tradizione
del teatro nordico con la lezione bergmaniana (echi di "Fanny
e Alexander" sono assai avvertibili, segnatamente nel rapporto
fra la rigidità ed ipocrisia dei rituali collettivi ed il repentino
appalesarsi dell'occulto, del rimosso con esiti devastanti) in una
partitura che coniuga mirabilmente rigore e livore, intenti dissacratori
e sobrietà di mise en scene in virtù pure della superba resa d'un
affiatatissimo cast.
Peccato solo che il doppiaggio italiano, pur diligente, penalizzi
l'uso eccelso del suono ed alcune prove attoriali: sarebbe forse
stato il caso, per l'occasione, di prediligere l'uso dei troppo
temuti sottotitoli.
Francesco Troiano
Martedì 10 aprile ore 21.00
Happiness
Todd
Solondz (USA, 1998)
Scheda
da Close Up
Regia:
Todd Solondz
Sceneggiatura: Todd Solondz
Fotografia: Maryse Alberti
Scenografia: Therese DePrez
(USA, 1998)
Durata: 140'
Distribuzione cinematografica: LUCKY RED
PERSONAGGI
E INTERPRETI
Joy:
Jane Adams
Helen: Lara Flynn Boyle
Trish: Cynthia Stevenson
Bill: Dylan Baker
Allen: Philip Seymour Hoffmann
Andy: Jon Lovitz
Lenny: Ben Gazzara
Ann Chambeau: Marla Maples
Diane: Elizabeth Ashley
Mona: Louise Lasser
Solondz esce dal breve
e necessario transito per le morte gore della carineria indipendente
(Fuga dalla scuola media) e si cala in un affresco altmaniano
mezzo inacidito mezzo farsa con le dovute concessioni alleversività
sessuofila della Hollywood più recente. Singolare destino, per questo
ancor giovane e certo valido cineasta con una spiccata predilezione
per la "diversità", ritrovarsi in ciò uguale agli altri,
tra gli onanisti dello sguardo che si trastullano con le polluzioni
della loro falsa audacia. Del resto la castità dellocchio
non rientra nel bagaglio mainstream e Solondz è troppo poco
dogmatico per rimediare. Ma di eccezioni si tratta, perché
il film è ispirato e sa essere sgradevole davvero.
Mentre la società
normale procede per inerzia, grazie agli scarti di energia
di un privato schizoide e frammentato, i personaggi si imprigionano
nel loro sogno alienato di felicità oppure scontano limpossibilità
di aprirsi al Mondo. Chi ci prova i più carichi di speranza:
Joy e il molestatore Allen - finisce inghiottito dai tabù e dagli
ostacoli che regolano la vita monadica postmoderna. Nessuna riconciliazione
col sociale, nessun transito per lAltro (tantomeno sessuale),
cosicché i proletari, Joy e il suo studente-tassista russo, che
fanno lamore, in un film che annienta il sesso nella gabbia
del fuori campo assoluto, aprono uno struggente squarcio retrò,
quasi come un John Travolta e una Debra Winger che non trovino più
la chiave del melò per un Urban Cowboy del terzo millennio.
Intriso nel profondo di una disperazione masturbatoria che nessun
tipico paesaggio urbano non i residence e le ville a schiera
del New Jersey, non le assolate costruzioni della Florida
è in grado di riassorbire, Happiness riesce a sfuggire al
ricatto dellopzione morale, dissimula lartificiosità
della struttura a incastro nella necessità del dolore e nella irrecuperabilità
del buon selvaggio. Un altro film di idioti, dunque, meno sperimentatori
di quelli danesi, ma certo più avanguardisti.
Stefano Cappellini
Venerdì 13 aprile ore 21.00
Il
colore della menzogna Claude
Chabrol (Francia, 1999)
Scheda
da Tempi Moderni
CAST TECNICO ARTISTICO
Regia:
Claude Chabrol
Sceneggiatura: Odile Barsky, Claude Chabrol
Fotografia: Eduardo Serra
Scenografia: François Benoit Fresco
Costumi: Corinne Jorri
Musica: Matthieu Chabrol
Montaggio: Monique Fardolis
Prodotto da: Marin Karmitz
(Francia, 1999)
Durata: 108'
Distribuzione cinematografica: Bim
PERSONAGGI E INTERPRETI
Vivian
Sterne: Sandrine Bonnaire
Rene Sterne: Jacques Gamblin
Frederique Lesage: Valeria Bruni Tedeschi
Germain-Roland Desmot: Antoine de Caunes
Detective Loudun: Bernard Verley
Yvelyne Bordier: Bulle Ogier
Regis Marchal: Pierre Martot
M. Bordier: Noël Simsolo
Anna: Adrienne Pauly
In un villaggio di
pescatori della Bretagna, alcuni bambini trovano il corpo senza
vita di Eloise, una ragazzina di dieci anni. Una giovane donna commissario,
Frédérique Lesage (Valeria Bruni Tedeschi) conduce un inchiesta
con l'aiuto del poliziotto locale, Loundun. L'inchiesta stagna anche
perché tutti sembrano mentire o nascondere qualcosa, finché un secondo
omicidio finisce per paralizzare il paese
Tutto parte dal corpo senza vita di Eloise. Pochi abitanti, l'inchiesta
non dovrebbe essere difficile, ma le cose sono complicate dai rapporti
falsi e sotterranei che esistono, dal piacere che ognuno prova a
dare false piste al commissario pur di allontanare i sospetti da
sé.
Opposti al commissario,
troviamo una coppia di "forestieri": René, (Jacques Gamblin)
un pittore, e Viviane (Sandrine Bonnaire) un'infermiera, corteggiata
da Desmot (Antoine de Caunes), nativo del luogo, e brillante quanto
odioso divo del giornalismo televisivo. Desmot è l'attrazione del
villaggio, ha amici e conoscenze ovunque, somiglia a tanti noti
personaggi pubblici, protagonisti del nostro mondo televisivo. René
e Viviane sono un coppia in crisi, non essendo nati nel villaggio,
sono considerati degli estranei, ed inoltre Viviane, donna pratica
e con un forte carattere, ha una relazione con Desmot, ma non lascia
il marito, perché sa che ciò avrebbe un effetto devastante su di
lui.
Chabrol, con la sua
particolare prospettiva e il suo tocco leggero, ci dice che ognuno
resta un mistero per l'altro e per se stesso e che la verità è simile
ai quadri che dipinge René, quei trompe
l'oeil che ingannano con le finte prospettive ma
che comunque hanno una loro indiscussa solidità, così come le bugie
hanno la loro.
Claude Chabrol, sceneggiatore e regista, orchestra un giallo psicologico
e con un linguaggio essenziale riesce a parlare dell'uomo nella
sua accezione più profonda, segreta, ambigua, plurale.
Per questo si dedica ad un lavoro di scavo paziente, meticoloso,
certosino, ricavando immagini distillate dove ogni cosa è, ma potrebbe
anche essere altro, dove gli accordi musicali si fondono nella composizione
visiva in un sussulto di sensorialità avvolgente.
