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Associazione politico culturale
Oltre l’Occidente
Per una alternativa allo sviluppo
P.zza A. Paleario 7
03100, Frosinone
ccp 10687036

La società “normale”: conformismi, ipocrisie, intolleranze.

 
Martedì 3 aprile ore 21.00

Boys don't cry  Kimberly Peirce (USA, 1999)

Scheda  da  Tempi Moderni

 

Sceneggiatura e Regia: Kimberly Peirce
Fotografia: Jim Denault
Scenografia: Michael Shaw
Costumi: Victoria Farrell
Musica: Nathan Larson
Montaggio: Lee Percy, Ace Tracy Granger
Prodotto da: Jeffrey Sharp, Johm Hart, Eva Kolonder, Christine Vachon
(USA,  1999)
Durata: 114'
Distribuzione cinematografica: 20TH Century Fox

PERSONAGGI E INTERPRETI

Brandon Tena: Hilary Swank
Lana: Chloe Sevigny
John: Peter Sarsgaard
Tom: Brendan Sexton
Kate: Alison Folland
Madre di Lana: Jeannetta Arnette

 

Boys don’t cry è un film di Kimberley Pierce, una regista che scoprì il caso Brandon Teena durante il corso dei suoi studi universitari. Dalla ricerca sulla vita di questa ragazza la Kimberley ne ha tratto un film (quindi diretto e sceneggiato) che scoperchia la grezza provincia americana nascosta sotto la fragile coltre del puritanesimo. Più che Badlands, di Malick (1973), film spesso accostato a BDC, è La Caccia, di Arthur Penn (1966), che può aver ispirato il film. Perché Brandon Teena ha catturato e ossessionato la capacità creativa della talentuosa film-maker Kimberly Pierce? Perché la protagonista, nei primi anni ’90, nello sconfinato mid-west del ’grande paese’, è una deliziosa, vivace ragazza priva di famiglia, che percepisce una naturale pulsione per le sue coetanee e, costretta ad occultare un attegiamento diabolico, per via degli alcolisti reazionari del Nebraska, si veste da maschio, si tuffa nella vita di una famiglia di simpatici sbandati come fosse una nuova sorellina, vive la strada da scaltro teppista. Finché non sarà scoperto il suo segreto, non prima di avere flirtato con le ragazze del posto, instillando invidia nei suoi compagni di strada.

Il film, più che per alcune sequenze di smaccato amore saffico, è tagliente nelle menti degli spettatori per l’ansante, vitale messa in scena di Teena: una ragazza che per non morire con la propria identità rischia la vita. E il coraggio di Teena nel perseguire una missione di sopravvivenza nel cuore ottuso dell’America, la regista lo evidenzia ad ogni inquadratura in cui il volto da bel ragazzo della credibile e giovane attrice Hilary Swank aggrotta gli occhi da duro o freme di terrore al pensiero di essere scoperta. La storia è il veicolo su cui scorre la sinnedoche del coraggio, che è l’emblema fregiato sulla fronte di Hilary-Teena, è un monito per tutte quelle persone che si ritrovano in un corpo che non è il corrispettivo di quel che le loro menti auspicano. Le immagini compiono dunque un ampio giro realistico sulla country-side del Mid-West, dove al centro, come l’obelisco della Casa Bianca di Washington, spicca il momumento di Brandon Teena.

Se ogni storia esemplare sul piano antropologico trovasse registi capaci di riassumerla visivamente con sintesi e intensità come la pellicola della Kimberley, forse in futuro nascerà un cinema che tenterà di rappresentare il dolore della umanità – più che allentargli le borse. In America anche i più piccoli, accompagnati dai genitori, possono vedere e discutere questo film mentre in Italia è stato vietato ai minori di 18 anni.

Luigi Senise

 

Venerdì 6 aprile ore 21.00

Festen Thomas Vinterberg (DANIMARCA, 1998)

Scheda  da  Tempi Moderni

 

Regia: Thomas Vinterberg
Sceneggiatura: Thomas Vinterberg, Mogens Rukov
Scenografia: Anthony Dod Mantle.
Suono: Morten Holm
Montaggio: Valdis Oskarrsdottir
(DANIMARCA, 1998)
Durata: 106'
Distribuzione cinematografica: LUCKY RED

PERSONAGGI E INTERPRETI

Christian: Ulrich Thomsen
Helge: Henning Moritzen
Michael: Thomas Bo Larsen
Helene: Paprika Steen
Pia: Birthe Neumann

 

"Famiglie, io vi odio!": dell'invettiva gidiana sembra imbevuto questo "Festen", secondo lungometraggio firmato dal ventinovenne regista danese Thomas Vinterberg ed incarnazione filmica degli enunciati di Dogma 95 assieme ad "Idioten" (tra breve sui nostri schermi) di Lars Von Trier, illustre propugnatore del manifesto d'intenti del collettivo.
In sostanza, i cineasti firmatari del documento s'impegnano a tener fede ad una sorta di rigidissimo decalogo che impone la rinuncia ad una serie di espedienti oramai d'uso comune (niente set o costruzioni speciali, no a trucchi ottici e filtri, bandite le luci addizionali) ed obblighi desueti, quali quello di servirsi esclusivamente della camera a mano e di non apporre la propria firma al prodotto finito.
Si può sorridere di detti assiomi, che sembran riportare al cinema diretto delle peraltro respinte nouvelle vague degli anni '60, ma per ora c'è da inchinarsi di fronte ai risultati: infatti "Festen" - nel raccontare la celebrazione in grande stile del sessantesimo compleanno d'un patriarca altoborghese, devastata dalle accuse di pedofilia e di provocato suicidio d'una figlia rivoltegli pubblicamente dal primogenito nel corso della cena - compendia certa tradizione del teatro nordico con la lezione bergmaniana (echi di "Fanny e Alexander" sono assai avvertibili, segnatamente nel rapporto fra la rigidità ed ipocrisia dei rituali collettivi ed il repentino appalesarsi dell'occulto, del rimosso con esiti devastanti) in una partitura che coniuga mirabilmente rigore e livore, intenti dissacratori e sobrietà di mise en scene in virtù pure della superba resa d'un affiatatissimo cast.
Peccato solo che il doppiaggio italiano, pur diligente, penalizzi l'uso eccelso del suono ed alcune prove attoriali: sarebbe forse stato il caso, per l'occasione, di prediligere l'uso dei troppo temuti sottotitoli.

Francesco Troiano

 
Martedì 10 aprile ore 21.00

Happiness Todd Solondz (USA, 1998)

Scheda da Close Up

 

Regia: Todd Solondz
Sceneggiatura: Todd Solondz
Fotografia: Maryse Alberti
Scenografia: Therese DePrez
(USA, 1998)
Durata: 140'
Distribuzione cinematografica: LUCKY RED

PERSONAGGI E INTERPRETI

Joy: Jane Adams
Helen: Lara Flynn Boyle
Trish: Cynthia Stevenson
Bill: Dylan Baker
Allen: Philip Seymour Hoffmann
Andy: Jon Lovitz
Lenny: Ben Gazzara
Ann Chambeau: Marla Maples
Diane: Elizabeth Ashley
Mona: Louise Lasser

 

Solondz esce dal breve e necessario transito per le morte gore della carineria indipendente (Fuga dalla scuola media) e si cala in un affresco altmaniano mezzo inacidito mezzo farsa con le dovute concessioni all’eversività sessuofila della Hollywood più recente. Singolare destino, per questo ancor giovane e certo valido cineasta con una spiccata predilezione per la "diversità", ritrovarsi in ciò uguale agli altri, tra gli onanisti dello sguardo che si trastullano con le polluzioni della loro falsa audacia. Del resto la castità dell’occhio non rientra nel bagaglio mainstream e Solondz è troppo poco dogmatico per rimediare. Ma di eccezioni si tratta, perché il film è ispirato e sa essere sgradevole davvero.