Memmo Giovannini
Martedì 17 aprile ore 21.00
La
mia vita in rosa
Alain Berliner
(BELGIO, 1997)
Scheda
da Tempi Moderni
Regia:
Alain Berliner
Sceneggiatura: Alain Berliner, Chris Vander Stappen
Costumi: Karen Muller Serrau
Musica: Dominique Dalcan
Montaggio: Sandrine Deegen
Effetti speciali: Sparx
Prodotto da: Carole Scotta
Durata: 85'
(BELGIO, 1997)
Distribuzione cinematografica: CECCHI GORI GROUP
PERSONAGGI
E INTERPRETI
Ludovic:
Georges Du Fresne
Hanna: Michèle Laroque
Pierre: Jean-Philippe Ecoffey
Elisabeth: Hélène Vincent
"Il film parla
di magia, sogni e speranza": su queste tre parole immortali,
soprattutto per il cinema, il regista Berliner ha costruito con
grazia un'opera non facile da dimenticare, qualcosa di diverso da
un film sull'omosessualità. Con leggerezza implacabile ha circondato
gli splendidi sette anni del piccolo Ludovic, che vive con la famiglia
in una benestante zona residenziale del Belgio e ama truccarsi e
indossare gli abiti della madre, di tanti, troppi sguardi incapaci
di varcare i limiti della propria meschinità. Gli stessi genitori
non fanno altro che sforzarsi imperdonabilmente di ricondurlo a
quella normalità che, se fosse termine ancora meritevole di discussione,
equivarrebbe allora a un concentrato di mediocrità, falso cameratismo
e ipocrisia. Aggiungendo magari la bruttezza: adulti brutti che
non se ne salva uno, uomini lontani da ogni tentazione e donne un
po' troie che s'adattano agli abiti (vietati a Ludovic) come le
due sorellastre di Cenerentola all'agognata scarpetta. Fosse per
loro il Belgio resterebbe un compagno della comunità europea del
quale non sappiamo niente e niente ci interessa sapere. Ma lo spiraglio
aperto da "La promesse" s'impone in tutt'altra chiave
e nonostante tutto, grazie agli occhi sereni del piccolo che accetta
la sua diversità ancor prima di riceverne un'approssimativa ma consolante
spiegazione "scientifica". "Io sposerò il mio amichetto
quando non sarò più un maschio" è l'atteggiamento innocente
che paga di persona in un'età in cui sarebbe ancora troppo presto
per pagare, ma è anche la determinazione che lo spinge a scappare,
a tentare ingenuamente il suicidio, a rifugiarsi tra le braccia
di una nonna troppo giovane dentro che, solo lei, sa trattarlo per
quello che è: un bambino. Con la benedizione di un'icona gay adatta
a quell'età, una bambolona della tv, mezza Barbie e mezza Anita
Ekberg, che vive in un fatato mondo di plastica colorata dove per
i sogni è ancora possibile trovare ospitalità.
Marco
Medelin
Venerdì 20 aprile ore 21.00
Tango
Carlos
Saura (SPAGNA, 1998)
Scheda
da Tempi Moderni
Sceneggiatura
e Regia: Carlos Saura
Fotografia: Vittorio Storaro
Coreografie: Juan Carlos Copes, Ana Maria Steckelman e Carlo Rivarola
(SPAGNA, 1998)
Durata: 105'
Distribuzione cinematografica: ISTITUTO LUCE
PERSONAGGI E INTERPRETI
Miguel
Angel Sola: Mario Suarez
Cecilia Narova: Laura Fuentes
Mia Maestro: Elena Flores
Juan Carlos Copes: Carlos Nebbia
Julio Bocca: interpreta se stesso
Juan Luis Galiardo: Angelo Larroca
Mario Suarez, ballerino
di tango a riposo forzato a causa di un incidente alla gamba, è
stato appena abbandonato dalla moglie Laura. Questo dolore è solo
un aspetto di una crisi esistenziale ben più ampia e complessa.
Quella di un uomo che non riesce ad accettare l'inesorabilità del
tempo che passa sulla sua pelle, la frustrazione per il suo fallimento
sentimentale, il desiderio di vita amorosa che sente crescere ancora
dentro di sé. Tutti elementi che riporta all'interno di un film
che dedica al tango e che ha come interpreti sua moglie, affermata
danzatrice, ed una rivelazione, bellissima e giovane. "Tango"
non ha una vera trama, al contrario. Probabilmente offre uno dei
mélo più tradizionali e prevedibili che si possano raccontare, con
una commistione continua fra vita privata ed attività creativa,
con spunti troppo scopertamente autobiografici per non considerarli
una fonte d'ispirazione. L'esilità della storia è spinta fino all'eccesso,
tanto da suscitare ragionevoli dubbi sulla necessità di inserirla.
Con tutte le implicazioni cui la banalità del triangolo sentimentale
si lega: attrazione per la giovinezza, drammi della gelosia, competizione
fisica e, in questo caso, anche artistica. Il vero protagonista
è il tango che è molto più di una danza: è il riflesso di una condizione
umana. I gesti si insinuano in un gioco di specchi, di luci ed ombre,
di profili stagliati su sfondi perlacei o rossi di passione. Movimenti
continui di gambe che si intrecciano, di corpi che si avvinghiano
e si sfuggono, di luci che sembrano essere movimento stesso. È un
film di luci e di colori, di bellissime musiche e di coreografie
suadenti e sensuali; è un film che rende omaggio alla fotografia
più che esserne servito, in maniera elegante e raffinata, e le permette
di dominare ogni fotogramma, non per fissare l'immagine, ma per
darle vita. In questo Storaro compie un lavoro di grande maestria
perché anticipa e sottolinea il movimento, prevede la melodia e
la piega alla luce. Forse la danza con le sue seduzioni avrebbe
potuto assorbire uno spazio maggiore: allora il quadro sarebbe stato
solo seducente e non incerto.
Elisabetta
Marino
Martedì
24 aprile ore 21.00
Il
tempo ritrovato
Raul Ruiz (FRA/ITA
1999)
Scheda da ReVision
PRODUZIONE:
Fra/Ita - 1999 -
Dramm.
DURATA:
162'
INTERPRETI:
Catherine Deneuve, Emmanuelle Beart, Vincent Perez, John Malkovich,
Pascal Greggory, Marie-France Pisier, Chiara Mastroianni, Arielle
Dombasle
SCENEGGIATURA:
Gilles Taurand - Raul Ruiz
(da "Il Tempo Ritrovato" di Marcel Proust)
FOTOGRAFIA: Ricardo Aronovich
SCENOGRAFIA:
Bruno Beauge
MONTAGGIO:
Denise De Casablanca
COSTUMI: Gabriella
Pescucci - Caroline De Vivaise
MUSICHE:
Jorge Arriagada
"Il passato si
conserva da sé, automaticamente. Non v'è dubbio: esso ci segue,
intero, istante per istante, tutto ciò che abbiamo sentito, pensato,
voluto fin dalla nostra prima infanzia è qui proteso sul presente
che sta per integrarvisi, e urge contro la porta della coscienza
che vorrebbe escluderlo". Marcel Proust aveva letto queste
penetranti osservazioni del filosofo Henri Bergson, contenute in
"L'evoluzione creatrice", tanto che la sua famosa opera
"Alla ricerca del tempo perduto" altro non è che il tentativo
quasi sovrumano di immobilizzare il tempo, di raccogliere le infinite
suggestioni del pensiero, dei ricordi, e trattenerli sulla pagina
scritta. L'ultima parte della Ricerca, "Il Tempo ritrovato",
racchiude le pagine più riflessive del protagonista alter ego di
Proust, sull'arte e la letteratura, vanità, narcisismo, ed insieme
necessità di sistemazione del proprio vissuto.
Raoul Ruiz si trova perfettamente a suo agio nell'elaborazione di
stimoli proustiani. Spinge la forma cinematografica verso l'iterazione
dello sdoppiamento, la frammentazione del mondo reale. Un tema a
Ruiz molto caro, fin dall'inizio e fino al suo ultimo lavoro Autopsia
Di Un Sogno, il cui titolo originale Shattered Image
"immagine scissa, frammentata", era molto più eloquente.
Ne Il Tempo Ritrovato i personaggi diventano immagini fantasmatiche,
percorrono i territori mentali del narratore. La realtà è talmente
mobile, inaccessibile, che Ruiz ne mostra tutta la fluidità, riprendendo
contemporaneamente Proust giovane ed adulto, e facendo scorrere
su quinte invisibili alcune porzioni dello scenario, teatralizzando
al parossismo ogni evento raffigurato. L'immagine così diventa sempre
immagine-tempo, il processo che svela le associazioni segrete della
mente umana, tutto il passato, come suggeriva Bergson, è sempre
presente. Eppure la storia d'ogni uomo è fatta inesorabilmente di
movimenti continui, di trasformazioni in atto, ogni istante è diverso
perché siamo cambiati rispetto ad un istante prima. Nel film la
successione di eventi raccoglie questa finale e drammatica sensazione.
Quella di perdersi senza punti di riferimento in questo fluire.
Marcel, e Ruiz lo asseconda, così raccoglie le immagini, i segni
che testimoniano l'associazione forse definitiva tra due istanti.
Come il manifesto della cioccolata ai Champs Elysées e nella spiaggia
di Balbec o il libro di George Sand trovato nella biblioteca dei
Guermantes e che la mamma gli leggeva a Combray. Due momenti, movimenti
che finalmente si ricompongono, per offrire all'uomo qualche debole
certezza, l'impronta fondamentale, l'impulso essenziale, per la
nuova creazione.
Andrea
Caramanna
Venerdì 27 aprile ore 21.00
Accordi
e disaccordi W. Allen (USA, 1999)
Scheda
da Primissima Web
Regia: Woody Allen
Con: Gretchen Mol, Sean Penn, Samantha Morton,
Uma Thurman
Distribuzione: Cecchi Gori
Durata: 95'
Penultimo film di
Woody Allen (l'ultimo "Small Time Crooks" è appena uscito
negli Usa) è un omaggio alla musica jazz, e su un artista capace
di coglierne lo spirito malinconico. È la biografia immaginaria
di un leggendario chitarrista jazz degli anni 30 Emmet Ray,
interpretato da Sean Penn. La vita di Emmet, le sue donne, gli ambienti
da lui frequentati durante la lunga gavetta, i locali dello swing,
tutto è raccontato con straordinaria verosimiglianza per ricreare
lo spirito di quegli anni. La giovane attrice britannica Samantha
Morton è Hattie, taciturna lavandaia compagna devota e inseparabile
di Ray. Le fa da controaltare una spregiudicata donna altoborghese,
bella e sofisticata, Blanche, impersonata dalla splendida attrice
Uma Thurman. In ruoli-cameo appaiono grandi nomi affezionati al
jazz, dal critico musicale Nat Hentoff allautore e regista
Douglas McGrath, fino allo stesso Woody Allen.
Curiosità:
Woody Allen compare in un piccolo ruolo, insieme allo sceneggiatore
Douglas McGrath e al critico musicale Nat Hentoff. Per Accordi e
Disaccordi, Allen ha smentito la fama di regista sedentario e si
è spostato in ben 85 location diverse. Il direttore della fotografia
di Sweet&Lowdown (bel titolo originale di Accordi e Disaccordi)
è il cinese Zhao Fei (Lanterne Rosse) che ha lavorato con Allen
senza imparare una sola parola di inglese. Malgrado ciò, Fei, Allen
e Santo Loquasto, lo scenografo con cui il regista collabora ormai
da qualche anno, hanno ricreato l'atmosfera anni'30 dalla leggendaria
44esima strada di New York ai jazz-club di Chicago. Woody Allen
ha scelto le musiche per il film insieme Dick Hyman; i brani di
Emmet Ray sono stati eseguiti da Howard Alden. La colonna sonora
include anche brani originali rimasterizzati di Django Reinhardt,
del violinista Joe Venuti e del chitarrista Eddie Lang.
Venerdì 4 maggio ore 21.00
Buena
vista social club W. Wenders
Scheda da reVision
Quello che il buon
Wim ha sempre sognato di fare. Un musical. O meglio, un film dove
la trama musicale si intreccia strettamente con la storia, anzi,
ne è il fondamento stesso. Le note fanno parte dello stile di Wenders,
come un portato necessario dell'immagine. La musica è cinema, a
modo suo. Ha incontrato Ry Cooder, il compositore delle atmosfere
sospese di Paris, Texas, e lo ha seguito facendo rotta verso
Cuba, dove il grande chitarrista ha unito le sue forze a quelle
dei più grandi performers locali, per un album chiamato poi Buena
Vista Social Club. Il recupero delle sonorità tradizionali ha caratterizzato
gran parte della carriera di Cooder, sin da quando negli anni'70
arrangiava a modo suo i grandi classici di Robert Johnson e Leadbelly.
L'esotismo cubano non era che una sfida diversa.
Wenders, uscito dal
ponderoso (e parzialmente vano) sforzo concettuale degli ultimi
lavori, ha ricominciato a fare andare la macchina da presa. Buena
Vista Social Club è così, una registrazione dell'evento senza
un progetto preciso. L'obiettivo che si deposita sui fatti, e li
sa far parlare. Documenta la nascita di un sodalizio artistico,
tra uomini che sanno vivere le loro emozioni musicali. Un piccolo
saggio sull'amicizia virile che sgorga dal pentagramma. Cattura
la magia nascosta di Cuba, senza troppo badare alle spigolature.
Restituisce l'emozione del concerto, l'attimo dell'esibizione, l'infinitesimale
spazio della creazione. Viaggia e scopre, in primo luogo, attraverso
un vuoto rassicurante. Spazi di realtà ritagliati dai contorni della
vita. Senza essere nulla di speciale, nulla di palesemente dichiarato,
Buena Vista Social Club costruisce mano a mano la sua reputazione.
Tanto per rimanere nel genere del "reportage sonoro",
ha la partecipazione di Mississipi Blues, di Bertrand Tavernier,
senza essere così indagatore, la sensazione di "contatto storico"
di Woodstock, senza averne l'epocalità. Un Wenders che si tiene
sempre un po' in disparte, a margine, che non racconta in maniera
così prepotente come è solito fare, ma lascia raccontare, e suonare.
Da questo strano intreccio esce un prodotto veramente "meticcio",
come una parte dei luoghi e della tradizione che rappresenta, un
oggetto non antropologico, non sociologico, non semplicemente documentale.
Lo si direbbe quasi involontario, o non intenzionale, se dietro
a quella macchina da presa non sapessimo che Wim Wenders ci sta
guardando. Una scelta del tutto antimoderna, quella di fare un film
che in nessun modo ammicca al linguaggio contemporaneo della musica
in video. Destinato forse a tediare i più, Buena Vista Social
Club rischia di essere classificato come buon esercizio di stile.
Ma è l'occasione per rivedere a tratti il Wenders "fotografo",
quello che come nessun altro sa sollevare la pelle delle cose sulle
quali posa l'occhio. Il regista che sa oltrepassare lo strato superficiale,
la patina del mondo, e che troppo spesso trasforma questo magico
momento in un'operazione retorica. Questo Buena Vista ce
lo restituisce più terreno, e più vicino. Al cinema.
Riccardo
Ventrella
Martedì 8 maggio ore 21.00
Velvet
goldmine
Todd
Haynes (1998)
Scheda non a cura di Oltre l'Occidente
Finiti i sogni e le
colombe degli anni Sessanta, il rock cullò i propri destini sui
vestiti sgargianti, il trucco e i lustrini. Dimenticato il buon
gusto, il glam
fu. Londra divenne la capitale di un genere eccessivo, che viveva
di enormi riff di chitarra e di qualsiasi genere di ambiguità. Sessuali,
doppie identità, travestimenti. Il grande Marc
Bolan ne fu il mentore e il martire, David
Bowie il profeta, Lou
Reed e gli Stooges di Iggy Pop alcuni dei discepoli.