Mentre la società normale procede per inerzia, grazie agli scarti di energia di un privato schizoide e frammentato, i personaggi si imprigionano nel loro sogno alienato di felicità oppure scontano l’impossibilità di aprirsi al Mondo. Chi ci prova — i più carichi di speranza: Joy e il molestatore Allen - finisce inghiottito dai tabù e dagli ostacoli che regolano la vita monadica postmoderna. Nessuna riconciliazione col sociale, nessun transito per l’Altro (tantomeno sessuale), cosicché i proletari, Joy e il suo studente-tassista russo, che fanno l’amore, in un film che annienta il sesso nella gabbia del fuori campo assoluto, aprono uno struggente squarcio retrò, quasi come un John Travolta e una Debra Winger che non trovino più la chiave del melò per un Urban Cowboy del terzo millennio. Intriso nel profondo di una disperazione masturbatoria che nessun tipico paesaggio urbano — non i residence e le ville a schiera del New Jersey, non le assolate costruzioni della Florida— è in grado di riassorbire, Happiness riesce a sfuggire al ricatto dell’opzione morale, dissimula l’artificiosità della struttura a incastro nella necessità del dolore e nella irrecuperabilità del buon selvaggio. Un altro film di idioti, dunque, meno sperimentatori di quelli danesi, ma certo più avanguardisti.

Stefano Cappellini

 

Venerdì 13 aprile ore 21.00

Il colore della menzogna Claude Chabrol (Francia, 1999)

Scheda  da  Tempi Moderni

 

CAST TECNICO ARTISTICO

Regia: Claude Chabrol
Sceneggiatura: Odile Barsky, Claude Chabrol
Fotografia: Eduardo Serra
Scenografia: François Benoit Fresco
Costumi: Corinne Jorri
Musica: Matthieu Chabrol
Montaggio: Monique Fardolis
Prodotto da: Marin Karmitz
(Francia, 1999)
Durata: 108'
Distribuzione cinematografica: Bim

PERSONAGGI E INTERPRETI

Vivian Sterne: Sandrine Bonnaire
Rene Sterne: Jacques Gamblin
Frederique Lesage: Valeria Bruni Tedeschi
Germain-Roland Desmot: Antoine de Caunes
Detective Loudun: Bernard Verley
Yvelyne Bordier: Bulle Ogier
Regis Marchal: Pierre Martot
M. Bordier: Noël Simsolo
Anna: Adrienne Pauly

 

In un villaggio di pescatori della Bretagna, alcuni bambini trovano il corpo senza vita di Eloise, una ragazzina di dieci anni. Una giovane donna commissario, Frédérique Lesage (Valeria Bruni Tedeschi) conduce un inchiesta con l'aiuto del poliziotto locale, Loundun. L'inchiesta stagna anche perché tutti sembrano mentire o nascondere qualcosa, finché un secondo omicidio finisce per paralizzare il paese…
Tutto parte dal corpo senza vita di Eloise. Pochi abitanti, l'inchiesta non dovrebbe essere difficile, ma le cose sono complicate dai rapporti falsi e sotterranei che esistono, dal piacere che ognuno prova a dare false piste al commissario pur di allontanare i sospetti da sé.

Opposti al commissario, troviamo una coppia di "forestieri": René, (Jacques Gamblin) un pittore, e Viviane (Sandrine Bonnaire) un'infermiera, corteggiata da Desmot (Antoine de Caunes), nativo del luogo, e brillante quanto odioso divo del giornalismo televisivo. Desmot è l'attrazione del villaggio, ha amici e conoscenze ovunque, somiglia a tanti noti personaggi pubblici, protagonisti del nostro mondo televisivo. René e Viviane sono un coppia in crisi, non essendo nati nel villaggio, sono considerati degli estranei, ed inoltre Viviane, donna pratica e con un forte carattere, ha una relazione con Desmot, ma non lascia il marito, perché sa che ciò avrebbe un effetto devastante su di lui.

Chabrol, con la sua particolare prospettiva e il suo tocco leggero, ci dice che ognuno resta un mistero per l'altro e per se stesso e che la verità è simile ai quadri che dipinge René, quei trompe l'oeil che ingannano con le finte prospettive ma che comunque hanno una loro indiscussa solidità, così come le bugie hanno la loro.

Claude Chabrol, sceneggiatore e regista, orchestra un giallo psicologico e con un linguaggio essenziale riesce a parlare dell'uomo nella sua accezione più profonda, segreta, ambigua, plurale. Per questo si dedica ad un lavoro di scavo paziente, meticoloso, certosino, ricavando immagini distillate dove ogni cosa è, ma potrebbe anche essere altro, dove gli accordi musicali si fondono nella composizione visiva in un sussulto di sensorialità avvolgente.

Memmo Giovannini

 
Martedì 17 aprile ore 21.00

La mia vita in rosa Alain Berliner (BELGIO, 1997)

Scheda  da  Tempi Moderni

 

Regia: Alain Berliner
Sceneggiatura: Alain Berliner, Chris Vander Stappen
Costumi: Karen Muller Serrau
Musica: Dominique Dalcan
Montaggio: Sandrine Deegen
Effetti speciali: Sparx
Prodotto da: Carole Scotta
Durata: 85'
(BELGIO, 1997)
Distribuzione cinematografica: CECCHI GORI GROUP

PERSONAGGI E INTERPRETI

Ludovic: Georges Du Fresne
Hanna: Michèle Laroque
Pierre: Jean-Philippe Ecoffey
Elisabeth: Hélène Vincent

 

"Il film parla di magia, sogni e speranza": su queste tre parole immortali, soprattutto per il cinema, il regista Berliner ha costruito con grazia un'opera non facile da dimenticare, qualcosa di diverso da un film sull'omosessualità. Con leggerezza implacabile ha circondato gli splendidi sette anni del piccolo Ludovic, che vive con la famiglia in una benestante zona residenziale del Belgio e ama truccarsi e indossare gli abiti della madre, di tanti, troppi sguardi incapaci di varcare i limiti della propria meschinità. Gli stessi genitori non fanno altro che sforzarsi imperdonabilmente di ricondurlo a quella normalità che, se fosse termine ancora meritevole di discussione, equivarrebbe allora a un concentrato di mediocrità, falso cameratismo e ipocrisia. Aggiungendo magari la bruttezza: adulti brutti che non se ne salva uno, uomini lontani da ogni tentazione e donne un po' troie che s'adattano agli abiti (vietati a Ludovic) come le due sorellastre di Cenerentola all'agognata scarpetta. Fosse per loro il Belgio resterebbe un compagno della comunità europea del quale non sappiamo niente e niente ci interessa sapere. Ma lo spiraglio aperto da "La promesse" s'impone in tutt'altra chiave e nonostante tutto, grazie agli occhi sereni del piccolo che accetta la sua diversità ancor prima di riceverne un'approssimativa ma consolante spiegazione "scientifica". "Io sposerò il mio amichetto quando non sarò più un maschio" è l'atteggiamento innocente che paga di persona in un'età in cui sarebbe ancora troppo presto per pagare, ma è anche la determinazione che lo spinge a scappare, a tentare ingenuamente il suicidio, a rifugiarsi tra le braccia di una nonna troppo giovane dentro che, solo lei, sa trattarlo per quello che è: un bambino. Con la benedizione di un'icona gay adatta a quell'età, una bambolona della tv, mezza Barbie e mezza Anita Ekberg, che vive in un fatato mondo di plastica colorata dove per i sogni è ancora possibile trovare ospitalità.