Todd
Haynes, regista del salutistico e curioso "Safe",
indaga in " Velvet
Goldmine" questo mondo scintillante, perduto nella
memoria ma ancora "ascoltabile", come lo stesso Haynes
suggerisce nelle note di copertina della colonna sonora. E di un'indagine
vera e propria si tratta. Come in "Quarto potere", un
giornalista cerca di gettare nuova luce sulle vicende della glam-star
Brian, rimasto ucciso misteriosamente sul palco durante un concerto
dieci anni prima. Nel farlo, sfoglia le pagine di una vita eccessiva,
ed inevitabilmente duplice, segnata dai rapporti con l'ex-moglie
Mandy e con il rocker Curt. Per il giornalista, sarà anche un modo
di scavare nel proprio, morboso, passato. Poco a poco, si completa
il ritratto di questo periodo complesso, ricostruito da Haynes con
un'accuratezza maniacale. Rivivono l'estro di travestimenti molto
più che fantasiosi, il make-up sconvolgente (che potete, ovviamente,
acquistare
in versione personalizzata
per il film), le performances eccessive, la patina di sesso e sconvolgimento
che si deposita sui corpi sinuosi dei personaggi. La
storia diviene una chiave importante di rilettura, una
macchina del tempo che non risparmia neppure le grigie atmosfere
anni'80, cornice e contenitore del tuffo nel passato. "Velvet
Goldmine" è un singolare intreccio di quasi generi,
un film falso-biografico sulla musica, con numeri da musical, alla
ricerca dei pezzi di vita che i protagonisti si sono lasciati alle
spalle. Troppo vecchio per perderlo, troppo giovane per sceglierlo,
dice "Rock'n'Roll Suicide", la struggente ballata che
chiude "Ziggy Stardust" di David Bowie. Epitaffio valido
a suggellare la creatura di Haynes, dettato proprio dal grande assente,
Bowie, che ha rifiutato i propri suggerimenti ed anche la proprio
musica. Ma viene raffigurato ed omaggiato dal personaggio di Brian,
mentre per il rocker americano Curt (con la C, ma che caso) Haynes
si è rifatto ad Iggy Pop, ed alla sua relazione con il Duca Bianco.
Impressionanti le prestazioni degli attori, in grado di non sfigurare
con il microfono in mano. Se l'emergente Jonathan
Rhys-Meyers costituisce una positiva sorpresa, e Christian Bale una sicura conferma, Ewan
McGregor giganteggia, chioma fluente e gestualità amplificata:
guardatelo rifare (nella finzione e nella realtà) "T.V. Eye"
degli Stooges, per credere. La moglie è invece Toni
Collette.
La colonna sonora di un film come questo merita
sicuramente un discorso a parte. Non accompagnamento, non oggetto
di marketing separato dalla storia, il soundtrack di "Velvet
Goldmine" è l'oggetto autentico della narrazione, se è vero
che non si può pensare questa epoca senza le note che la attraversarono.
Assente, come si è detto, Bowie, appaiono grandi classici in versione
originale ("Satellite of Love" di Lou Reed) o riletti in chiave contemporanea,
come 20th Century Boy di Marc Bolan vista dai Placebo
(e Bolan è un altro che manca, dall'orizzonte "Velvet Goldimine":
per colmare la lacuna, è consigliabile ascoltare il tributo regalato
alla sua musica e a quella dei T.Rex
dalla Tzadik di John Zorn). Inoltre, band che hanno fatto del glamour
una poetica, come i Pulp, e brani originali composti per due supergruppi,
specchio della doppia anima anglo-americana della pellicola. Nei
"Venus in Furs" spiccano Bernard Butler e Thom Yorke dei
Radiohead,
mentre la formazione dei "Wylde Ratttz" annovera musicisti
del calibro di Mike Watt, Mark Arm dei Mudhoney, Thurston Moore
e Steve Shelley dei Sonic
Youth e Ron Asheton, chitarrista degli Stooges..
Riccardo
Ventrella
Zoom
su Ang Lee
Venerdì 11 maggio ore 21.00
Mangiare, bere, uomo, donna
Ang Lee (1994)
Scheda non a cura di Oltre l'Occidente
The
family members in Ang Lee's new comedy stay physically close, sharing
elaborate meals prepared by a father who's a master chef in a Taipei
restaurant.
Yet
they're often taken by surprise by each other's most important,
life-altering decisions. It's as if they hadn't a clue. For all
the time they spend together, they react like strangers. As Mike
Nichols and Elaine May used to say, there's proximity here but no
relating.
Subtler
and more complex than his 1993 prize-winner, The Wedding Banquet,
Lee's latest movie is an almost-Chekhovian tale of three quietly
rebellious sisters and a closed-in widower-father who need to make
drastic changes in their lives.
Sihung
Lung, so fine as the father in The Wedding Banquet, is even
more prominent here as a patriarchal culinary expert who makes a
tense production out of every Sunday dinner. Kuei-Mei Yang plays
the daughter least likely to leave him: a high-school teacher who
claims to mourn the loss of a lover from many years ago.
Chien-Lien
Wu appears to be her opposite: a non-traditional, independent-minded
professional who's tempted by a job that will take her out of the
country and away from a hyper-critical parent. Yu-Wen Wang is the
youngest sister, a student who drifts into an intense relationship
with her best friend's boyfriend.
Complicating
matters are a flirtatious volleyball coach (Chin-Cheng Lu), a chain-smoking
widow (Ah-Leh Gua, who played Lung's wife in Wedding Banquet),
her divorced daughter (Sylvia Chang), and a tempting married man
(Winston Chao, Lung's gay son in Wedding Banquet). They're
all potential agents of change, but not necessarily in the order
or manner you'd expect.
Eat
Drink Man Woman
is so cleverly plotted, edited, scored, performed and photographed
that the audience is frequently just as surprised as the characters,
yet Lee and his co-writers plant just enough clues to keep you from
feeling tricked.
The
movie rewards a second viewing, if only because (as the title suggests)
there are so many sensual distractions that you may not grasp what
the characters are thinking and planning the first time around.
A hand-held-camera race through a busy kitchen is as exciting as
a Schwarzenegger chase sequence, and the opening montage of chopping
and slicing is as mouth-watering as anything in Like Water For
Chocolate.
Food
preparation is at the center of the film, whether it's the ingenious
impromptu response Lung makes to the lack of usable ingredients
for shark-fin soup, or the determined way he prepares each dish
from scratch, or the curiously joyless manner in which he sets out
the Sunday-dinner dishes for his daughters.
But
there's another kind of ritual being played out here, and eventually
it takes over. In the end, food isn't enough to sustain this family,
and it palls as spectator sport. Delectable as it is, it's not what
this family or this story is about. Eat Drink Man Woman has
considerably more on its plate than a collection of recipes
Martedì 15 maggio ore 21.00
Tempesta
di ghiaccio Ang Lee (USA, 1997)
Scheda da Hal Cinema Primevisioni
Regia
Ang
Lee
Interpreti
Kevin Kline
Sigourney Weaver
Jamey Sheridan
Joan Allen
Christina Ricci
Usa 1997
Week-end
del Ringraziamento, 1973. Nell'anno dello scandalo Watergate, del
Vietnam e della crisi petrolifera le famiglie Carver e Hood, anestetizzate
e confuse dall'inattesa rivoluzione sessuale, ne sperimentano gli
effetti sulla loro pelle. Fra nevrosi e furti nei drugstore consumati
per lenire incomprensioni e infedeltà, i giovani figli scoprono
il sesso tra respiri affannosi e la paura di non essere all'altezza.
Finché la tempesta e il destino non metteranno in evidenza le azioni
vigliacche e le rivelazioni imbarazzanti dei due nuclei familiari.