Marco Medelin

 

Visioni d’ARTE

 

Venerdì 20 aprile ore 21.00

Tango Carlos Saura (SPAGNA, 1998)
Scheda  da  Tempi Moderni

 

Sceneggiatura e Regia: Carlos Saura
Fotografia: Vittorio Storaro
Coreografie: Juan Carlos Copes, Ana Maria Steckelman e Carlo Rivarola
(SPAGNA, 1998)
Durata: 105'
Distribuzione cinematografica: ISTITUTO LUCE

PERSONAGGI E INTERPRETI

Miguel Angel Sola: Mario Suarez
Cecilia Narova: Laura Fuentes
Mia Maestro: Elena Flores
Juan Carlos Copes: Carlos Nebbia
Julio Bocca: interpreta se stesso
Juan Luis Galiardo: Angelo Larroca

 

Mario Suarez, ballerino di tango a riposo forzato a causa di un incidente alla gamba, è stato appena abbandonato dalla moglie Laura. Questo dolore è solo un aspetto di una crisi esistenziale ben più ampia e complessa. Quella di un uomo che non riesce ad accettare l'inesorabilità del tempo che passa sulla sua pelle, la frustrazione per il suo fallimento sentimentale, il desiderio di vita amorosa che sente crescere ancora dentro di sé. Tutti elementi che riporta all'interno di un film che dedica al tango e che ha come interpreti sua moglie, affermata danzatrice, ed una rivelazione, bellissima e giovane. "Tango" non ha una vera trama, al contrario. Probabilmente offre uno dei mélo più tradizionali e prevedibili che si possano raccontare, con una commistione continua fra vita privata ed attività creativa, con spunti troppo scopertamente autobiografici per non considerarli una fonte d'ispirazione. L'esilità della storia è spinta fino all'eccesso, tanto da suscitare ragionevoli dubbi sulla necessità di inserirla. Con tutte le implicazioni cui la banalità del triangolo sentimentale si lega: attrazione per la giovinezza, drammi della gelosia, competizione fisica e, in questo caso, anche artistica. Il vero protagonista è il tango che è molto più di una danza: è il riflesso di una condizione umana. I gesti si insinuano in un gioco di specchi, di luci ed ombre, di profili stagliati su sfondi perlacei o rossi di passione. Movimenti continui di gambe che si intrecciano, di corpi che si avvinghiano e si sfuggono, di luci che sembrano essere movimento stesso. È un film di luci e di colori, di bellissime musiche e di coreografie suadenti e sensuali; è un film che rende omaggio alla fotografia più che esserne servito, in maniera elegante e raffinata, e le permette di dominare ogni fotogramma, non per fissare l'immagine, ma per darle vita. In questo Storaro compie un lavoro di grande maestria perché anticipa e sottolinea il movimento, prevede la melodia e la piega alla luce. Forse la danza con le sue seduzioni avrebbe potuto assorbire uno spazio maggiore: allora il quadro sarebbe stato solo seducente e non incerto.

Elisabetta Marino

 

 Martedì 24 aprile ore 21.00

Il tempo ritrovato Raul Ruiz (FRA/ITA 1999)

Scheda da ReVision

 

PRODUZIONE: Fra/Ita   -   1999    -   Dramm.

DURATA:  162'

INTERPRETI: Catherine Deneuve, Emmanuelle Beart, Vincent Perez, John Malkovich, Pascal Greggory, Marie-France Pisier, Chiara Mastroianni, Arielle Dombasle

SCENEGGIATURA: Gilles Taurand - Raul Ruiz  
(da "Il Tempo Ritrovato" di Marcel Proust)
FOTOGRAFIA: Ricardo Aronovich

SCENOGRAFIA:  Bruno Beauge

MONTAGGIO:  Denise De Casablanca

COSTUMI:  Gabriella Pescucci - Caroline De Vivaise

MUSICHE: Jorge Arriagada

 

"Il passato si conserva da sé, automaticamente. Non v'è dubbio: esso ci segue, intero, istante per istante, tutto ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla nostra prima infanzia è qui proteso sul presente che sta per integrarvisi, e urge contro la porta della coscienza che vorrebbe escluderlo". Marcel Proust aveva letto queste penetranti osservazioni del filosofo Henri Bergson, contenute in "L'evoluzione creatrice", tanto che la sua famosa opera "Alla ricerca del tempo perduto" altro non è che il tentativo quasi sovrumano di immobilizzare il tempo, di raccogliere le infinite suggestioni del pensiero, dei ricordi, e trattenerli sulla pagina scritta. L'ultima parte della Ricerca, "Il Tempo ritrovato", racchiude le pagine più riflessive del protagonista alter ego di Proust, sull'arte e la letteratura, vanità, narcisismo, ed insieme necessità di sistemazione del proprio vissuto.
Raoul Ruiz si trova perfettamente a suo agio nell'elaborazione di stimoli proustiani. Spinge la forma cinematografica verso l'iterazione dello sdoppiamento, la frammentazione del mondo reale. Un tema a Ruiz molto caro, fin dall'inizio e fino al suo ultimo lavoro Autopsia Di Un Sogno, il cui titolo originale Shattered Image "immagine scissa, frammentata", era molto più eloquente.
Ne Il Tempo Ritrovato i personaggi diventano immagini fantasmatiche, percorrono i territori mentali del narratore. La realtà è talmente mobile, inaccessibile, che Ruiz ne mostra tutta la fluidità, riprendendo contemporaneamente Proust giovane ed adulto, e facendo scorrere su quinte invisibili alcune porzioni dello scenario, teatralizzando al parossismo ogni evento raffigurato. L'immagine così diventa sempre immagine-tempo, il processo che svela le associazioni segrete della mente umana, tutto il passato, come suggeriva Bergson, è sempre presente. Eppure la storia d'ogni uomo è fatta inesorabilmente di movimenti continui, di trasformazioni in atto, ogni istante è diverso perché siamo cambiati rispetto ad un istante prima. Nel film la successione di eventi raccoglie questa finale e drammatica sensazione. Quella di perdersi senza punti di riferimento in questo fluire. Marcel, e Ruiz lo asseconda, così raccoglie le immagini, i segni che testimoniano l'associazione forse definitiva tra due istanti. Come il manifesto della cioccolata ai Champs Elysées e nella spiaggia di Balbec o il libro di George Sand trovato nella biblioteca dei Guermantes e che la mamma gli leggeva a Combray. Due momenti, movimenti che finalmente si ricompongono, per offrire all'uomo qualche debole certezza, l'impronta fondamentale, l'impulso essenziale, per la nuova creazione.

 Andrea Caramanna

 

Venerdì 27 aprile ore 21.00

Accordi e disaccordi W. Allen (USA, 1999)

Scheda da Primissima Web
 
Regia: Woody Allen
Con: Gretchen Mol, Sean Penn, Samantha Morton, Uma Thurman
Distribuzione: Cecchi Gori
Durata: 95'

 

Penultimo film di Woody Allen (l'ultimo "Small Time Crooks" è appena uscito negli Usa) è un omaggio alla musica jazz, e su un artista capace di coglierne lo spirito malinconico. È la biografia immaginaria di un leggendario chitarrista jazz degli anni ‘30 Emmet Ray, interpretato da Sean Penn. La vita di Emmet, le sue donne, gli ambienti da lui frequentati durante la lunga gavetta, i locali dello swing, tutto è raccontato con straordinaria verosimiglianza per ricreare lo spirito di quegli anni. La giovane attrice britannica Samantha Morton è Hattie, taciturna lavandaia compagna devota e inseparabile di Ray. Le fa da controaltare una spregiudicata donna altoborghese, bella e sofisticata, Blanche, impersonata dalla splendida attrice Uma Thurman. In ruoli-cameo appaiono grandi nomi affezionati al jazz, dal critico musicale Nat Hentoff all’autore e regista Douglas McGrath, fino allo stesso Woody Allen.

Curiosità: Woody Allen compare in un piccolo ruolo, insieme allo sceneggiatore Douglas McGrath e al critico musicale Nat Hentoff. Per Accordi e Disaccordi, Allen ha smentito la fama di regista sedentario e si è spostato in ben 85 location diverse. Il direttore della fotografia di Sweet&Lowdown (bel titolo originale di Accordi e Disaccordi) è il cinese Zhao Fei (Lanterne Rosse) che ha lavorato con Allen senza imparare una sola parola di inglese. Malgrado ciò, Fei, Allen e Santo Loquasto, lo scenografo con cui il regista collabora ormai da qualche anno, hanno ricreato l'atmosfera anni'30 dalla leggendaria 44esima strada di New York ai jazz-club di Chicago. Woody Allen ha scelto le musiche per il film insieme Dick Hyman; i brani di Emmet Ray sono stati eseguiti da Howard Alden. La colonna sonora include anche brani originali rimasterizzati di Django Reinhardt, del violinista Joe Venuti e del chitarrista Eddie Lang.

 
Venerdì 4 maggio ore 21.00

Buena vista social club W. Wenders

Scheda da reVision

 

Quello che il buon Wim ha sempre sognato di fare. Un musical. O meglio, un film dove la trama musicale si intreccia strettamente con la storia, anzi, ne è il fondamento stesso. Le note fanno parte dello stile di Wenders, come un portato necessario dell'immagine. La musica è cinema, a modo suo. Ha incontrato Ry Cooder, il compositore delle atmosfere sospese di Paris, Texas, e lo ha seguito facendo rotta verso Cuba, dove il grande chitarrista ha unito le sue forze a quelle dei più grandi performers locali, per un album chiamato poi Buena Vista Social Club. Il recupero delle sonorità tradizionali ha caratterizzato gran parte della carriera di Cooder, sin da quando negli anni'70 arrangiava a modo suo i grandi classici di Robert Johnson e Leadbelly. L'esotismo cubano non era che una sfida diversa.