Venerdì 18 maggio ore 21.00
Sonatine
(Giappone, 1993)
Scheda
da Tempi Moderni
CAST TECNICO ARTISTICO
Sceneggiatura
e Regia: Takeshi Kitano
Fotografia: Katsumi Yanagishima
Scenografia: Osamu Sasaki
Costumi: Osamu Sasaki
Musica: Joe Hisaishi
Montaggio: Takeshi Kitano
Prodotto da: Masayuki Mori, Hisao Nabeshima, Takio Yoshida
(Giappone, 1993)
Durata: 94
Distribuzione cinematografica: Lucky Red
PERSONAGGI E INTERPRETI
Murakawa:
Beat Takeshi (Takeshi Kitano)
Miyuki: Aya Kokumai
Uechi: Tetsu Watanabe
Ryoji: Ren Ohsugi
Kitajima: Kenichi Yajma
Killer: Eiji Minakata
Sonatine (1993) di
Takeshi Kitano ha riproposto di nuovo lautore nipponico al
pubblico romano. Già vincitore e Venezia nel 1997 con Hana-Bi e
lo scorso anno presente con LEstate di Kikujiro (opera decisamente
minore -come Kids Return del 1996. Da Furyo di Nagisa Oshima, in
cui recitava da coprotagonista accanto a David Bowie, ad Hana-Bi,
la sua opera stilsticamente più compiuta, in Italia l Autore
Kitano ha riscosso interesse seguendo un'assimilazione rapsodica.
La sua opera si è disseminata in frammenti che anacronisticamente
si sono depositati sulla cinefilia italiana.
Sonatine è un gangster
movie, sbozzato da lampi di black-umor e di poesia secca, formata
sul contrasto visivo la prima immagine è un variopinto e fiabesco
pesce trafitto da una fiocina- fra lazione implacabile
e la percezione magica della natura.
Murakawa (Kitano)
è un boss della Yakuza, la mafia giapponese. Il suo capo gli ingiunge
di recarsi ad Okinawa per pacificare una lite intestina alla organizzazione.
Nellisola, lui, e i suoi uomini, cui si affilia una ragazza,
capiranno di trovarsi in una trappola tesa ad eliminarli; lui, infatti,
è considerato troppo potente per il suo capo. Murakawa si insedia
in una casa in riva al mare e medita la vendetta.
Immune dallo standard
del bandito occidentale, dove il Cattivo è consapevole della sua
dannazione e spesso animato da unombra di riscatto morale,
il criminale Kitano non tratta la sua scelta di vita come un fatto
personale fra se stesso e la società. Lui è un samurai sbandato,
artistoide, persino ingenuo quando non spara. Limpostazione
formale, tesa ed asciutta, nel film è costante, che tuttavia ha
il ritmo scandito dalla camminata sciatta di Kitano, dai suoi sguardi
assenti e decisi, dalle immagini limpide e atroci, unite dai silenzi
delle basse coste giapponesi e dallo stridere della sabbia unta
di sangue sulle suole delle scarpe. Su questo assunto narrativo
si fonda Sonatine, che non è un capolavoro, ma un prodotto fitto di trovate drammaturgiche, sorretto
da uno sguardo dichiaratamente pittorico. E il personaggio
di Murakawa spiccherebbe per originalità, se non passeggiasse, così
di frequente, nelle pellicole del genialoide BeatTakeshi.
Luigi
Senise
Martedì 22 maggio ore 21.00
Boiling point
(Giappone, 1990)
Masaki
lavora in una stazione di servizio e gioca senza successo nella
squadra di baseball locale. Un giorno si ribella ai soprusi di un
malavitoso locale. Il suo gesto innesca la violenta vendetta della
Yakuza. Masaki chiede allora aiuto a Uehara un boss della Yakuza
capace di tutto.
Venerdì 25 maggio ore 21.00
Violent cop
(Giappone
1989)
Scheda da Cineforum n. 366, luglio/agosto
1997
Titolo
originale: Sono Otoko, Kyobo Ni Tsuki
Interpreti:
"Beat" Takeshi, Maiko Kawakami, Makoto Ashikawa, Shiro
Sano, Shigeru Hiraizumi, Mikiko Otomashi, Haku Ryu, Ittoku Kishibe
Regia: Takeshi Kitano
Produzione: Hisao Nabeshima, Takio Yoshida, Shozo Ichiyama per Bandai
Media Division, Shochiku-Fuji Company, 1989
Sceneggiatura: Hisashi Nozowa. Rewritten by Takeshi Kitano
Fotografia: Yasushi Sasakibara
Montaggio: Nobutake Kamiya
Musica: Daisuke Kume, based partly on themes by Eric Satie
Durata: 98 min
Presentato al London Film Festival (3 Continents: Asian Section)
21 novembre 1991
Ultima sequenza, prima
di un ulteriore epilogo, di un film tutto pervaso dalla cupio
dissolvi. L'inquadratura è un totale di un interno di magazzino,
la luce un cono con la sua base sul lato destro dell'inquadratura
e il vertice sul sinistro. A ritmare questa proiezione materica
di luce, tre colonne: dinanzi alla più distante, nel vertice del
cono luminoso, Akari, sorella schizoide del poliziotto violento,
fruga un cadavere alla ricerca di droga. Dalle precedenti inquadrature
sappiamo della presenza di Azuma, il fratello, dietro la seconda
colonna. Parte un colpo di pistola, il corpo della donna si accascia.
Azuma inizia a comminare verso la fonte di luce, l'uscita, e la
macchina carrella verso destra, giunge ad inquadrarlo in piano americano,
poi in figura media. Un colpo parte dal lato destro dell'inquadratura,
e centra Azuma al capo. L'inquadratura rimane completamente oscura.
"L'uomo non troverà altri valori oltre a quello della morte,
questo è sicuro". Così Kitano.
E' importante saper inquadrare la morte. Kitano freddamente dissemina
di cadaveri tutti i suoi film, epifania dell'indifferenza , malattia
della contemporaneità. La sua ossessione è pertanto la differenza,
la possibilità di una sua formalizzazione; vale a dire, la capacità
di individuare un valore e veicolarlo in un testo. Per questo, credo,
i suoi film sono segnati dall'imperturbabilità dei limiti dell'inquadratura
rispetto al fuori campo, o di fronte alla violenza degli atti che
si consumano all'interno di quei confini. Necessità di designare
con tanta più veemenza il dato, per farvi risaltare l'eccezione.
Ora, nell'ultima sequenza di Violent Cop, si assiste alla
messa in valore di una morte, dopo la presa di coscienza del decadimento
di qualunque legame sociale, familiare, affettivo. La distanza rende
irriconoscibile la vittima, nasconde l'assassino: ultimo atto di
un'intimità ed affetto impossibili. La morte di Akari è distante,
soprattutto da tutte quelle che l'hanno preceduta nel film. "Senza
passeggiate non potrei collezionare appunti né osservazioni".
Robert Walser, ironico passeggiatore, morì camminando. Dopo
aver fatto fuoco sulla sorella, Azuma riprende il proprio cammino.
Il personaggio "Beat" Takeshi, come quelli interpretati
in Sonatine e Boiling Point, ha la propria cifra nella
persistenza del suo agire; persistenza qui espressa nell'inarrestabile
camminata, movimento azzerato in una precedente inquadratura frontale
con teleobiettivo: Azuma cammina, ma verso dove? La risposta si
cela nell'inquadratura di quest'ultima sequenza, uno sparo proviene
dalla direzione opposta a quella di Azuma. Kitano potrebbe essere
incluso in un insieme di registi "camminatori", con scarsissimo
valore euristico, in cui includere anche Ioseliani, King Vidor,
Jacques Rivette, certo De Sica (o Zavattini?). Solo per notare la
fatica del procedere che li distingue, e il loro carattere di moralisti.
Così come la ritrosia di Kitano verso il mare: Sonatine
e Boiling Point sono due film sul bagnasciuga. Nel mare
non si cammina (tranne qualcuno, forse).