Wenders, uscito dal ponderoso (e parzialmente vano) sforzo concettuale degli ultimi lavori, ha ricominciato a fare andare la macchina da presa. Buena Vista Social Club è così, una registrazione dell'evento senza un progetto preciso. L'obiettivo che si deposita sui fatti, e li sa far parlare. Documenta la nascita di un sodalizio artistico, tra uomini che sanno vivere le loro emozioni musicali. Un piccolo saggio sull'amicizia virile che sgorga dal pentagramma. Cattura la magia nascosta di Cuba, senza troppo badare alle spigolature. Restituisce l'emozione del concerto, l'attimo dell'esibizione, l'infinitesimale spazio della creazione. Viaggia e scopre, in primo luogo, attraverso un vuoto rassicurante. Spazi di realtà ritagliati dai contorni della vita. Senza essere nulla di speciale, nulla di palesemente dichiarato, Buena Vista Social Club costruisce mano a mano la sua reputazione. Tanto per rimanere nel genere del "reportage sonoro", ha la partecipazione di Mississipi Blues, di Bertrand Tavernier, senza essere così indagatore, la sensazione di "contatto storico" di Woodstock, senza averne l'epocalità. Un Wenders che si tiene sempre un po' in disparte, a margine, che non racconta in maniera così prepotente come è solito fare, ma lascia raccontare, e suonare.
Da questo strano intreccio esce un prodotto veramente "meticcio", come una parte dei luoghi e della tradizione che rappresenta, un oggetto non antropologico, non sociologico, non semplicemente documentale. Lo si direbbe quasi involontario, o non intenzionale, se dietro a quella macchina da presa non sapessimo che Wim Wenders ci sta guardando. Una scelta del tutto antimoderna, quella di fare un film che in nessun modo ammicca al linguaggio contemporaneo della musica in video. Destinato forse a tediare i più, Buena Vista Social Club rischia di essere classificato come buon esercizio di stile. Ma è l'occasione per rivedere a tratti il Wenders "fotografo", quello che come nessun altro sa sollevare la pelle delle cose sulle quali posa l'occhio. Il regista che sa oltrepassare lo strato superficiale, la patina del mondo, e che troppo spesso trasforma questo magico momento in un'operazione retorica. Questo Buena Vista ce lo restituisce più terreno, e più vicino. Al cinema.

Riccardo Ventrella

 
Martedì 8 maggio ore 21.00

Velvet goldmine Todd Haynes (1998)

Scheda non a cura di Oltre l'Occidente

 

Finiti i sogni e le colombe degli anni Sessanta, il rock cullò i propri destini sui vestiti sgargianti, il trucco e i lustrini. Dimenticato il buon gusto, il glam fu. Londra divenne la capitale di un genere eccessivo, che viveva di enormi riff di chitarra e di qualsiasi genere di ambiguità. Sessuali, doppie identità, travestimenti. Il grande Marc Bolan ne fu il mentore e il martire, David Bowie il profeta, Lou Reed e gli Stooges di Iggy Pop alcuni dei discepoli. Todd Haynes, regista del salutistico e curioso "Safe", indaga in " Velvet Goldmine" questo mondo scintillante, perduto nella memoria ma ancora "ascoltabile", come lo stesso Haynes suggerisce nelle note di copertina della colonna sonora. E di un'indagine vera e propria si tratta. Come in "Quarto potere", un giornalista cerca di gettare nuova luce sulle vicende della glam-star Brian, rimasto ucciso misteriosamente sul palco durante un concerto dieci anni prima. Nel farlo, sfoglia le pagine di una vita eccessiva, ed inevitabilmente duplice, segnata dai rapporti con l'ex-moglie Mandy e con il rocker Curt. Per il giornalista, sarà anche un modo di scavare nel proprio, morboso, passato. Poco a poco, si completa il ritratto di questo periodo complesso, ricostruito da Haynes con un'accuratezza maniacale. Rivivono l'estro di travestimenti molto più che fantasiosi, il make-up sconvolgente (che potete, ovviamente, acquistare in versione personalizzata per il film), le performances eccessive, la patina di sesso e sconvolgimento che si deposita sui corpi sinuosi dei personaggi. La storia diviene una chiave importante di rilettura, una macchina del tempo che non risparmia neppure le grigie atmosfere anni'80, cornice e contenitore del tuffo nel passato. "Velvet Goldmine" è un singolare intreccio di quasi generi, un film falso-biografico sulla musica, con numeri da musical, alla ricerca dei pezzi di vita che i protagonisti si sono lasciati alle spalle. Troppo vecchio per perderlo, troppo giovane per sceglierlo, dice "Rock'n'Roll Suicide", la struggente ballata che chiude "Ziggy Stardust" di David Bowie. Epitaffio valido a suggellare la creatura di Haynes, dettato proprio dal grande assente, Bowie, che ha rifiutato i propri suggerimenti ed anche la proprio musica. Ma viene raffigurato ed omaggiato dal personaggio di Brian, mentre per il rocker americano Curt (con la C, ma che caso) Haynes si è rifatto ad Iggy Pop, ed alla sua relazione con il Duca Bianco. Impressionanti le prestazioni degli attori, in grado di non sfigurare con il microfono in mano. Se l'emergente Jonathan Rhys-Meyers costituisce una positiva sorpresa, e Christian Bale una sicura conferma, Ewan McGregor giganteggia, chioma fluente e gestualità amplificata: guardatelo rifare (nella finzione e nella realtà) "T.V. Eye" degli Stooges, per credere. La moglie è invece Toni Collette.

La colonna sonora di un film come questo merita sicuramente un discorso a parte. Non accompagnamento, non oggetto di marketing separato dalla storia, il soundtrack di "Velvet Goldmine" è l'oggetto autentico della narrazione, se è vero che non si può pensare questa epoca senza le note che la attraversarono. Assente, come si è detto, Bowie, appaiono grandi classici in versione originale ("Satellite of Love" di Lou Reed) o riletti in chiave contemporanea, come 20th Century Boy di Marc Bolan vista dai Placebo (e Bolan è un altro che manca, dall'orizzonte "Velvet Goldimine": per colmare la lacuna, è consigliabile ascoltare il tributo regalato alla sua musica e a quella dei T.Rex dalla Tzadik di John Zorn). Inoltre, band che hanno fatto del glamour una poetica, come i Pulp, e brani originali composti per due supergruppi, specchio della doppia anima anglo-americana della pellicola. Nei "Venus in Furs" spiccano Bernard Butler e Thom Yorke dei Radiohead, mentre la formazione dei "Wylde Ratttz" annovera musicisti del calibro di Mike Watt, Mark Arm dei Mudhoney, Thurston Moore e Steve Shelley dei Sonic Youth e Ron Asheton, chitarrista degli Stooges..

Riccardo Ventrella

 
Zoom su Ang Lee

 

Venerdì 11 maggio ore 21.00

Mangiare, bere, uomo, donna Ang Lee  (1994)

Scheda non a cura di Oltre l'Occidente

 

The family members in Ang Lee's new comedy stay physically close, sharing elaborate meals prepared by a father who's a master chef in a Taipei restaurant.

Yet they're often taken by surprise by each other's most important, life-altering decisions. It's as if they hadn't a clue. For all the time they spend together, they react like strangers. As Mike Nichols and Elaine May used to say, there's proximity here but no relating.

Subtler and more complex than his 1993 prize-winner, The Wedding Banquet, Lee's latest movie is an almost-Chekhovian tale of three quietly rebellious sisters and a closed-in widower-father who need to make drastic changes in their lives.

Sihung Lung, so fine as the father in The Wedding Banquet, is even more prominent here as a patriarchal culinary expert who makes a tense production out of every Sunday dinner. Kuei-Mei Yang plays the daughter least likely to leave him: a high-school teacher who claims to mourn the loss of a lover from many years ago.

Chien-Lien Wu appears to be her opposite: a non-traditional, independent-minded professional who's tempted by a job that will take her out of the country and away from a hyper-critical parent. Yu-Wen Wang is the youngest sister, a student who drifts into an intense relationship with her best friend's boyfriend.

Complicating matters are a flirtatious volleyball coach (Chin-Cheng Lu), a chain-smoking widow (Ah-Leh Gua, who played Lung's wife in Wedding Banquet), her divorced daughter (Sylvia Chang), and a tempting married man (Winston Chao, Lung's gay son in Wedding Banquet). They're all potential agents of change, but not necessarily in the order or manner you'd expect.

Eat Drink Man Woman is so cleverly plotted, edited, scored, performed and photographed that the audience is frequently just as surprised as the characters, yet Lee and his co-writers plant just enough clues to keep you from feeling tricked.

The movie rewards a second viewing, if only because (as the title suggests) there are so many sensual distractions that you may not grasp what the characters are thinking and planning the first time around. A hand-held-camera race through a busy kitchen is as exciting as a Schwarzenegger chase sequence, and the opening montage of chopping and slicing is as mouth-watering as anything in Like Water For Chocolate.

Food preparation is at the center of the film, whether it's the ingenious impromptu response Lung makes to the lack of usable ingredients for shark-fin soup, or the determined way he prepares each dish from scratch, or the curiously joyless manner in which he sets out the Sunday-dinner dishes for his daughters.

But there's another kind of ritual being played out here, and eventually it takes over. In the end, food isn't enough to sustain this family, and it palls as spectator sport. Delectable as it is, it's not what this family or this story is about. Eat Drink Man Woman has considerably more on its plate than a collection of recipes

 
Martedì 15 maggio ore 21.00

Tempesta di ghiaccio Ang Lee (USA, 1997)

Scheda da Hal Cinema –Primevisioni

 

Regia
Ang Lee
Interpreti
Kevin Kline
Sigourney Weaver
Jamey Sheridan
Joan Allen
Christina Ricci
Usa 1997

 

Week-end del Ringraziamento, 1973. Nell'anno dello scandalo Watergate, del Vietnam e della crisi petrolifera le famiglie Carver e Hood, anestetizzate e confuse dall'inattesa rivoluzione sessuale, ne sperimentano gli effetti sulla loro pelle. Fra nevrosi e furti nei drugstore consumati per lenire incomprensioni e infedeltà, i giovani figli scoprono il sesso tra respiri affannosi e la paura di non essere all'altezza. Finché la tempesta e il destino non metteranno in evidenza le azioni vigliacche e le rivelazioni imbarazzanti dei due nuclei familiari.

 

Zoom su Takeshi Kitano

 
Venerdì 18 maggio ore 21.00

Sonatine (Giappone, 1993)

Scheda  da  Tempi Moderni

 

CAST TECNICO ARTISTICO

Sceneggiatura e Regia: Takeshi Kitano
Fotografia: Katsumi Yanagishima
Scenografia: Osamu Sasaki
Costumi: Osamu Sasaki
Musica: Joe Hisaishi
Montaggio: Takeshi Kitano
Prodotto da: Masayuki Mori, Hisao Nabeshima, Takio Yoshida
(Giappone, 1993)
Durata: 94’
Distribuzione cinematografica: Lucky Red

PERSONAGGI E INTERPRETI

Murakawa: Beat Takeshi (Takeshi Kitano)
Miyuki: Aya Kokumai
Uechi: Tetsu Watanabe
Ryoji: Ren Ohsugi
Kitajima: Kenichi Yajma
Killer: Eiji Minakata

 

Sonatine (1993) di Takeshi Kitano ha riproposto di nuovo l’autore nipponico al pubblico romano. Già vincitore e Venezia nel 1997 con Hana-Bi e lo scorso anno presente con L’Estate di Kikujiro (opera decisamente minore -come Kids Return del 1996. Da Furyo di Nagisa Oshima, in cui recitava da coprotagonista accanto a David Bowie, ad Hana-Bi, la sua opera stilsticamente più compiuta, in Italia l’ Autore Kitano ha riscosso interesse seguendo un'assimilazione rapsodica. La sua opera si è disseminata in frammenti che anacronisticamente si sono depositati sulla cinefilia italiana.

Sonatine è un gangster movie, sbozzato da lampi di black-umor e di poesia secca, formata sul contrasto visivo –la prima immagine è un variopinto e fiabesco pesce trafitto da una fiocina-  fra l’azione implacabile e la percezione magica della natura.

Murakawa (Kitano) è un boss della Yakuza, la mafia giapponese. Il suo capo gli ingiunge di recarsi ad Okinawa per pacificare una lite intestina alla organizzazione. Nell’isola, lui, e i suoi uomini, cui si affilia una ragazza, capiranno di trovarsi in una trappola tesa ad eliminarli; lui, infatti, è considerato troppo potente per il suo capo. Murakawa si insedia in una casa in riva al mare e medita la vendetta.

Immune dallo standard del bandito occidentale, dove il Cattivo è consapevole della sua dannazione e spesso animato da un’ombra di riscatto morale, il criminale Kitano non tratta la sua scelta di vita come un fatto personale fra se stesso e la società. Lui è un samurai sbandato, artistoide, persino ingenuo quando non spara. L’impostazione formale, tesa ed asciutta, nel film è costante, che tuttavia ha il ritmo scandito dalla camminata sciatta di Kitano, dai suoi sguardi assenti e decisi, dalle immagini limpide e atroci, unite dai silenzi delle basse coste giapponesi e dallo stridere della sabbia unta di sangue sulle suole delle scarpe. Su questo assunto narrativo si fonda Sonatine, che non è un capolavoro, ma un prodotto fitto di trovate drammaturgiche, sorretto da uno sguardo dichiaratamente pittorico. E il personaggio di Murakawa spiccherebbe per originalità, se non passeggiasse, così di frequente, nelle pellicole del genialoide Beat–Takeshi.

Luigi Senise

 
Martedì 22 maggio ore 21.00

Boiling point (Giappone, 1990)

 

Masaki lavora in una stazione di servizio e gioca senza successo nella squadra di baseball locale. Un giorno si ribella ai soprusi di un malavitoso locale. Il suo gesto innesca la violenta vendetta della Yakuza. Masaki chiede allora aiuto a Uehara un boss della Yakuza capace di tutto.

 

Venerdì 25 maggio ore 21.00

Violent cop (Giappone 1989)

Scheda da Cineforum n. 366, luglio/agosto 1997

 

Titolo originale: Sono Otoko, Kyobo Ni Tsuki

Interpreti: "Beat" Takeshi, Maiko Kawakami, Makoto Ashikawa, Shiro Sano, Shigeru Hiraizumi, Mikiko Otomashi, Haku Ryu, Ittoku Kishibe
Regia: Takeshi Kitano
Produzione: Hisao Nabeshima, Takio Yoshida, Shozo Ichiyama per Bandai Media Division, Shochiku-Fuji Company, 1989
Sceneggiatura: Hisashi Nozowa. Rewritten by Takeshi Kitano
Fotografia: Yasushi Sasakibara
Montaggio: Nobutake Kamiya
Musica: Daisuke Kume, based partly on themes by Eric Satie
Durata: 98 min
Presentato al London Film Festival (3 Continents: Asian Section) 21 novembre 1991
 