Le ultime sequenze
di Violent Cop producono una drammaturgia della luce che
in questo lungo piano giunge a compimento. La luminosità coincide
con la morte, cancellando ogni valore salvifico della luce. Il vestito
troppo bianco di Akari, nel vertice del cono di luce, dinanzi ad
una colonna ugualmente bianca; l'inattuale luminosità che emana
Azuma, mentre cammina, e che scompare dopo la sua morte. Ma allora
non c'erano sorgenti di luce, e quella che si pensava un'uscita
non esisteva. Non tanto l'oscurità è mortifera, quanto la giunzione
con la luce - vale come predestinazione. Poi, non rimane che l'indistinzione
del buio.
Francesco Pitassio
Dalla
vir(tu)alità alla realtà
Martedì 29 maggio ore 21.00
Tokyo
eyes J.P.
Limosin (Fra/Giapp. 1998)
Scheda da Cinema Studio
CAST
TECNICO ARTISTICO
Regia: Jean-Pierre Limosin
Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Limosin, Santiago Amigorena,
Philippe Madral, Yuji Sakamoto
Fotografia: Jean-Marc Fabre
Scenografia: Takaaki Yano
Musiche: Xavier Jamaux
Montaggio: Danielle Anezin
Produzione: Lumen Film e Euro Space
Distribuzione: Istituto Luce
Origine: Francia - Giappone
durata: 90'
PERSONAGGI ED INTERPRETI:
K: Shinji Takeda
Hinano: Hinano Yoshikaw
Naomi: Kaori Mizushima
Roy: Tetta Sugimoto
Conducente dell'autobus: Ren Osugi
Parrucchiere: Masayuki Yui
Dj: Fumija Tanaka
Buttafuori: Hideki Oikawa
Ragazzo della discoteca: Yoichiro Saito
Ragazza della discoteca: Minako Hashimoto
Ragazza al telefono: Karia Nomoto
Yazuka: Takeshi Kitano
Con Tokyo Eyes
il Giappone diventa più vicino, più comprensibile e più umano. Come
più spesso sostenuto dal regista Jean-Pierre Limosin, il
film concepito come un'opera sullo sguardo sul mondo contemporaneo
e sul rapporto sempre più conflittuale tra realtà e virtualità,
tra azione e staticità, tra desideri e vita vissuta, si colloca
in una dimensione più universale in cui l'uomo si confronta con
un mondo tecnologico che sembra però non poter far nulla contro
le pulsioni, le emozioni e la magia del sentimento umano. La città
di Tokyo si spoglia dagli stereotipi e dalle ricorrente immagini
di città modello, di icona referenziale del XX secolo. Viene annullata
a favore dell'esplorazione comportamentale dei pochi personaggi,
si trasforma in un terreno fertile che diventa luogo d'incontro
tra i personaggi alla ricerca di qualcosa: K, "quattr'occhi,
(Shinji Takeda), il protagonista, alla ricerca di sensazioni
sempre più estreme, "costretto" a vivere in un mondo altamente
tecnologico e impersonale (in cui però sono leggibili i segni di
una eventuale redenzione, come ad esempio le centinaia di dischi,
oggetti che specialmente in Giappone sono ormai oggetti da collezionismo,
e che dimostrano un tenue legame con un mondo del passato) e che
utilizza gli occhiali per deformare ancora di più la realtà in cui
non sembra riuscire ad adattarsi; Hinano (Hinano Yoshikawa),
la ragazza che si mette sulle traccie di K. spiandolo con una telecamera,
che si trova a scoprire l'amore; suo fratello poliziotto (Tetta
Sugimoto) che conduce l'indagine ufficiale su K. e che diventa
il simbolo del mondo in cui sua sorella intende riparare K, quando
insistentemente gli dice che glielo vuole far conoscere.
Alla
iniziale fredda determinazione di "quattr'occhi" di colpire
virtualmente le persone con la sua pistola modificata (una sorta
di Robin Hood postmoderno che affronta i cattivi spaventandoli e
con il quale non possiamo non provare simpatia), si contrappongono
gli svariati personaggi del film che sono sempre in bilico, al margine
tra due realtà, in una situazione di precarietà sprituale e comportamentale
(come la presenza-simbolica del "personaggio-autore" interpretato
da Takeshi Kitano dimostra).
Il film subisce una profonda trasformazione.
K. all'inizio possiede il controllo del suo mondo (è capace di modificare
le sue stesse creazioni come il videogame, oppure è in grado di
trasformarne la natura, come la pistola che diventa per lui oggetto
di fascinazione quando le sue vittime gli trasmettono la loro paura),
e allo stesso tempo incapace di avere un contatto fisico con il
mondo reale (non riesce a toccare le gambe di Hinano) ma dopo l'incontro
con la ragazza perde progressivamente il dominio sul suo universo
virtuale per diventare uomo. Hinano diventa così l'ingenuo, testardo,
angelo redentore che lo salva dalla dannazione, dall'alienazione
del mondo tecnologico.
La scena finale in cui la ragazza chiede
a K. di toglierle di dosso della polvere "virtuale" dagli
occhi si trasforma in un appassionante omaggio alla vita. L'ossessione
dello sguardo, della sua passività, della sua componente macabra
e malata (che più di una volte rimanda alla morte non solo nel film,
anche se virtuale, ma anche in alcuni illustri precedenti come L'occhio
che uccide e La finestra sul cortile) diventa nel finale
di Tokyo Eyes un omaggio alla vita.
Sebastiano Lucci
Martedì 5 giugno ore 21.00
eXistenZ
D. Cronenberg
(Canada, UK, 1999)
Scheda da Tempi Moderni
CAST TECNICO ARTISTICO
Sceneggiatura
e Regia: David Cronenberg
Fotografia: Peter Sushitzky
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Musica: Howard Shore
Montaggio: Ronald Sanders
Prodotto da: Robert Lantos
(Canada, Uk, 1999)
Durata: 98
Distribuzione cinematografica: Cecchi Gori Group
PERSONAGGI E INTERPRETI
Allegra
Gheller: Jenifer Jason Leigh
Ted Pikul: Jude Law
Gas: Willem Dafoe
Kiri Vinokur: Ian Holm
La console per videogiochi
del futuro sarà alimentata dal nostro stesso corpo, si connetterà
direttamente al nostro midollo spinale nutrendo la nostra mente
e dandoci la sensazione di vivere la realtà tridimensionale di mondi
inesistenti. Allegra Gheller è la più famosa creatrice di videogiochi
virtuali ed una sessione test del nuovo apocalittico programma eXistenZ
è un irresistibile invito per gli adepti così come per gli acerrimi
nemici dei creatori di realtà artificiali.
Quale è la "vera"
realtà? E quella in cui mi trovo mentre mi pongo la domanda
o quella che si schiuderà davanti ai miei occhi una volta trovata
la risposta? Con eXistenZ
David Cronenberg sposa il reale al surreale connotando la materia
organica come in simbiosi con linorganica attraverso una continua
metamorfosi cerebrale. La mente e quanto di più infinitamente caleidoscopico
si annida dentro ognuno di noi, è oggetto di sfida e di invenzione
per il grande regista canadese instancabile fabbricatore di universi
mutageni. Il racconto ci può suggerire uninterpretazione superficiale
la cui linearità è propria dei videogiochi, oppure ci si può abbandonare
ad un metaviaggio ricco di suggestioni virtuali, di realtà che si
schiudono davanti ai nostri occhi come in un gioco di scatole cinesi.
Nessun confronto possibile con opere come Matrix,
Strange Days
o Brainstorm
ma solo leco amplificato che scaturisce dal film Videodrome girato dello stesso regista sedici anni prima
e a cui eXistenZ
rimane legato da un cordone ombelicale. Un nuovo passo sperimentale per un Cronenberg sempre
più profondo, visivamente escatologico (i resti di rettili e anfibi
mutanti che si trasformano in una pistola spara-denti) e sempre
più ossessionato dalla viscerale organicità che scaturisce dal caos
di molteplici piani di visione.