Ultima sequenza, prima di un ulteriore epilogo, di un film tutto pervaso dalla  cupio dissolvi. L'inquadratura è un totale di un interno di magazzino, la luce un cono con la sua base sul lato destro dell'inquadratura e il vertice sul sinistro. A ritmare questa proiezione materica di luce, tre colonne: dinanzi alla più distante, nel vertice del cono luminoso, Akari, sorella schizoide del poliziotto violento, fruga un cadavere alla ricerca di droga. Dalle precedenti inquadrature sappiamo della presenza di Azuma, il fratello, dietro la seconda colonna. Parte un colpo di pistola, il corpo della donna si accascia. Azuma inizia a comminare verso la fonte di luce, l'uscita, e la macchina carrella verso destra, giunge ad inquadrarlo in piano americano, poi in figura media. Un colpo parte dal lato destro dell'inquadratura, e centra Azuma al capo. L'inquadratura rimane completamente oscura. "L'uomo non troverà altri valori oltre a quello della morte, questo è sicuro". Così Kitano.
E' importante saper inquadrare la morte. Kitano freddamente dissemina di cadaveri tutti i suoi film, epifania dell'indifferenza , malattia della contemporaneità. La sua ossessione è pertanto la differenza, la possibilità di una sua formalizzazione; vale a dire, la capacità di individuare un valore e veicolarlo in un testo. Per questo, credo, i suoi film sono segnati dall'imperturbabilità dei limiti dell'inquadratura rispetto al fuori campo, o di fronte alla violenza degli atti che si consumano all'interno di quei confini.  Necessità di designare con tanta più veemenza il dato, per farvi risaltare l'eccezione. Ora, nell'ultima sequenza di Violent Cop, si assiste alla messa in valore di una morte, dopo la presa di coscienza del decadimento di qualunque legame sociale, familiare, affettivo. La distanza rende irriconoscibile la vittima, nasconde l'assassino: ultimo atto di un'intimità ed affetto impossibili. La morte di Akari è distante, soprattutto da tutte quelle che l'hanno preceduta nel film. "Senza passeggiate non potrei collezionare appunti né osservazioni". Robert Walser, ironico passeggiatore, morì camminando. Dopo aver fatto fuoco sulla sorella, Azuma riprende il proprio cammino. Il personaggio "Beat" Takeshi, come quelli interpretati in Sonatine e Boiling Point, ha la propria cifra nella persistenza del suo agire; persistenza qui espressa nell'inarrestabile camminata, movimento azzerato in una precedente inquadratura frontale con teleobiettivo: Azuma cammina, ma verso dove? La risposta si cela nell'inquadratura di quest'ultima sequenza, uno sparo proviene dalla direzione opposta a quella di Azuma. Kitano potrebbe essere incluso in un insieme di registi "camminatori", con scarsissimo valore euristico, in cui includere anche Ioseliani, King Vidor, Jacques Rivette, certo De Sica (o Zavattini?). Solo per notare la fatica del procedere che li distingue, e il loro carattere di moralisti. Così come la ritrosia di Kitano verso il mare: Sonatine e Boiling Point sono due film sul bagnasciuga. Nel mare non si cammina (tranne qualcuno, forse).

Le ultime sequenze di Violent Cop producono una drammaturgia della luce che in questo lungo piano giunge a compimento. La luminosità coincide con la morte, cancellando ogni valore salvifico della luce. Il vestito troppo bianco di Akari, nel vertice del cono di luce, dinanzi ad una colonna ugualmente bianca; l'inattuale luminosità che emana Azuma, mentre cammina, e che scompare dopo la sua morte. Ma allora non c'erano sorgenti di luce, e quella che si pensava un'uscita non esisteva. Non tanto l'oscurità è mortifera, quanto la giunzione con la luce - vale come predestinazione. Poi, non rimane che l'indistinzione del buio.

Francesco Pitassio

 

Dalla vir(tu)alità alla realtà

 

Martedì 29 maggio ore 21.00

Tokyo eyes  J.P. Limosin (Fra/Giapp. 1998)

Scheda da Cinema Studio

 

CAST TECNICO ARTISTICO
Regia: Jean-Pierre Limosin
Soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre Limosin, Santiago Amigorena, Philippe Madral, Yuji Sakamoto
Fotografia: Jean-Marc Fabre
Scenografia: Takaaki Yano
Musiche: Xavier Jamaux
Montaggio: Danielle Anezin
Produzione: Lumen Film e Euro Space
Distribuzione: Istituto Luce
Origine: Francia - Giappone
durata: 90'
PERSONAGGI ED INTERPRETI:
K: Shinji Takeda
Hinano: Hinano Yoshikaw
Naomi: Kaori Mizushima
Roy: Tetta Sugimoto
Conducente dell'autobus: Ren Osugi
Parrucchiere: Masayuki Yui
Dj: Fumija Tanaka
Buttafuori: Hideki Oikawa
Ragazzo della discoteca: Yoichiro Saito
Ragazza della discoteca: Minako Hashimoto
Ragazza al telefono: Karia Nomoto
Yazuka: Takeshi Kitano

 

Con Tokyo Eyes il Giappone diventa più vicino, più comprensibile e più umano. Come più spesso sostenuto dal regista Jean-Pierre Limosin, il film concepito come un'opera sullo sguardo sul mondo contemporaneo e sul rapporto sempre più conflittuale tra realtà e virtualità, tra azione e staticità, tra desideri e vita vissuta, si colloca in una dimensione più universale in cui l'uomo si confronta con un mondo tecnologico che sembra però non poter far nulla contro le pulsioni, le emozioni e la magia del sentimento umano. La città di Tokyo si spoglia dagli stereotipi e dalle ricorrente immagini di città modello, di icona referenziale del XX secolo. Viene annullata a favore dell'esplorazione comportamentale dei pochi personaggi, si trasforma in un terreno fertile che diventa luogo d'incontro tra i personaggi alla ricerca di qualcosa: K, "quattr'occhi, (Shinji Takeda), il protagonista, alla ricerca di sensazioni sempre più estreme, "costretto" a vivere in un mondo altamente tecnologico e impersonale (in cui però sono leggibili i segni di una eventuale redenzione, come ad esempio le centinaia di dischi, oggetti che specialmente in Giappone sono ormai oggetti da collezionismo, e che dimostrano un tenue legame con un mondo del passato) e che utilizza gli occhiali per deformare ancora di più la realtà in cui non sembra riuscire ad adattarsi; Hinano (Hinano Yoshikawa), la ragazza che si mette sulle traccie di K. spiandolo con una telecamera, che si trova a scoprire l'amore; suo fratello poliziotto (Tetta Sugimoto) che conduce l'indagine ufficiale su K. e che diventa il simbolo del mondo in cui sua sorella intende riparare K, quando insistentemente gli dice che glielo vuole far conoscere.

    Alla iniziale fredda determinazione di "quattr'occhi" di colpire virtualmente le persone con la sua pistola modificata (una sorta di Robin Hood postmoderno che affronta i cattivi spaventandoli e con il quale non possiamo non provare simpatia), si contrappongono gli svariati personaggi del film che sono sempre in bilico, al margine tra due realtà, in una situazione di precarietà sprituale e comportamentale (come la presenza-simbolica del "personaggio-autore" interpretato da Takeshi Kitano dimostra).
    Il film subisce una profonda trasformazione. K. all'inizio possiede il controllo del suo mondo (è capace di modificare le sue stesse creazioni come il videogame, oppure è in grado di trasformarne la natura, come la pistola che diventa per lui oggetto di fascinazione quando le sue vittime gli trasmettono la loro paura), e allo stesso tempo incapace di avere un contatto fisico con il mondo reale (non riesce a toccare le gambe di Hinano) ma dopo l'incontro con la ragazza perde progressivamente il dominio sul suo universo virtuale per diventare uomo. Hinano diventa così l'ingenuo, testardo, angelo redentore che lo salva dalla dannazione, dall'alienazione del mondo tecnologico.
    La scena finale in cui la ragazza chiede a K. di toglierle di dosso della polvere "virtuale" dagli occhi si trasforma in un appassionante omaggio alla vita. L'ossessione dello sguardo, della sua passività, della sua componente macabra e malata (che più di una volte rimanda alla morte non solo nel film, anche se virtuale, ma anche in alcuni illustri precedenti come L'occhio che uccide e La finestra sul cortile) diventa nel finale di Tokyo Eyes un omaggio alla vita.

Sebastiano Lucci

 
Martedì 5 giugno ore 21.00

eXistenZ D. Cronenberg (Canada, UK, 1999)

Scheda da Tempi Moderni

 

CAST TECNICO ARTISTICO

Sceneggiatura e Regia: David Cronenberg
Fotografia: Peter Sushitzky
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Musica: Howard Shore
Montaggio: Ronald Sanders
Prodotto da: Robert Lantos
(Canada, Uk, 1999)
Durata: 98 ’
Distribuzione cinematografica: Cecchi Gori Group

PERSONAGGI E INTERPRETI

Allegra Gheller: Jenifer Jason Leigh
Ted Pikul: Jude Law
Gas: Willem Dafoe
Kiri Vinokur: Ian Holm

 

La console per videogiochi del futuro sarà alimentata dal nostro stesso corpo, si connetterà direttamente al nostro midollo spinale nutrendo la nostra mente e dandoci la sensazione di vivere la realtà tridimensionale di mondi inesistenti. Allegra Gheller è la più famosa creatrice di videogiochi virtuali ed una sessione test del nuovo apocalittico programma eXistenZ è un irresistibile invito per gli adepti così come per gli acerrimi nemici dei creatori di realtà artificiali.