Claudio Pofi
Venerdì 8 giugno ore 21.00
Città nuda C.Yannaris
(Grecia 1998)
Scheda non a cura di Oltre lOccidente
In un povero sobborgo di Atene le vite di alcuni
ragazzi tutti accumunati dall'estrema povertà, che cercano di tirare
avanti tra furti e prostituzione. Sono i 'russi del Ponto', greci
originari della costa del Mar Nero, che adesso vivono in un povero
sobborgo di Atene, stranieri nella loro stessa patria. Li accomuna
la comune povertà, la fame di ricchezza ad ogni costo, la mancanza
di scrupoli. Il diciassettenne Sasha è il capo di un gruppetto di
ragazzi. Sasha vuole tutto e subito. Sogna il portafoglio pieno
e le ragazze in fila. Conosce un protettore di prostitute, Giorgos,
appena più grande di lui, che gli propone di sorvegliare la russa
Natasha. Per lui si tratta di un lavoro come un altro e forse della
possibilità di arricchirsi. Affresco della Grecia contemporanea
firmato da uno dei più promettenti talenti della nuova generazione
di cineasti greci.
Martedì 12 giugno ore 21.00
Mondo grua C.
Trapero (Argentina, 1999)
Scheda da Film Up
Carlo Trapero, giovane
regista argentino, è alla sua prima direzione di un lungometraggio,
e già ha ricevuto numerosi riconoscimenti per "Mondo Grua":
Premio "Settimana della Critica" al festival di Venezia
del 1999, Premio della critica e Premio "Tiger" al Rotterdam
Film Festival 2000 e Premio Speciale della Giuria all'Havana Film
Festival del 1999.
Diplomato in regia
cinematografica all'Università del Cine, risente dell'influenza
di film come "Tempi Moderni" di Chaplin, e di registi
come Fellini, Bergman ed Herzog, e di neorealisti come Truffaut
e Rohmer. In ogni caso si sente molto più vicino al cinema europeo,
che non di quello più commerciale di origini americane. L'idea del
film "Mondo Grua", nasce quasi per caso, quando affascinato
dai lavori di un cantiere che costruiva l'edificio della facoltà,
ottenne i fondi per girarne un documentario. Poi i lavori vennero
spostati, e l'idea del documentario venne scartata a favore di un
progetto più cinematografico: la storia di un operaio di cinquant'anni
che cerca lavoro come manovratore di gru, girata in VHS. Il progetto
venne inviato alla selezione del Festival di Rotterdam che gli diede
il denaro per continuare le riprese, da allora divenne un film vero,
girato in 16mm. La sceneggiatura finale non si è discostata molto
da quella inviata a Rotterdam, ma molte scene vennero ampliate e
approfondite mentre venivano girate, e questo, a detta del regista-autore,
aumentava la spontaneità dell'azione.
L'attore protagonista
non è un professionista, ma un amico elettricista cinquantenne,
che come il personaggio che interpreta tutti chiamano Rulo e che
negli anni settanta suonava in una band. Comunque, pur sentendosi
parte di quella corrente di artisti del realismo, Trapero ritiene
di non essere un fanatico come molti registi che fanno un film per
soddisfare il puro capriccio di un pubblico ristretto. Il suo interesse,
infatti, non cade sul costume o sulla denuncia sociale, ma sul modo
di raccontare una storia, in modo che la gente si possa sentire
parte di ciò che vede sullo schermo.
Zoom su A.Gitai
Venerdì 15 giugno ore 21.00
Kippur (Italia/Israele
2000)
Kippur
tutto incentrato sullattacco che Israele subì nel 1973 da
parte di Egitto e Siria. Il film è tratto dallesperienza autobiografica
del cineasta israeliano: memoria in prima persona, che traspone
su un piano funzionale lesperienza del regista, combattente
e gravemente ferito in quella guerra-lampo.
Martedì 19 giugno ore 21.00
Kadosh
(Francia/Israele
1999)
Scheda da Tempi Moderni
Regia:
Amos Gitai
Sceneggiatura: Amos Gitai, Eliette Abecassis
Fotografia: Renato Berta
Scenografia: Miguel Markin
Musica: Philippe Eidel
Montaggio:
Prodotto da: Agav Hafakot, M.P.Productions, Le Studio Canal + (Francia),
Mikado Film in collaborazione con la Rai
(Israele, 1999)
Durata: 110'
Distribuzione cinematografica: Istituto Luce
PERSONAGGI E INTERPRETI
Rivka:
Yael Abecassis
Meir: Yoram Hattab
Malka: Meital Barda
Yossef : Uri Ran Klauzner
"Il cinema è
larma più forte". Con queste parole, il 28 aprile 1937
Benito Mussolini inaugurava gli stabilimenti di Cinecittà, mettendo,
così, in evidenza quale formidabile strumento di propaganda può
diventare il mezzo cinematografico. Anche se il parallelismo potrebbe
apparire un po troppo ardito, guardando il nuovo film del
regista israeliano Amos Gitai Kadosh
(sacro) non si può che condividere questa asserzione. Già, perché
la pellicola in questione, presentata al festival di Cannes e uscita
qualche tempo prima delle elezioni per il rinnovo del parlamento
israeliano e lelezione del primo ministro, ha avuto, secondo
molti, grande peso nella vittoria del leader laburista Barak, contro
le forze dellestremismo religioso. E bisogna ammettere che
il ritratto di Mea Shearim, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme,
che il cineasta israeliano ci presenta risulta veramente indigesto
a qualsiasi persona dotata di un minimo senso dellequilibrio.
Anche perché la forza di Kadosh risiede nel fatto che, pur parlando
di una comunità lontana mille anni luce dal nostro modo di vivere,
i drammi dei protagonisti del film sembrano vicini a noi, tanto
che lo spettatore è in grado di calarsi perfettamente in questa
realtà e partecipare alle loro sofferenze.
La tragedia che si
consuma in Kadosh riguarda due sorelle: Rivka e Malka. La prima
è sposata da dieci anni con Meir, i genitori le hanno scelto lo
sposo, come è tradizione a Mea Shearim, eppure la loro unione sarebbe
felice, se fosse allietata dalla nascita di un bambino. Dopo molti
tentennamenti, luomo viene costretto a divorziare dalla moglie
sterile che, in quanto tale, non assolve ai suoi compiti. Ma Rivka
nel suo dolore non è sola, accomunata da un triste destino cè
la sorella Malka, che viene data in sposa a un uomo che non ama,
in quanto il suo cuore è già stato conquistato da un giovane musicista
che ha deciso di vivere fuori dalla comunità. Di fronte a scelte
che le sono state imposte, Malka reagisce in maniera diversa dalla
sorella che, invece, accetta lallontanamento dalla casa e
dal marito.
Gran parte del merito
del film va senzaltro al regista che ha saputo creare una
narrazione scarna e compatta, in grado di sviscerare la vicenda
attraverso dialoghi secchi e inquadrature incollate sui volti dei protagonisti. Una
scrittura, insomma, che non fa concessioni al sentimentalismo, ma
che allo stesso tempo, mette da parte il registro del documentario,
per partecipare della storia dei personaggi. Importante si rivela
anche la recitazione dei diversi attori, in grado di connotare i
personaggi della pellicola, senza cadere nel patetico (e il rischio
cera), in particolare splendida la prova Yael Abecassis, la
moglie ripudiata e Meital Barda (Malka), che ha vissuto un a storia
simile a quella del suo personaggio: proveniente da una famiglia
religiosa ha dovuto abbandonare i genitori, per realizzare il suo
sogno di diventare attrice.