Quale è la "vera" realtà? E’ quella in cui mi trovo mentre mi pongo la domanda o quella che si schiuderà davanti ai miei occhi una volta trovata la risposta? Con eXistenZ David Cronenberg sposa il reale al surreale connotando la materia organica come in simbiosi con l’inorganica attraverso una continua metamorfosi cerebrale. La mente e quanto di più infinitamente caleidoscopico si annida dentro ognuno di noi, è oggetto di sfida e di invenzione per il grande regista canadese instancabile fabbricatore di universi mutageni. Il racconto ci può suggerire un’interpretazione superficiale la cui linearità è propria dei videogiochi, oppure ci si può abbandonare ad un metaviaggio ricco di suggestioni virtuali, di realtà che si schiudono davanti ai nostri occhi come in un gioco di scatole cinesi. Nessun confronto possibile con opere come Matrix, Strange Days o Brainstorm ma solo l’eco amplificato che scaturisce dal film Videodrome girato dello stesso regista sedici anni prima e a cui eXistenZ rimane legato da un cordone ombelicale. Un nuovo  passo sperimentale per un Cronenberg sempre più profondo, visivamente escatologico (i resti di rettili e anfibi mutanti che si trasformano in una pistola spara-denti) e sempre più ossessionato dalla viscerale organicità che scaturisce dal caos di molteplici piani di visione.

Claudio Pofi

 

Venerdì 8 giugno ore 21.00

Città nuda C.Yannaris (Grecia 1998)

Scheda non a cura di Oltre l’Occidente

 

In un povero sobborgo di Atene le vite di alcuni ragazzi tutti accumunati dall'estrema povertà, che cercano di tirare avanti tra furti e prostituzione. Sono i 'russi del Ponto', greci originari della costa del Mar Nero, che adesso vivono in un povero sobborgo di Atene, stranieri nella loro stessa patria. Li accomuna la comune povertà, la fame di ricchezza ad ogni costo, la mancanza di scrupoli. Il diciassettenne Sasha è il capo di un gruppetto di ragazzi. Sasha vuole tutto e subito. Sogna il portafoglio pieno e le ragazze in fila. Conosce un protettore di prostitute, Giorgos, appena più grande di lui, che gli propone di sorvegliare la russa Natasha. Per lui si tratta di un lavoro come un altro e forse della possibilità di arricchirsi. Affresco della Grecia contemporanea firmato da uno dei più promettenti talenti della nuova generazione di cineasti greci.

 

Martedì 12 giugno ore 21.00

Mondo grua C. Trapero (Argentina, 1999)

Scheda da Film Up

 

Carlo Trapero, giovane regista argentino, è alla sua prima direzione di un lungometraggio, e già ha ricevuto numerosi riconoscimenti per "Mondo Grua": Premio "Settimana della Critica" al festival di Venezia del 1999, Premio della critica e Premio "Tiger" al Rotterdam Film Festival 2000 e Premio Speciale della Giuria all'Havana Film Festival del 1999.

Diplomato in regia cinematografica all'Università del Cine, risente dell'influenza di film come "Tempi Moderni" di Chaplin, e di registi come Fellini, Bergman ed Herzog, e di neorealisti come Truffaut e Rohmer. In ogni caso si sente molto più vicino al cinema europeo, che non di quello più commerciale di origini americane. L'idea del film "Mondo Grua", nasce quasi per caso, quando affascinato dai lavori di un cantiere che costruiva l'edificio della facoltà, ottenne i fondi per girarne un documentario. Poi i lavori vennero spostati, e l'idea del documentario venne scartata a favore di un progetto più cinematografico: la storia di un operaio di cinquant'anni che cerca lavoro come manovratore di gru, girata in VHS. Il progetto venne inviato alla selezione del Festival di Rotterdam che gli diede il denaro per continuare le riprese, da allora divenne un film vero, girato in 16mm. La sceneggiatura finale non si è discostata molto da quella inviata a Rotterdam, ma molte scene vennero ampliate e approfondite mentre venivano girate, e questo, a detta del regista-autore, aumentava la spontaneità dell'azione.

L'attore protagonista non è un professionista, ma un amico elettricista cinquantenne, che come il personaggio che interpreta tutti chiamano Rulo e che negli anni settanta suonava in una band. Comunque, pur sentendosi parte di quella corrente di artisti del realismo, Trapero ritiene di non essere un fanatico come molti registi che fanno un film per soddisfare il puro capriccio di un pubblico ristretto. Il suo interesse, infatti, non cade sul costume o sulla denuncia sociale, ma sul modo di raccontare una storia, in modo che la gente si possa sentire parte di ciò che vede sullo schermo.

 
Zoom su A.Gitai

 

Venerdì 15 giugno ore 21.00

Kippur (Italia/Israele 2000)

 

Kippur tutto incentrato sull’attacco che Israele subì nel 1973 da parte di Egitto e Siria. Il film è tratto dall’esperienza autobiografica del cineasta israeliano: memoria in prima persona, che traspone su un piano funzionale l’esperienza del regista, combattente e gravemente ferito in quella guerra-lampo.

 

Martedì 19 giugno ore 21.00

Kadosh (Francia/Israele 1999)

Scheda da Tempi Moderni

 

Regia: Amos Gitai
Sceneggiatura: Amos Gitai, Eliette Abecassis
Fotografia: Renato Berta
Scenografia: Miguel Markin
Musica: Philippe Eidel
Montaggio:
Prodotto da: Agav Hafakot, M.P.Productions, Le Studio Canal + (Francia), Mikado Film in collaborazione con la Rai
(Israele, 1999)
Durata: 110'
Distribuzione cinematografica: Istituto Luce

PERSONAGGI E INTERPRETI

Rivka: Yael Abecassis
Meir: Yoram Hattab
Malka: Meital Barda
Yossef : Uri Ran Klauzner

 

"Il cinema è l’arma più forte". Con queste parole, il 28 aprile 1937 Benito Mussolini inaugurava gli stabilimenti di Cinecittà, mettendo, così, in evidenza quale formidabile strumento di propaganda può diventare il mezzo cinematografico. Anche se il parallelismo potrebbe apparire un po’ troppo ardito, guardando il nuovo film del regista israeliano Amos Gitai Kadosh (sacro) non si può che condividere questa asserzione. Già, perché la pellicola in questione, presentata al festival di Cannes e uscita qualche tempo prima delle elezioni per il rinnovo del parlamento israeliano e l’elezione del primo ministro, ha avuto, secondo molti, grande peso nella vittoria del leader laburista Barak, contro le forze dell’estremismo religioso. E bisogna ammettere che il ritratto di Mea Shearim, il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, che il cineasta israeliano ci presenta risulta veramente indigesto a qualsiasi persona dotata di un minimo senso dell’equilibrio. Anche perché la forza di Kadosh risiede nel fatto che, pur parlando di una comunità lontana mille anni luce dal nostro modo di vivere, i drammi dei protagonisti del film sembrano vicini a noi, tanto che lo spettatore è in grado di calarsi perfettamente in questa realtà e partecipare alle loro sofferenze.

La tragedia che si consuma in Kadosh riguarda due sorelle: Rivka e Malka. La prima è sposata da dieci anni con Meir, i genitori le hanno scelto lo sposo, come è tradizione a Mea Shearim, eppure la loro unione sarebbe felice, se fosse allietata dalla nascita di un bambino. Dopo molti tentennamenti, l’uomo viene costretto a divorziare dalla moglie sterile che, in quanto tale, non assolve ai suoi compiti. Ma Rivka nel suo dolore non è sola, accomunata da un triste destino c’è la sorella Malka, che viene data in sposa a un uomo che non ama, in quanto il suo cuore è già stato conquistato da un giovane musicista che ha deciso di vivere fuori dalla comunità. Di fronte a scelte che le sono state imposte, Malka reagisce in maniera diversa dalla sorella che, invece, accetta l’allontanamento dalla casa e dal marito.

Gran parte del merito del film va senz’altro al regista che ha saputo creare una narrazione scarna e compatta, in grado di sviscerare la vicenda attraverso dialoghi secchi e inquadrature incollate sui volti dei protagonisti. Una scrittura, insomma, che non fa concessioni al sentimentalismo, ma che allo stesso tempo, mette da parte il registro del documentario, per partecipare della storia dei personaggi. Importante si rivela anche la recitazione dei diversi attori, in grado di connotare i personaggi della pellicola, senza cadere nel patetico (e il rischio c’era), in particolare splendida la prova Yael Abecassis, la moglie ripudiata e Meital Barda (Malka), che ha vissuto un a storia simile a quella del suo personaggio: proveniente da una famiglia religiosa ha dovuto abbandonare i genitori, per realizzare il suo sogno di diventare attrice.

Irene Fornari

 

Dis-Integrazioni

 

Venerdì 22 giugno ore 21.00

Beautiful people J. Dizdar (Gran Bretagna, 1999)

Scheda da ReVision

 

Titolo: Beautiful people (Id.)
Regia: Jasmin Dizdar
Sceneggiatura: Jasmin Dizdar
Fotografia: Robert Richardson
Interpreti: Charlotte Coleman, Charles Gray, Rosalind Ayres, Roger Sloman, Heather Tobias, Danny Nusbaum, Siobhan Redmond, Gilbert Martin, Steve Sweeney, Linda Bassett, Nicholas Farrell, Faruk Pruti, Dado Jehan, Edin Dzandzanovic
Nazionalità: Gran Bretagna, 1999
Durata: 1h. 47'

 

Come tutte le cose, su questa terra, gli eventi tragici posseggono due facce. Quella del dolore, del lutto, e quella dell'ironia, del sorriso che si mette in opera per rimuovere il pianto. I popoli dell'Est hanno conseguito una sorta di specializzazione in questo processo di cancellazione, che diviene sovente affabulazione, voglia di raccontare una storia. Ha cominciato Radu Mihaileanu con Train De Vie e il dramma dell'Olocausto, prosegue l'esordiente bosniaco Jasmin Dizdar con Beautiful People, e la sanguinosa guerra nella ex-Jugoslavia. Bella gente i profughi, che si mescolano all'ignara popolazione londinese affancendata nelle sue civili attività. Sembra non accorgersi di questi strani individui, che si guardano attorno come se fossero stati catapultati in quella città da un lontano ed alieno pianeta.

Gioca su questo senso dell'estraneità le sue tragicomiche carte, Beautiful People, sulla naturale diffidenza che gli esseri umani mostrano verso la "diversità". Quello stesso atteggiamento che trasforma nel centro del mondo la partita di calcio che l'Inghilterra deve giocare contro l'Olanda, e che genera altra intolleranza. Bosniaci contro serbi, inglesi contro olandesi, l'aggressività non contabilizza le differenze etniche. Pure, i profughi si intrufoleranno lentamente nella vita di quattro famiglie britanniche. Tra litigi ed equivoci, si apre una breccia nel muro, in grado di gettare uno spiraglio di luce sul caos.

Davanti ad una materia così difficile, foriera di essere banalizzata o peggio ridicolizzata, Dizdar orchestra l'avanzare degli avvenimenti con un piglio che ricorda quello di Kusturica. In questi momenti, sorretto anche dalla musica, Beautiful People si trasforma in un balcanico can can, ricco di ritmo, che sa aggirare le situazioni più stereotipate con il coraggio immenso della commedia. Quando si prende delle pause, lascia emergere tra le pieghe della storia il vissuto spesso amaro, e fatto di solitudine, dei personaggi. I profughi, pieni di rancore e di rimpianti per il paese sconvolto che si sono lasciati alle spalle, e gli inglesi, alle prese con le piccole e grandi crisi familiari, le violenze, l'incertezza, il gran problema degli hooligans, la droga persino.

Il film miscela sapientemente il mazzo di carte che ha a disposizione, raccontando con una semplicità ora inaudita ora disarmante una vicenda profondamente umana. Non darà grande sfoggio di estro visivo, Dizdar, o di smodato talento registico, che lo possa rendere paragonabile al "maestro" Emir. Ma sa calibrare al punto giusto gli ingredienti della sua ricetta, tanto da essersi meritato gli applausi di una platea dai gusti esigenti come quella di Cannes. Ce ne fossero, tutto sommato, di film come questo. Nel caos, parola che nella storia viene ad assumere il doppio segno di constatazione e speranza, c'è posto per un raggio di sole, per la luce del futuro.

Riccardo Ventrella

 
Martedì 26 giugno ore21.00

Gadjo dilo Tony Gatlif

Scheda da reVision

 

Un paio di scarpe sfondate a coprirgli i piedi, un sacco a tracolla ed un registratore in tasca, così un giovane uomo percorre le strade ghiacciate della campagna rumena alla ricerca di sè stesso attraverso quelle labili tracce che, fili ormai evanescenti, rappresentano l'ultimo contatto con un passato al quale continua a rimanere aggrappato. Il suo nome è Stéphane, un gadjo, uno straniero, i suoi nuovi amici degli zingari, gli abitanti del villaggio zigano tappa del suo peregrinare. E sono ancora una volta i gitani, quindi, ed il loro mondo, ad essere al centro di Gadjo Dilo, il film con cui Tony Gatlif viene a completare un vero e proprio trittico aperto nel lontano 1983 con Les Princes e poi proseguito in tempi più recenti con l'acclamato Latcho Drom, un incontro che rappresenta un possibile tentativo di dialogo fra due culture opposte, laddove rifiuto, paura e disprezzo hanno da sempre caratterizzato la visione che dello zingaro ha l'uomo cosiddetto "civile", un razzismo che è sì presente anche qui nei rapporti fra rumeni e gitani, ma che assume canzonatori toni di burla nell'opposta reazione all'ingresso dello straniero nel villaggio: Stéphane non è uno di loro, ed i suoi vestiti logori, le scarpe rotte, quel sacco informe, lo fanno apparire ai loro occhi come un possibile ladro di polli, un rapitore di bambini, un pericolo per tutte le donne. Ma Stéphane (Romain Duris, che ricorderete in Dobermann) non vive di convenzioni, è uno spirito libero, semplice e genuino; fin dal primo incontro con Izidore, il capo del villaggio, lui ha imparato ad amare questa gente ed un mondo fino ad allora sconosciuto. Partito alla ricerca di Nora Luca, una misteriosa cantante zigana, niente altro che un nome scritto frettolosamente a penna sul dorso di una cassetta che suo padre, negli ultimi mesi di vita, amava ascoltare, Stéphane, guidato da Izidore che in lui vede il figlio strappatogli con la forza, è entrato a far parte di una comunità della quale ha man mano assorbito le usanze e le tradizioni, ed il gadjo, dapprima visto con diffidenza, poi con curiosità, è diventato uno di loro.

Ed è proprio il cammino di Stéphane, quel suo viaggio fuori da ogni schema, ad affascinare, il lavoro fatto da Tony Gatlif su quegli sguardi pieni di vita, sulle sincere espressioni di stupore, riportando l'approccio di un attore parigino alla realtà della cultura zigana, immergendolo in una dimensione fatta non di attori professionisti ma di veri gitani, fino quasi a confondere il percorso compiuto da Stéphane con quello di Romain, le reazioni dell'uno con quelle dell'altro.
L'ostinata ricerca di Nora Luca non è altro che il rifuggire il presente restando saldamente legato alle proprie radici, il girovagare da un villaggio all'altro alla ricerca di testimonianze musicali da registrare tradisce ancora lo sguardo indagatore dell'uomo occidentale e la sua smania di catalogare tutto ciò in cui si imbatte, ma l'amore per la bella e ribelle Sabina (Rona Hartner, attrice e cantante di Bucarest), le cerimonie intrise di gioia e dolore che risalgono alle più profonde tradizioni popolari, gli stessi eventi ammantati di un razzismo il cui inevitabile sfocio non può essere altro che un'incontrollabile violenza, porteranno Stéphane ad una presa di coscienza che significherà tagliare ogni ponte con quella società alla quale non sente più di appartenere, per fare il proprio ingresso, a pieno titolo, in quel nuovo mondo che ha ormai conquistato il suo cuore.

Carlo Cimmino