Irene
Fornari
Venerdì
22 giugno ore 21.00
Beautiful people
J. Dizdar (Gran Bretagna, 1999)
Scheda da ReVision
Titolo: Beautiful people (Id.)
Regia:
Jasmin Dizdar
Sceneggiatura: Jasmin Dizdar
Fotografia: Robert Richardson
Interpreti: Charlotte Coleman, Charles Gray, Rosalind Ayres, Roger
Sloman, Heather Tobias, Danny Nusbaum, Siobhan Redmond, Gilbert
Martin, Steve Sweeney, Linda Bassett, Nicholas Farrell, Faruk Pruti,
Dado Jehan, Edin Dzandzanovic
Nazionalità: Gran Bretagna, 1999
Durata: 1h. 47'
Come tutte le cose,
su questa terra, gli eventi tragici posseggono due facce. Quella
del dolore, del lutto, e quella dell'ironia, del sorriso che si
mette in opera per rimuovere il pianto. I popoli dell'Est hanno
conseguito una sorta di specializzazione in questo processo di cancellazione,
che diviene sovente affabulazione, voglia di raccontare una storia.
Ha cominciato Radu Mihaileanu con Train De Vie e il dramma
dell'Olocausto, prosegue l'esordiente bosniaco Jasmin Dizdar con
Beautiful People, e la sanguinosa guerra nella ex-Jugoslavia.
Bella gente i profughi, che si mescolano all'ignara popolazione
londinese affancendata nelle sue civili attività. Sembra non accorgersi
di questi strani individui, che si guardano attorno come se fossero
stati catapultati in quella città da un lontano ed alieno pianeta.
Gioca su questo senso
dell'estraneità le sue tragicomiche carte, Beautiful People,
sulla naturale diffidenza che gli esseri umani mostrano verso la
"diversità". Quello stesso atteggiamento che trasforma
nel centro del mondo la partita di calcio che l'Inghilterra deve
giocare contro l'Olanda, e che genera altra intolleranza. Bosniaci
contro serbi, inglesi contro olandesi, l'aggressività non contabilizza
le differenze etniche. Pure, i profughi si intrufoleranno lentamente
nella vita di quattro famiglie britanniche. Tra litigi ed equivoci,
si apre una breccia nel muro, in grado di gettare uno spiraglio
di luce sul caos.
Davanti ad una materia
così difficile, foriera di essere banalizzata o peggio ridicolizzata,
Dizdar orchestra l'avanzare degli avvenimenti con un piglio che
ricorda quello di Kusturica. In questi momenti, sorretto anche dalla
musica, Beautiful People si trasforma in un balcanico can
can, ricco di ritmo, che sa aggirare le situazioni più stereotipate
con il coraggio immenso della commedia. Quando si prende delle pause,
lascia emergere tra le pieghe della storia il vissuto spesso amaro,
e fatto di solitudine, dei personaggi. I profughi, pieni di rancore
e di rimpianti per il paese sconvolto che si sono lasciati alle
spalle, e gli inglesi, alle prese con le piccole e grandi crisi
familiari, le violenze, l'incertezza, il gran problema degli hooligans,
la droga persino.
Il film miscela sapientemente
il mazzo di carte che ha a disposizione, raccontando con una semplicità
ora inaudita ora disarmante una vicenda profondamente umana. Non
darà grande sfoggio di estro visivo, Dizdar, o di smodato talento
registico, che lo possa rendere paragonabile al "maestro"
Emir. Ma sa calibrare al punto giusto gli ingredienti della sua
ricetta, tanto da essersi meritato gli applausi di una platea dai
gusti esigenti come quella di Cannes. Ce ne fossero, tutto sommato,
di film come questo. Nel caos, parola che nella storia viene ad
assumere il doppio segno di constatazione e speranza, c'è posto
per un raggio di sole, per la luce del futuro.
Riccardo Ventrella
Martedì 26 giugno ore21.00
Gadjo
dilo Tony
Gatlif
Scheda da reVision
Un paio di scarpe
sfondate a coprirgli i piedi, un sacco a tracolla ed un registratore
in tasca, così un giovane uomo percorre le strade ghiacciate della
campagna rumena alla ricerca di sè stesso attraverso quelle labili
tracce che, fili ormai evanescenti, rappresentano l'ultimo contatto
con un passato al quale continua a rimanere aggrappato. Il suo nome
è Stéphane, un gadjo, uno straniero, i suoi nuovi amici degli zingari,
gli abitanti del villaggio zigano tappa del suo peregrinare. E sono
ancora una volta i gitani, quindi, ed il loro mondo, ad essere al
centro di Gadjo Dilo, il film con cui Tony Gatlif viene a
completare un vero e proprio trittico aperto nel lontano 1983 con
Les Princes e poi proseguito in tempi più recenti con l'acclamato
Latcho Drom, un incontro che rappresenta un possibile tentativo
di dialogo fra due culture opposte, laddove rifiuto, paura e disprezzo
hanno da sempre caratterizzato la visione che dello zingaro ha l'uomo
cosiddetto "civile", un razzismo che è sì presente anche
qui nei rapporti fra rumeni e gitani, ma che assume canzonatori
toni di burla nell'opposta reazione all'ingresso dello straniero
nel villaggio: Stéphane non è uno di loro, ed i suoi vestiti logori,
le scarpe rotte, quel sacco informe, lo fanno apparire ai loro occhi
come un possibile ladro di polli, un rapitore di bambini, un pericolo
per tutte le donne. Ma Stéphane (Romain Duris, che ricorderete in
Dobermann)
non vive di convenzioni, è uno spirito libero, semplice e genuino;
fin dal primo incontro con Izidore, il capo del villaggio, lui ha
imparato ad amare questa gente ed un mondo fino ad allora sconosciuto.
Partito alla ricerca di Nora Luca, una misteriosa cantante zigana,
niente altro che un nome scritto frettolosamente a penna sul dorso
di una cassetta che suo padre, negli ultimi mesi di vita, amava
ascoltare, Stéphane, guidato da Izidore che in lui vede il figlio
strappatogli con la forza, è entrato a far parte di una comunità
della quale ha man mano assorbito le usanze e le tradizioni, ed
il gadjo, dapprima visto con diffidenza, poi con curiosità, è diventato
uno di loro.
Ed è proprio il cammino
di Stéphane, quel suo viaggio fuori da ogni schema, ad affascinare,
il lavoro fatto da Tony Gatlif su quegli sguardi pieni di vita,
sulle sincere espressioni di stupore, riportando l'approccio di
un attore parigino alla realtà della cultura zigana, immergendolo
in una dimensione fatta non di attori professionisti ma di veri
gitani, fino quasi a confondere il percorso compiuto da Stéphane
con quello di Romain, le reazioni dell'uno con quelle dell'altro.
L'ostinata ricerca di Nora Luca non è altro che il rifuggire il
presente restando saldamente legato alle proprie radici, il girovagare
da un villaggio all'altro alla ricerca di testimonianze musicali
da registrare tradisce ancora lo sguardo indagatore dell'uomo occidentale
e la sua smania di catalogare tutto ciò in cui si imbatte, ma l'amore
per la bella e ribelle Sabina (Rona Hartner, attrice e cantante
di Bucarest), le cerimonie intrise di gioia e dolore che risalgono
alle più profonde tradizioni popolari, gli stessi eventi ammantati
di un razzismo il cui inevitabile sfocio non può essere altro che
un'incontrollabile violenza, porteranno Stéphane ad una presa di
coscienza che significherà tagliare ogni ponte con quella società
alla quale non sente più di appartenere, per fare il proprio ingresso,
a pieno titolo, in quel nuovo mondo che ha ormai conquistato il
suo cuore.
Carlo
Cimmino
|